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Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
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IL DANNO NON PATRIMONIALE: ISTRUZIONI PER L'USO

Resp. civ. e prev. 2009, 1, 0094X1133143

Patrizia Ziviz
Associato di diritto privato nell'Università di Trieste

Sommario: 1. Il controverso statuto del danno non patrimoniale. − 2. Le deludenti risposte delle Sezioni Unite. − 3. La bipolarità del sistema aquiliano. − 4. La risarcibilità dei danni non patrimoniali. − 4.1. La lesione di diritti inviolabili. − 5. La generica nozione di danno non patrimoniale. − 6. L'ammissibilità del danno esistenziale. − 6.1. La rilevanza costituzionale del danno. − 7. Il problema dei danni bagatellari. − 7.1. Le decisioni secondo equità dei giudici di pace. − 8. Il principio di integrale riparazione. − 9. I mezzi di prova. − 10. Il danno non patrimoniale da inadempimento. − 11. La soluzione dei quesiti. − 12. La resilienza del sistema risarcitorio.

1. Il controverso statuto del danno non patrimoniale
La storia del danno non patrimoniale ha visto trascorrere un lustro abbondante tra la celebre svolta interpretativa sancita dalle sentenze gemelle (1) e le quattro recenti decisioni adottate in serie dalle Sezioni Unite. Tale periodo è stato segnato da una lunga e spesso sterile polemica incentrata sul danno esistenziale, il quale − malgrado il successo registrato in giurisprudenza − si è visto porre al centro di aspre critiche miranti a sostenere una presunta inconsistenza della categoria. Sull'onda della contrapposizione che, sul punto, si è registrata anche in seno alla Cassazione è stato allora sollecitato un definitivo intervento al fine di dirimere il conflitto (2).
In verità, la necessità di un chiarimento nel settore del danno non patrimoniale concerne non solo (e non tanto) l'ammissibilità di una figura come quella del danno esistenziale all'interno del sistema aquiliano, quanto − piuttosto − una più generale ridefinizione dell'intero assetto di regole che governano la materia (3). Le questioni in campo appaiono ampie e complesse, e possono essere sintetizzate attraverso i seguenti punti fondamentali:
a) la definizione del concetto di danno non patrimoniale e l'identificazione delle voci di pregiudizio che devono essere ricondotte entro tale categoria;
b) l'individuazione della regola risarcitoria applicabile ai pregiudizi in questione, ricavata tramite un'interpretazione dell'art. 2059 c.c. costituzionalmente compatibile;
c) la determinazione del ruolo esplicato dalla norma che disciplina i danni non patrimoniali all'interno del sistema aquiliano − con particolare riguardo ai rapporti con l'art. 2043 c.c. e alla funzione dalla stessa assolta − nonché della sua (eventuale) influenza al di fuori della responsabilità da fatto illecito;
d) l'esplicitazione dei criteri da applicare in materia di prova e liquidazione dei danni non patrimoniali.
La necessità di una verifica complessiva circa lo statuto applicabile in materia di danno non patrimoniale è emersa, del resto, con chiara evidenza proprio in seno all'ordinanza n. 4712/2008, la quale ha invocato l'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, sottoponendo alle stesse una serie di otto quesiti ed un elenco di nove precisazioni − attraverso le quali si esprimono altrettante regole applicabili in materia non patrimoniale − per le quali si chiede conferma.
2. Le deludenti risposte delle Sezioni Unite
La prolungata gestazione cui sono state sottoposte le sentenze di risposta delle Sezioni Unite, che ha visto trascorrere quasi cinque mesi tra l'udienza e il deposito dei provvedimenti, lasciava sperare nell'emanazione di quella che avrebbe dovuto essere una sorta di tavola dei comandamenti in materia del danno non patrimoniale. Ci si attendeva, al di là della posizione specificamente assunta, un intervento sistematico, chiaro, completo. Ben diverso, purtroppo, appare l'esito concreto cui sono addivenuti i giudici di legittimità.
Le risposte sono arrivate attraverso quattro sentenze, le quali presentano un corpo comune − dedicato all'esame di quella che viene definita come questione di particolare importanza − attraverso il quale si punta a risolvere gli interrogativi proposti dall'ordinanza n. 4712/2008. Tale intento, tuttavia, non ha trovato concreta realizzazione; per usare una metafora abusata ma quanto mai adatta a descrivere la sensazione che si ricava dalla lettura di tale corpo comune, ben si può affermare che la montagna ha partorito un topolino. A nessuno sfugge la sproporzione che emerge tra lo sforzo profuso nell'ordinanza di rimessione − dove viene evocata tutta la complessa trama di nodi che devono essere sciolti al fine di dar vita ad un sistema risarcitorio armonioso e costituzionalmente coerente − e la risposta fornita dalle sentenze dell'11 novembre 2008. A venire, anzi tutto, in evidenza è la sostanziale inadeguatezza di carattere dogmatico della quale appaiono permeate le argomentazioni messe in campo dai giudici di legittimità. Le stesse risultano esposte in maniera frammentaria (4), peccano spesso di approssimazione (5) e si rivelano ora contraddittorie (6), ora categoriche (7), ora assiomatiche (8), mettendo in luce inversioni logiche (9) e alimentando vere e proprie aporie (10).
Il corpo comune delle decisioni seriali − dopo aver riassunto i quesiti proposti ad esse sottoposti (11) − si snoda attraverso un sommario richiamo alla situazione preesistente rispetto alla svolta interpretativa del 2003 (12), cui segue il rinvio al dettato delle sentenze gemelle. Alle conclusioni da queste ultime raggiunte le Sezioni Unite affermano di volersi uniformare, facendone propria l'interpretazione in materia di danno non patrimoniale (13). In verità, i giudici di legittimità completano l'interpretazione del 2003 con una serie di precisazioni che si traducono in un sostanziale restringimento dei margini di tutela ammessi lungo il versante non patrimoniale del pregiudizio, così come emergenti in seno alle sentenze gemelle e confermati nel corso del lustro successivo da parte di assai copiosa giurisprudenza. L'unico obiettivo che risulta essere perseguito con estrema pervicacia da parte delle Sezioni Unite sembra essere quello volto ad innalzare argini sempre più alti a fronte della temuta marea di richieste risarcitorie che si ritiene possa essere alimentata dalla presenza del danno esistenziale nel sistema. Il ragionamento dei giudici di legittimità appare costantemente improntato ad una sorta di processo degenerativo del c.d. floodgate argument(14), che li spinge ad imboccare una svolta restrittiva − sia nel settore dell'illecito aquiliano che contrattuale − quanto alla regola di risarcibilità da applicarsi in campo non patrimoniale. Ed è questo risultato, allora, che deve essere stigmatizzato nel suo complesso, in ragione del passo indietro che esso mira ad imporre al percorso di progressivo sviluppo che si è inverato in questi anni sul terreno della protezione della persona.
Il giudizio critico nei confronti delle decisioni seriali investe, in definitiva, sia il piano dogmatico che quello di politica del diritto. Proprio la presenza di diffuse lacune lungo il versante teorico, tuttavia, rappresenta il mezzo utile per impedire l'avverarsi di un processo involutivo per quel che concerne la salvaguardia della persona. All'interprete spetta mettere in luce le smagliature del ragionamento seguito dai giudici di legittimità e di valorizzare, altresì, talune affermazioni delle Sezioni Unite che − seppur senza rivestire carattere di particolare originalità − forniscono indicazioni del tutto condivisibili a sostegno di una piena protezione dell'individuo. È con l'intento, allora, di sottolineare entrambi questi profili che verrà esaminato il corpo comune delle sentenze seriali, avendo di mira l'obiettivo di individuare quelle "istruzioni per l'uso" che l'interprete dovrà seguire per salvaguardare i traguardi che sono stati fino ad oggi raggiunti − sul fronte della protezione della persona − dal diritto vivente.
3. La bipolarità del sistema aquiliano
Il punto di partenza del ragionamento delle Sezioni Unite è costituito da un rapido cenno ai rapporti intercorrenti tra art. 2059 e art. 2043 c.c., con riguardo al quale si afferma che la prima disposizione "non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva)". Poco più avanti, tuttavia, tale strutturazione in termini gerarchici della relazione tra le due norme viene smentita (15), e i giudici di legittimità sottolineano come le disposizioni in parola si pongano a fondamento della bipolarità del sistema risarcitorio. Ad essere sancito è, pertanto, un parallelismo tra le due regole, le quali verrebbero a differenziarsi quanto ad un differente atteggiarsi del requisito dell'ingiustizia: improntata ad un criterio di atipicità − correlato alla lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante − in caso di danno patrimoniale, e di tipicità − in quanto ricorrente "solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona" − per quello non patrimoniale.
L'art. 2059 si porrebbe, nell'ottica bipolare (16), quale norma a fattispecie incompleta, in quanto mirante a definire il solo requisito dell'ingiustizia, mentre gli altri presupposti della responsabilità andrebbero individuati alla luce dell'art. 2043 ovvero delle norme che determinano i regimi speciali di responsabilità. Alla norma in questione spetterebbe soltanto l'identificazione degli interessi rilevanti in ambito non patrimoniale: la quale ha luogo ad opera della legge o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza di uno specifico diritto inviolabile della persona, presidiato in quanto tale dalla tutela risarcitoria. Non appare chiaro, d'altro canto, se l'ingiustizia in tal modo definita si ponga come filtro ulteriore ovvero alternativo a quello stabilito dall'art. 2043 (17); se quindi − nell'ambito dell'art. 2059 c.c. − la selezione debba avvenire dapprima attraverso l'accertamento della lesione di un interesse meritevole di tutela e poi tramite la griglia dei casi tipici, oppure se essa appaia incardinata elusivamente intorno a questi ultimi.
Quale che sia l'opzione sotto quest'ultimo profilo, appare evidente che − da un sistema imperniato sulla logica bipolare − emerge una differenza di trattamento tra danni patrimoniali e non patrimoniali. In particolare, laddove la lesione si presenti come ingiusta ai sensi dell'art. 2043, saranno risarcibili i pregiudizi economici dalla stessa discendenti, mentre non altrettanto potrà dirsi per quelli non patrimoniali, ove non si rientri nel sistema limitativo previsto dall'art. 2059 c.c. Nessun tipo di argomentazione viene tuttavia spesa, dalle Sezioni Unite, al fine di giustificare una simile diversità: la quale segue una logica diametralmente opposta a quella costituzionale, assicurando al patrimonio una tutela più ampia di quella prevista per la persona. Dal momento che la discriminazione non può essere oggi fondata sull'attribuzione di una funzione affittiva al ristoro del danno non patrimoniale (18), si tratterebbe di individuare un criterio alternativo che consenta di qualificare come ragionevole la disparità alla luce della previsione dell'art. 3 Cost.; e, ove lo stesso non fosse identificabile, una simile strutturazione del sistema risarcitorio finirebbe per rivelare un'incompatibilità di fondo con le linee guida disegnate dalla Carta fondamentale.
Ragionando in una diversa prospettiva, bisognerebbe accogliere l'idea di una strutturazione del rapporto tra art. 2043 e art. 2059 imperniata sulla falsariga delle indicazioni iniziali fornite dalle stesse Sezioni Unite. Il ruolo spettante all'art. 2059 c.c. non sarebbe, allora, quello di individuare la ricorrenza della responsabilità in capo al danneggiante, bensì quello di disciplinare gli effetti della stessa, sotto al profilo risarcitorio. Bisogna, cioè, riconoscere che la regola posta da tale disposizione è chiamata a governare i profili del quantum respondeatur e non già quelli relativi all'an: il che significa che la tipizzazione normativa cui rimanda l'art. 2059 non opera a livello di selezione dell'interesse protetto, ma punta − invece − a stabilire con quale ampiezza debba esplicarsi la riparazione delle conseguenze dannose (di una lesione rilevante in termini di ingiustizia) che non rivestono carattere patrimoniale.
4. La risarcibilità dei danni non patrimoniali
Nel definire la regola di risarcibilità vigente in materia di danno non patrimoniale, le Sezioni Unite affermano che essa dev'essere ricavata attraverso l'individuazione delle norme che prevedono la tutela a fronte dello stesso. E vengono qui distinti gruppi di ipotesi: da un lato, i casi di espressa previsione legislativa (con riguardo ai quali − nel riservare una menzione a parte all'art. 185 c.p. (19) − ci si limita ad un elenco sciatto (20), incompleto (21), ed impreciso (22)); dall'altro lato, le ipotesi di lesione di diritti inviolabili. In buona sostanza, accanto ai casi di risarcibilità testuale previsti esplicitamente dal legislatore, sussisterebbe una risarcibilità virtuale, la quale andrebbe dedotta dal carattere inviolabile attribuito ad un determinato diritto.
Le Sezioni Unite si soffermano sulle varie ipotesi concrete di ristoro del danno non patrimoniale (23), con l'obiettivo di verificare quali siano gli interessi protetti. Le conclusioni cui si perviene sono le seguenti:
a) in presenza del reato è risarcibile il danno non patrimoniale conseguente non soltanto alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili, ma anche alla violazione di qualsiasi interesse meritevole di tutela in base all'ordinamento (24), secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c. (25);
b) negli altri casi previsti dalla legge la selezione dell'interesse meritevole di tutela avviene direttamente ad opera del legislatore (26), al quale − osservano i giudici di legittimità − spetta la possibilità di prevedere la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti alla persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili (27), privilegiandone taluno rispetto agli altri (28);
c) al di fuori "dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata". A tale riguardo, viene precisato che la "tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana".
A completamento di tali indicazioni le Sezioni Unite sottolineano (29) che la regola dell'art. 2059 c.c. non potrebbe essere tacciata di illegittimità "in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poiché la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili".
I giudici di legittimità aggiungono, poi, un ulteriore tassello ai fini della definizione della regola di risarcibilità del danno non patrimoniale, affermando che il "superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell'art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno": tale ipotesi integra, quindi, non già un ulteriore caso previsto dalla legge, ma determina una disapplicazione dell'art. 2059 c.c., destinato a soccombere a fronte del prevalere della norma comunitaria(30).
La regola così enunciata determina all'interno della categoria dei danni non patrimoniali una disparità di trattamento che non appare giustificata da alcun criterio razionale. Si tratta di osservare che − secondo quanto affermano le Sezioni Unite − il legislatore può bensì privilegiare sul piano risarcitorio taluni interessi (non protetti a livello costituzionale), rispetto ad altri dello stesso rango, ma ciò può avvenire esclusivamente se tale differenza di trattamento risulti fondata su un criterio ragionevole; altrimenti tale disparità si porrebbe in contrasto con i principi dell'art. 3 Cost. Da questo punto di vista, non appaiono risolutive le considerazioni dei giudici di legittimità secondo cui la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile opera soltanto per la lesione dei diritti inviolabili. Tale affermazione, infatti, non vale a spiegare perché la violazione di un interesse non costituzionalmente protetto trovi differente riscontro a seconda essa rientri o meno nei casi esplicitamente previsti.
In buona sostanza, non emerge nelle argomentazioni dei giudici di legittimità l'individuazione di alcun denominatore comune sulla base del quale stabilire la linea di discrimine tra danni non patrimoniali rilevanti o meno sul piano risarcitorio; esso non può essere, infatti, incardinato nella rilevanza costituzionale dell'interesse colpito, dal momento che − come sottolineano le stesse Sezioni Unite − nei casi normativamente previsti vengono in evidenza interessi che non rivestono tale valenza.
4.1. La lesione di diritti inviolabili
Ogni lesione di diritti inviolabili integra, secondo le Sezioni Unite, un caso di risarcibilità in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante a posizioni che rivestono una simile caratura. La regola così enunciata in realtà non appare completa, poiché due ulteriori parametri restrittivi risultano introdotti all'atto della trattazione dei danni bagatellari. Già nel riferirsi alla lesione di diritti inviolabili, si individua comunque una regola più limitativa rispetto a quella tratteggiata dalle sentenze gemelle, che parlavano − più genericamente − di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti.
Nel descrivere il modo di operare dell'allargamento della regola risarcitoria, si sottolinea che esso ha luogo ampliando i casi previsti dalla legge alle ipotesi di diritti inviolabili. I giudici di legittimità affermano che "per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico" (31). Ad esso si aggiungono il danno da lesione del rapporto parentale, conseguente alla lesione di diritti di carattere familiare e il danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome e alla riservatezza.
L'elencazione, per il momento, si arresta a questo punto, ma anche guardando alle considerazioni che si ricavano nel prosieguo del testo rimane asfittica e striminzita (32) rispetto alle aspettative riposte nelle statuizioni delle Sezioni Unite (33). Si tratta, altresì, di sottolineare che le indicazioni fornite dai giudici di legittimità appaiono piuttosto contraddittorie: da un lato, si riconosce la natura inviolabile del diritto alla sessualità coniugale, mentre, dall'altro lato, tale caratteristica viene negata in ordine ai diritti protetti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo ovvero alla libertà di circolazione (34).
Il rigore di un riferimento che comprende esclusivamente il novero dei diritti inviolabili viene, in realtà, fortemente temperato dal fatto che l'elenco degli stessi appare sostanzialmente aperto. La risarcibilità dev'essere assicurata − secondo quanto affermano le stesse Sezioni Unite − a fronte della lesione di qualunque diritto della persona di cui all'art. 2 Cost. È questo, allora, l'ingranaggio fondamentale che dovrà essere azionato − per assicurare la più ampia protezione dell'individuo − dall'interprete: il quale potrà evocare, tra le posizioni protette dalla norma costituzionale, il diritto alla dignità umana, la cui inviolabilità risulta solennemente riconosciuta dall'art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
5. La generica nozione di danno non patrimoniale
All'atto dell'individuazione degli interessi che, nel nostro sistema, risultano protetti sul piano non patrimoniale, le Sezioni Unite formulano alcune considerazioni con riguardo alla differente questione relativa alla definizione del concetto di danno non patrimoniale.
Due i momenti in cui emergono alcune considerazioni al riguardo. In un primo tempo, parlando di reato, le Sezioni Unite si soffermano sul concetto di danno morale e, dopo aver messo in dubbio il fondamento normativo della figura, sottolineano che la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo. L'etichetta "danno morale" sarebbe, in particolare, idonea ad individuare non già un'autonoma categoria di danno, ma servirebbe a descrivere "un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata"(35), la cui intensità e durata nel tempo non assumerebbero rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della relativa quantificazione (36). In seconda battuta − riferendosi alle ipotesi di lesione di diritti inviolabili − le Sezioni Unite affermano che, a fronte di tali casi, non emergono "nell'ambito della categoria generale "danno non patrimoniale", distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale". Sarebbero, quindi, destinati ad assumere valenza puramente descrittiva i riferimenti al danno biologico in caso di lesione della salute, ovvero al danno da perdita del rapporto parentale a fronte della violazione dei diritti di carattere familiare.
Si tratta di affermazioni che, in entrambi i casi, trascendono il campo della specifica figura di illecito presa in considerazione e vengono ad investire la categoria del danno non patrimoniale considerata nel suo complesso: quest'ultima viene vista, cioè, quale unico punto di riferimento per l'interprete. Essa non si presterebbe, perciò, ad essere scomposta in sottocategorie di vario tipo; a conferma di tale conclusione, le Sezioni Unite sottolineano la propria adesione a quelle indicazioni delle sentenze gemelle miranti ad affermare che non sarebbe proficuo ritagliare − all'interno della generale categoria del danno non patrimoniale − specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo.
La nozione di danno non patrimoniale cui si rifanno le Sezioni Unite appare, in buona sostanza, quella tracciata nelle prime righe del corpo comune e si identifica con "il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti (al)la persona non connotati da rilevanza economica" (37). Si tratta di una definizione che appare, in realtà, impropriamente limitativa, in quanto il requisito della non patrimonialità viene riferito non già alle conseguenze della lesione, bensì all'interesse leso. In tal modo, restano esclusi dal concetto i riflessi non economici derivanti dalla lesione di diritti patrimoniali (38). Non solo: l'utilizzo di una definizione la quale trascuri di porre l'accento sulle conseguenze del torto − per rimanere incentrata sull'interesse leso − è suscettibile di sfociare nel riconoscimento automatico della tutela riparatoria per quel certo pregiudizio, a prescindere da qualsiasi verifica concreta circa le effettive ripercussioni negative patite dalla vittima.
Solo in un passaggio formulato molto più avanti nel testo emergerà un concetto di danno non patrimoniale configurato in termini di conseguenza: si parla, infatti, di tale pregiudizio nei termini di "ripercussioni negative sul valore uomo" (39). Anche in questo caso, tuttavia, non sembra che la definizione sia del tutto soddisfacente. In primo luogo, il valore uomo non incarna un fenomeno empiricamente rilevabile e pertanto − lungi dal fornire qualche indicazione in termini contenutistici con riguardo al pregiudizio da risarcire − finisce per rappresentare una mera sintesi di tutti gli interessi che fanno capo alla persona. In seconda battuta, si tratta di rilevare che un concetto del genere non sembra poter essere applicato con riguardo al pregiudizio risentito dalle persone giuridiche: che pure − come rammentano le stesse Sezioni Unite − ha rappresentato uno dei punti di riferimento richiamati, all'epoca della svolta del 2003, allo scopo di giustificare l'ampliamento della nozione di danno non patrimoniale oltre i confini del patema d'animo.
Bisogna, in definitiva, sottolineare come entrambe le definizioni individuino un concetto costruito in termini complementari rispetto al danno patrimoniale, senza che per esso venga fornita alcuna indicazione ulteriore in termini di contenuto. Non si riesce, perciò, a stabilire quali debbano essere − sul piano naturalistico − le caratteristiche che assumono le compromissioni subite dalla vittima. Tanto più che, come abbiamo avuto modo di rilevare, le Sezioni Unite ritengono di non dover descrivere l'onnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale attraverso voci più specifiche di danno. Così come avevano a loro tempo fatto le sentenze gemelle, anche le Sezioni Unite non ritengono di dover fornire alcuna giustificazione alla scelta di non procedere ad un'ulteriore scomposizione tassonomica della nozione di danno non patrimoniale. In verità − una volta constatato che il danno non patrimoniale è figura più ampia del danno morale − il passo logico successivo consisterebbe proprio nell'individuazione degli altri fenomeni che, oltre alla sofferenza e al patema d'animo, si prestano ad essere ricondotti sotto tale etichetta. E si tratta di un'operazione che, prima di approdare alla dimensione giuridica, ha luogo sul piano della realtà empirica, dove ciò che accade può essere descritto, per poi essere eventualmente classificato entro questa o quella categoria. Ora, una descrizione di fenomeni che accadono nella realtà non potrà mai dar conto in maniera compiuta degli stessi se la loro caratteristica risulta identificata esclusivamente in termini relativi rispetto ad un diverso concetto: chi potrebbe definire di quale giorno esatto stiamo parlando se ci limitassimo a parlare, come accade nella favola di Alice nel paese delle meraviglie, di non-compleanno?
Le Sezioni Unite stesse, d'altro canto, finiscono anch'esse per descrivere le varie voci che fanno capo all'area non patrimoniale del danno. Tuttavia, quasi intendessero con ciò evitare di riconoscerne l'autonomia, tendono a definirle nei termini di "pregiudizi", come se si trattasse di qualcosa di diverso dal "danno". Il fatto è che i due termini, come conferma del resto il vocabolario, sono sinomimi: in entrambi i casi, infatti, si fa riferimento alle conseguenze negative della lesione. Ebbene, se tali pregiudizi vengono descritti e identificati attraverso peculiari caratteristiche, basta tale operazione per differenziarli gli uni dagli altri, come concetti autonomi (40). Un'operazione del genere appare tanto più giustificata alla luce del fatto che è lo stesso legislatore ad aver normativamente regolato alcune di tali voci (danno biologico), il che autorizza l'interprete ad individuare − ovviamente in funzione descrittiva − anche le altre figure che fanno parte del più complessivo concetto di danno non patrimoniale (41).
6. L'ammissibilità del danno esistenziale
Dopo aver accolto una nozione di danno non patrimoniale inteso come categoria generale e onnicomprensiva, le Sezioni Unite affrontano il problema dell'inserimento nel sistema di una figura quale il danno esistenziale.
Nel ripercorrere la relativa vicenda, i giudici di legittimità sottolineano che tale pregiudizio, attinente alla "sfera del fare non reddituale del soggetto", nasceva con l'intento di ampliare la tutela risarcitoria per i danni di natura non patrimoniale. La voce in questione veniva sottratta − seguendo la via già percorsa per il danno biologico − all'art. 2059 c.c., per essere risarcita ai sensi dell'art. 2043 c.c. inteso quale norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona. Entro tale quadro, osservano i giudici di legittimità, "la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l'alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, di quale fosse l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito" (42). Si tratterebbe, ad opinione delle Sezioni Unite, di una carenza ostativa al risarcimento − correttamente avvertita dalla Cassazione (43) − che non sarebbe stata percepita dalla giurisprudenza di merito (44), la quale − ad opera dei giudici di pace − avrebbe dato spazio alle richieste risarcitorie più fantasiose e risibili (45).
A seguito della svolta operata nel 2003 dalle sentenze gemelle, le Sezioni Unite ritengono che "di danno esistenziale come autonoma categoria non è più dato discorrere", dal momento che lo stesso era finalizzato a supplire ad un vuoto di tutela oramai non più sussistente (46). Si afferma, perciò, che − in applicazione della rilettura dell'art. 2059 c.c. − i pregiudizi di carattere esistenziale saranno risarcibili in caso di reato (47), negli altri casi determinati dalla legge e, fuori da tali ipotesi, "purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona" (48).
Nel pensiero delle Sezioni Unite, l'autonomia del danno esistenziale sembra implicare la prospettazione di una figura di torto estranea alla casistica cui rimanda l'art. 2059 c.c. A conferma di ciò, i giudici di legittimità − nell'analizzare il dettato di alcune sentenze laburistiche, in particolare delle Sezioni Unite n. 6572/2006 (49), che hanno provveduto a riconoscere la risarcibilità di tale voce − sostengono infatti che tali pronunce non possano essere tratte a conforto della tesi che configura il danno esistenziale come autonoma categoria, in quanto si verte in una "ipotesi di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista", secondo quanto stabilito dall'art. 2087 c.c. E tale idea troverebbe conferma nelle conclusioni, quanto al danno esistenziale, cui le Sezioni Unite pervengono (dopo aver affrontato il più generale problema dei danni bagatellari) facendo proprie in maniera letterale le affermazioni di alcune precedenti sentenze della Cassazione (50): si stabilisce, infatti, che non potrà farsi riferimento alla sottocategoria denominata danno esistenziale "perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione".
Il danno esistenziale viene respinto, quindi, non già come voce descrittiva, ma quale figura che consentirebbe un'estensione degli interessi rilevanti sul piano della tutela non patrimoniale oltre i confini stabiliti dall'art. 2059 costituzionalmente reinterpretato. In verità, il riconoscimento del danno esistenziale − alla stregua della teoria che ne ha sostenuto l'inserimento nel sistema − non ha implicato affatto la costruzione di un corrispondente illecito. Le carenze di tutela che tale figura andava a colmare riguardavano, infatti, una visione incompleta delle conseguenze non patrimoniali del torto, mirante a riconoscere autonoma rilevanza alle ripercussioni che incidono sulle attività realizzatrici della persona; e ciò senza andare a ritoccare in alcun modo il novero delle figure di illecito, attraverso un'estensione delle mobili frontiere del danno ingiusto. La categoria del danno esistenziale si pone il semplice obiettivo di descrivere e ricondurre ad un alveo unitario una serie di conseguenze dannose subite dalla vittima, diversificando le stesse dalle ripercussioni di carattere morale; e, al pari del danno morale, esso può dunque manifestarsi a fronte di un ampio ventaglio di torti. Una visione completa delle conseguenze non patrimoniali dell'illecito, attraverso la descrizione delle varie voci di danno, è operazione praticabile quale che sia il carattere, tipico o atipico, della regola risarcitoria (51). Non esiste, infatti, alcun tipo di correlazione automatica tra atipicità dell'illecito e danno esistenziale: quest'ultimo rappresenta perciò un tassello del mosaico attraverso il quale va ricomposta la multiforme categoria del danno non patrimoniale, senza che a tale definizione risulti correlato alcun automatico effetto in termini di risarcibilità (52). Il danno esistenziale, pertanto, appare del tutto compatibile con le indicazioni formulate delle Sezioni Unite: si tratta, infatti, di dare riscontro alle conseguenze negative sulle attività realizzatrici della persona che derivino − come riconoscono, del resto, le stesse Sezioni Unite − da uno dei casi normativamente previsti ovvero da un'ipotesi di lesione di diritti inviolabili.
Del tutto priva di consistenza risulta, alla luce di tali considerazioni, la critica secondo cui il danno esistenziale rappresenterebbe una categoria generica ed indeterminata, per il fatto che il pregiudizio in questione non sarebbe legato ad una figura specifica di illecito. Come abbiamo ribadito, attraverso il danno esistenziale non si forgia un nuovo tipo di torto, bensì si punta a porre in evidenza un particolare campo di conseguenze non patrimoniali dello stesso: quelle che investono le attività realizzatrici della persona. Sotto questo aspetto, allora, l'obiettivo è quello di fornire una descrizione in positivo di una delle specifiche componenti della nozione di danno non patrimoniale essendo quest'ultima, di per sé sola, non suscettibile di offrire alcun tipo di indicazione quanto ai pregiudizi che devono essere concretamente risarciti sotto tale etichetta. L'accusa di genericità che viene mossa al danno esistenziale deve, piuttosto, essere rivolta alla nozione di danno non patrimoniale, dal momento che tali concetti sono legati − secondo la logica aristotelica − da un rapporto genere (danno non patrimoniale)/specie (danno esistenziale) (53).
6.1. La rilevanza costituzionale del danno
Le Sezioni Unite, al fine di negare l'autonomia del danno esistenziale, respingono sia la tesi che attribuisce rilevanza costituzionale al pregiudizio − cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, in quanto attraverso di essa si risolverebbe "nell'abrogazione surrettizia dell'art. 2059", cancellando la limitazione risarcitoria dallo stesso prevista − sia la tesi che ricollega il risarcimento del danno esistenziale alle lesione di qualsiasi interesse genericamente rilevante per l'ordinamento, in quanto configgente con il principio di tipicità del danno non patrimoniale. La conclusione è che il pregiudizio di tipo esistenziale − come, più in generale, il danno non patrimoniale complessivamente inteso − è "risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno".
Si tratta, anzi tutto, di sottolineare che quelle che vengono descritte come tesi distinte appaiono combinate entro un unico schema. Il danno esistenziale (è, più in generale, qualsiasi danno non patrimoniale) è risarcibile in quanto derivi dalla lesione di un interesse meritevole di tutela e qualora esso sia rilevante (come danno, e non sotto il profilo della lesione) alla stregua dei casi individuati dall'art. 2059 c.c. È evidente, perciò, che nessun tipo di automatismo risarcitorio risulta attribuito al pregiudizio esistenziale in quanto tale, in quanto esso deve discendere da una lesione ingiusta alla stregua dell'art. 2043 c.c., la cui applicazione precede quella dell'art. 2059. L'accesso alla tutela di interessi di rango non costituzionale viene ammesso dall'art. 2043 nel momento stesso in cui si pone − quale presupposto della risarcibilità − l'accertamento dell'ingiustizia. Quest'ultimo filtro opera in maniera omogenea − a prescindere dal fatto che il pregiudizio scaturito dalla lesione sia patrimoniale o non patrimoniale − e mette al riparo dal rischio di ammettere alla tutela di interessi di mero fatto.
Di risarcibilità dei danni non patrimoniali, pertanto, bisognerebbe discutere una volta sciolta in senso positivo la questione della tutelabilità in via aquiliana della situazione giuridica lesa in capo alla vittima. In quest'ottica, il filtro selettivo opera non già a livello di lesione (danno-evento), bensì sul piano del danno-conseguenza: ed è in relazione a quest'ultimo, quindi, che viene applicato il principio di tipicità. Essa, pertanto, ricorre − oltre che nei casi esplicitamente previsti dal legislatore nelle ipotesi in cui il danno incide su valori costituzionalmente protetti, quali l'esplicazione della personalità e l'integrità morale: valori cui non viene assegnata la veste di diritto soggettivo e il cui ruolo è quello di rappresentare un riferimento utile a stabilire se il pregiudizio non patrimoniale possa o meno essere considerato significativo sul piano giuridico. Secondo una logica del genere, il filtro dei valori costituzionalmente protetti opera quale sbarramento utile a negare il ristoro per quelle ripercussioni le quali rivestono un carattere minimale ed idiosincratico, e che quindi non sono tali da poter incidere in maniera concreta sullo sviluppo dell'individuo complessivamente inteso. I valori della persona costituzionalmente garantiti vanno intesi, in buona sostanza, quali estrinsecazione di altrettanti obiettivi perseguiti dalla Carta fondamentale, rispetto ai quali il pregiudizio concretamente verificatosi potrà o meno presentarsi come effettivo ostacolo.
7. Il problema dei danni bagatellari
Un danno esistenziale (54) non potrà mai essere risarcito, osservano le Sezioni Unite, a fronte di "disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale". Non varrà, ai fini riparatori, invocare − a fronte di tali ripercussioni (55) − "diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici" (56). Viene, così, affrontato il problema delle liti bagatellari, individuate quali "cause risarcitorie in cui il danno conseguenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto". In concreto, il primo caso riguarderebbe l'allegazione di un "pregiudizio esistenziale futile, non serio", mentre il secondo concerne l'ipotesi in cui "l'offesa arrecata è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima".
Le Sezioni Unite affermano essere necessario che − in caso di lesione di diritti costituzionali inviolabili − il danno non patrimoniale debba essere risarcito solo se ricorre il requisito della gravità dell'offesa: "il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio", per cui la tutela viene assicurata solo laddove la lesione ecceda "una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza". Non solo: dovrà essere operata un'ulteriore verifica atta a valutare l'eventuale futilità del danno subito, in quanto "pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone". Si tratta di due requisiti distinti che − si afferma − "devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico".
La regola finale che si ricava da tali assunti è che la lettura costituzionale dell'art. 2059 c.c. impone di risarcire il danno non patrimoniale − oltre che nei casi esplicitamente previsti dal legislatore − a fronte della lesione di diritti inviolabili, ad esclusione delle ipotesi di lesioni non gravi ovvero di pregiudizi futili: in entrambi questi due casi, infatti, il principio di tolleranza richiederebbe alla vittima di sopportare il danno senza poter accedere alla relativa tutela (57).
I due parametri selettivi proposti dalle Sezioni Unite appaiono − in verità − alquanto discutibili. Per quanto riguarda la regola della gravità dell'offesa, si tratta di un criterio che non gode di alcun riscontro normativo; nessuna indicazione in tal senso, in particolare, può essere distillata in via ermeneutica all'interno delle ipotesi di espressa risarcibilità del danno non patrimoniale. Ponendosi altresì come criterio limitativo ulteriore in materia di tutela dei soli diritti inviolabili, tale regola si colloca in aperto contrasto con la logica costituzionale di primazia della persona sul patrimonio, in quanto essa dà vita al paradosso della "violabilità dei diritti inviolabili": per questi ultimi sarebbe infatti richiesto − entro una certa soglia − di dover tollerare le relative aggressioni, mentre in campo patrimoniale anche la minima lesione giustificherebbe l'attivazione della salvaguardia aquiliana.
Quanto al criterio della serietà del pregiudizio, esso appare ancor più discutibile. In primo luogo, non si comprende come la futilità debba essere misurata. Per un verso, essa non può infatti essere basata sull'esiguità monetaria del pregiudizio: ciò in quanto, per definizione, il danno non patrimoniale viene convertito in denaro solo a seguito della valutazione equitativa, che ha luogo ad opera del giudice una volta ammesso il risarcimento del danno (58), sicché la sua misurazione non appare determinabile a priori. Per l'altro verso, un simile criterio apparirebbe superfluo per quanto riguarda l'esclusione, dall'ambito della tutela aquiliana, della compromissione delle attività illecite e immorali, in quanto le stesse non rientrano per definizione nel concetto di danno ingiusto. Il parametro selettivo sembra, dunque, essere rimesso ad un giudizio di valore delegato alla determinazione giudiziale; il che non appare, tuttavia, ammissibile, in quanto − nel valutare la futilità di una certa attività ovvero di un determinato moto dell'animo − si punterebbe impropriamente a sostituire il giudice alla persona del singolo danneggiato in ordine alle scelte di realizzazione personale ad esso spettanti. Ognuno possiede delle peculiarità che si riflettono in un diverso modo di intendere l'esistenza o, sul piano morale, di vivere la propria sfera interiore rispetto a quello della maggioranza; nel contempo, qualunque individuo − secondo quanto riconosciuto dalla Carta fondamentale − deve vedersi garantita la libera esplicazione della personalità, nell'ottica di un pieno sviluppo del proprio essere. Nessun genere di discriminazione, perciò, potrà essere introdotta sul piano della tutela con riguardo al genere di attività realizzatrice compromessa, sia o meno essa espressione della cultura dominante. Le medesime considerazioni valgono per quanto concerne le ripercussioni di ordine sofferenziale patite dal danneggiato: le quali, come conferma una costante giurisprudenza in materia di equa riparazione per irragionevole durata del processo, possono ben verificarsi anche nei giudizi in cui la posta in gioco è esigua, per cui tale aspetto deve riflettersi esclusivamente in un effetto riduttivo del risarcimento, senza poterlo tuttavia escludere (59).
7.1. Le decisioni secondo equità dei giudici di pace
Le Sezioni Unite sottolineano che la regola risarcitoria individuata con riguardo al ristoro del danno non patrimoniale non potrà essere ignorata dai giudici di pace nelle questioni da decidere secondo equità, in quanto costituisce principio informatore della materia (60).
Viene qui in evidenza la questione relativa alla definizione di quali siano i principi che si ricavano nel settore della responsabilità civile, quali punti di riferimento imprescindibili per il giudice di pace chiamato a decidere una causa di risarcimento. È fuor di dubbio che tra questi rientra senz'altro il principio secondo cui il danno (compreso quello non patrimoniale) dev'essere risarcito solo quando sussistano tutti i presupposti della responsabilità: tra i quali è compreso quello consistente nell'ingiustizia(61). Anche nei giudizi di equità la condanna risarcitoria appare, quindi, condizionata all'accertamento dell'ingiustizia della lesione patita dal danneggiato. A tale proposito va segnalata una recente decisione delle Sezioni Unite (62) che fornisce indicazioni contrastanti con quelle che emergono nelle decisioni in commento: il caso riguardava il ricorso verso la condanna, ad opera del giudice di pace, relativa al risarcimento del danno da stress patito da uno spettatore per aver assistito ad un programma televisivo contente un messaggio pubblicitario occulto, e come tale contrastante con le regole previste in materia di pubblicità. A tale riguardo i giudici di legittimità affermano che nella specie non sarebbe ravvisabile la violazione di alcun principio informatore della materia considerata l'evoluzione del concetto di danno ingiusto, individuato nella fattispecie nello stress emotivo e nervoso causato dai messaggi pubblicitari del cronista". Si sottolinea, quindi, correttamente che il requisito dell'ingiustizia del danno va considerato quale principio informatore in materia risarcitoria, ma si perviene ad un'errata applicazione dello stesso. Non basta, infatti, la ricorrenza del pregiudizio (nel caso di specie stress emotivo) a giustificare la tutela, ma occorre che lo stesso trovi origine nella lesione di un interesse giuridicamente rilevante in capo alla vittima.
In seconda battuta, si tratta di stabilire se − secondo quanto affermano le sentenze seriali − la valenza di principio informatore della materia vada attribuita anche alla regola restrittiva individuata dall'art. 2059 c.c. In primo luogo, bisogna escludere che il giudice di pace debba semplicemente attenersi a quest'ultima, in quanto i principi in questione non sono oggettivizzati in norme, bensì corrispondono alle linee essenziali della disciplina giuridica presa in esame. Si tratterebbe allora di ricavare da tale disposizione normativa il relativo principio informatore: il che non appare possibile a fronte della regola che, nell'interpretazione costituzionalmente orientata, ci viene consegnata dalle Sezioni Unite. Non risulta, infatti, possibile distillare dalla stessa alcun filtro selettivo unitario cui ricollegare la rilevanza del danno non patrimoniale. Resta escluso, in particolare, che il criterio discriminante possa essere incarnato dalla rilevanza costituzionale dell'interesse leso, dal momento che tale parametro non trova riscontro all'interno delle ipotesi di risarcibilità espressa del danno non patrimoniale. In buona sostanza, non pare possa essere per alcun verso identificato − se non nei termini di una generica necessità di selezione priva di valenza operativa − il principio al quale i giudici di pace dovrebbero uniformarsi (63).
8. Il principio di integrale riparazione
Nell'affrontare il problema della liquidazione del danno non patrimoniale, le Sezioni Unite affermando che il "risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre".
Si tratta di un principio che appare senz'altro condivisibile nella sostanza, anche se la scelta lessicale non appare, in realtà, assai felice. Il danno non patrimoniale − per definizione − non può essere misurato in maniera esatta con una somma monetaria determinata, sicché la tutela della vittima avviene tramite un processo convenzionale di conversione in denaro: attraverso di esso dev'essere assicurata la proporzionalità tra la somma attribuita e le ripercussioni non patrimoniali effettivamente risentite dal danneggiato. La scelta dell'aggettivo integrale, dunque, va intesa quale sottolineatura della necessaria considerazione quanto a tutte le ripercussioni negative non economiche risentite dalla vittima. E questo appare, in effetti, il dato fondamentale al quale l'interprete dovrà rifarsi ogni volta che si prospettino problemi di undercompensation.
Il principio di integrale riparazione troverebbe applicazione − secondo quanto affermano le Sezioni Unite − alla luce di una lettura unitaria della nozione di danno non patrimoniale (64). Quest'ultimo − viene ribadito − non sarebbe suscettibile di suddivisione in sottocategorie, sicché "il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno". Sarebbe, in definitiva, "compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo (65) si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione".
Le Sezioni Unite procedono, poi, ad alcune esemplificazioni, ove − tuttavia − il risultato raggiunto sembra essere ben distante da quello apertamente proclamato di integrale riparazione del pregiudizio. Vediamo, in particolare, che quando si parla di danno morale da reato (66), le Sezioni Unite affermano che tale pregiudizio sarà risarcibile quale voce specifica soltanto se la vittima non lamenti degenerazioni patologiche della sofferenza (67): in quest'ultimo caso il danno morale dovrebbe intendersi quale componente del danno biologico. Il punto è che non sempre la sofferenza morale che induce una lesione psichica appare assorbita dalla susseguente patologia, dal momento che essa potrebbe in larga parte dipendere dalla violazione dell'interesse in prima battuta colpito dal reato: basterà l'esempio della violenza sessuale a dimostrare come il patema d'animo correlato alla lesione del diritto alla sessualità potrebbe non essere affatto racchiuso nella patologia di ordine psichico, magari di lieve entità, eventualmente provocata dalla sofferenza.
I giudici di legittimità proseguono affermando che costituisce "duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza". Tale affermazione appare formulata in termini tali da poter travalicare i confini del danno morale che degeneri in patologia psichica, per venire pericolosamente applicata ogni volta che sia in gioco una lesione dell'integrità psico-fisica del soggetto. In verità il danno biologico non si presta in alcun modo a riassorbire al suo interno il danno morale, come dimostra la storia stessa che ha portato alla creazione di tale figura, quale pregiudizio distinto e diverso dal patema d'animo. E il dato normativo conferma apertamente tale conclusione, dal momento che nel codice delle assicurazioni emerge una nozione di danno biologico la quale esclude in radice la considerazione delle sofferenze morali innescate dalla lesione alla salute: le quali non trovano alcun riscontro sul piano quantitativo all'interno delle tabelle (68).
Con riguardo, poi, al danno da lesione del rapporto parentale, i giudici di legittimità sottolineano che costituirebbe duplicazione del risarcimento la "congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato": conclusione, questa (69), che collide apertamente con le statuizioni raggiunte in materia dalle Corti, le quali − sotto l'etichetta di danno da perdita del rapporto parentale − hanno abitualmente convogliato le conseguenze prettamente esistenziali della lesione del diritto familiare, e non già quelle di carattere sofferenziale.
Le Sezioni Unite procedono, poi, affermando che i "pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica" rappresentano soltanto voci del danno biologico nel suo aspetto dinamico(70), e dovranno quindi necessariamente essere ricondotte sotto questa qualificazione (71). Tale conclusione appare in linea di massima condivisibile, ma dovrà tener conto del fatto che la tabellazione del danno biologico appare destinata a rispecchiare esclusivamente la componente dinamica del pregiudizio che assume un carattere standardizzato. Per quel che concerne i risvolti peculiari, legati alla situazione specifica della vittima, si tratterà di tenerne adeguatamente conto in sede di personalizzazione: ed è evidente che il principio di integrale tutela della vittima potrà concretizzarsi soltanto se tale operazione non venga contenuta entro limiti prefissati.
Un cenno viene, infine, riservato dai giudici di legittimità al problema del danno tanatologico, al fine di chiarire che in caso di morte della vittima, rimasta lucida durante l'agonia, potrà essere riconosciuto un danno di carattere morale, in quanto "una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione". Si tratta di un'impostazione che non appare per alcun verso condivisibile, in quanto − nel correlare la tutela del danneggiato ai soli aspetti sofferenziali − presuppone la lucidità della vittima: il che solleva gravissimi problemi sia in relazione alla prova, che all'eventuale induzione medica dello stato di incoscienza. Se l'intento è quello di attribuire un valore alla perdita della vita − e non già ai pregiudizi verificatisi nell'intervallo e decesso, dei quali risulta pacifica la risarcibilità − tale obiettivo non potrà essere inopportunamente perseguito attraverso una supervalutazione della sofferenza della vittima, tale da determinare un'indubbia disparità di trattamento tra soggetti coscienti ed incoscienti: tanto più che una specifica qualificazione del pregiudizio non sarebbe necessaria in un'ottica come quella seguita dalle Sezioni Unite, ove si mira a risarcire il danno non patrimoniale genericamente inteso.
In conclusione, si tratta di osservare che − all'interno di tutti gli esempi formulati dalle Sezioni Unite − esse incorrono nella medesima contraddizione di fondo. Dopo aver affermato, infatti, che le varie voci del pregiudizio rivestono valenza puramente descrittiva (il che significa che esse individuano una o l'altra componente della più generale categoria non patrimoniale), si pretende che esse si prestino ad assorbire l'intero ventaglio delle ripercussioni non economiche di una determinata lesione. L'uso della sineddoche finisce, allora, per tradursi in una insufficiente tutela della vittima, in quanto la "sintesi descrittiva" − secondo la quale le varie voci di pregiudizio devono essere intese (72) − riflette soltanto alcune delle componenti del danno non patrimoniale, senza poterle comprendere tutte.
9. I mezzi di prova
Successivamente le Sezioni Unite affrontano il problema della prova del danno non patrimoniale, sottolineando anzitutto che quest'ultimo, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili, è un danno-conseguenza (73), e come tale deve essere allegato e provato. Viene quindi ripudiata una volta per tutte sia la tesi del danno-evento, sia quella mirante a sostenere che nel caso di lesioni della persona il danno sarebbe in re ipsa. I giudici di legittimità sottolineano che si snaturerebbe − altrimenti − la funzione del risarcimento, il quale verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.
L'assunto secondo il quale il danno non patrimoniale, come tutti i danni, va identificato nei termini di conseguenza della lesione appare del tutto condivisibile. Si tratta, infatti, di tracciare una netta distinzione tra lesione di una situazione giuridicamente protetta e riflessi pregiudizievoli dalla stessa scaturiti. Anche per quanto riguarda il danno non patrimoniale, bisogna allora individuare non già l'incidenza dell'illecito su valori intangibili e privi di un substrato materiale, bensì verificare come la lesione abbia inciso nella vita del danneggiato sul versante non economico, innescando sofferenze di carattere emotivo e modificano la relativa sfera di esplicazione personale. A venire in gioco sono, quindi, compromissioni che possono essere rilevate sul piano dei fatti.
Le Sezioni Unite proseguono tratteggiando alcune specificazioni riguardanti il danno biologico, con riguardo al quale si afferma che l'accertamento medico-legale non dovrà necessariamente essere disposto dal giudice, il quale potrebbe ritenerlo superfluo ponendo "a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze)" e avvalendosi "delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni". Tali considerazioni sembrano, tuttavia, collidere con quelle in precedenza (74) formulate dai giudici di legittimità, sulla base delle quali la nozione normativa di danno biologico fornita dagli artt. 138 e 139 cod. ass. sarebbe "suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti da una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale". Ora, benché quella nozione faccia riferimento alla "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale", i giudici di legittimità non ritengono che tale intervento del consulente sia elevato a strumento esclusivo e necessario. Ma è proprio il riferimento all'accertamento medico-legale ad aver incarnato − all'epoca della prima definizione normativa di danno biologico − il criterio necessario a stabilire in maniera precisa i confini della figura, al fine di chiarire che la stessa non può stemperarsi nella generica compromissione del benessere della vittima.
Quanto agli altri danni non patrimoniali, è previsto il ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva; con riguardo a quest'ultima si osserva che attenendo "il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri". In buona sostanza, e al di là del nome che ad esse viene attribuito, qualora l'illecito determini ripercussioni non economiche nella sfera della persona si tratterà di portarle sempre all'attenzione del giudice. Quest'ultimo − alla luce del principio di integrale risarcimento − non potrà non tenerne conto ai fini della liquidazione complessiva del danno non patrimoniale ogni volta che si tratti di compromissioni che in base alle presunzioni o alle nozioni di comune esperienza debbano essere date per dimostrate.
Sono in definitiva le considerazioni in materia di prova, in combinazione con quelle formulate dalle Sezioni Unite sul principio di integrale risarcimento del danno, a rappresentare i punti fermi che dovranno essere messi in campo − sul piano concreto − dall'interprete che miri ad assicurare alla persona una piena e completa tutela.
10. Il danno non patrimoniale da inadempimento
Tra le questioni affrontate dalle Sezioni Unite vi è quella del danno non patrimoniale da inadempimento. In ordine a tale profilo, i giudici di legittimità sostengono come appaia necessario superare la teoria del cumulo delle azioni, in quanto i danni non patrimoniali si prestano ad essere risarciti in via contrattuale. Quanto all'estensione della relativa rilevanza, la stessa viene sancita esclusivamente nei casi in cui "l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore".
La via interpretativa attraverso la quale si perviene alla definizione di tale regola non appare tracciata dalle Sezioni Unite in maniera limpida. Si parte dalla considerazione che, in passato, l'ostacolo al ristoro del danno non patrimoniale in campo contrattuale era dato dalla mancanza di una norma analoga all'art. 2059 c.c., cui si ovviava provvedendo ad applicare tale disposizione attraverso la regola del cumulo. Ora, quest'ultima teoria viene respinta, ma si perviene ugualmente ad applicare la disposizione in parola in ambito contrattuale, come si desume dall'affermazione secondo cui "l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali". Nessun chiarimento, tuttavia, viene fornito al riguardo; tanto più che la risarcibilità viene confinata all'ambito della lesione di diritti inviolabili, e non risulta estesa ai casi espliciti normativamente previsti. La regola che viene enucleata − in assenza di un preciso supporto teorico − è quella secondo cui, alla luce del principio di tutela minima che dev'essere assicurato ai diritti inviolabili, l'autonoma risarcibilità dei danni non patrimoniali da inadempimento risulterà praticabile nelle ipotesi in cui ricorra la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore.
Al fine di verificare quando ricorra un'ipotesi del genere, i giudici di legittimità partono dalla considerazione che le obbligazioni possono, in base alla previsione dell'art. 1174 c.c., corrispondere anche ad un interesse non patrimoniale del creditore. Si tratterà, allora, di accertare la causa concreta del negozio, al fine di valutare se quest'ultimo sia finalizzato a realizzare interessi non patrimoniali: il risarcimento risulterà ammesso in quanto questi ultimi assumano la veste di diritti inviolabili(75). La tutela sarà egualmente attivabile − senza che sia necessario accertare se il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona − laddove l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge (come accade, sottolineano le Sezioni Unite, nel caso del contratto di lavoro(76) e di quello di trasporto) (77).
La regola risarcitoria così individuata appare impropriamente restrittiva. La necessità di una verifica della causa concreta del contratto mette in luce come quest'ultima possa prevedere la realizzazione di interessi non patrimoniali di qualunque rango. Se così è, questi dovranno sempre trovare protezione risarcitoria in caso di inadempimento, al di là di qualunque valutazione in termini di inviolabilità. Il criterio selettivo che opera nei confronti degli stessi dovrà restare esclusivamente quello della prevedibilità, che consentirà di respingere istanze risarcitorie di carattere non patrimoniale relativamente alla lesione di interessi i quali non siano stati presi in considerazione nell'ambito della complessiva operazione contrattuale. Le implicazioni di ordine non patrimoniale correlate alla prestazione oggetto del contratto devono, cioè, aver trovato spazio nell'ambito dell'economia dello scambio − per la natura del contratto o per specifica pattuizione della parti − al momento della conclusione dello stesso. In assenza di tale previsione, la risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali andrà esclusa, alla stregua dell'applicazione dell'art. 1225 c.c.: dovranno, in particolare, essere considerate come danni imprevedibili tutte quelle conseguenze non patrimoniali che esorbitino dall'operazione economica messa in atto dalle parti (78). Si tratta, in buona sostanza, di considerare che la selezione dei danni non patrimoniali rilevanti opera − in ambito contrattuale − attraverso il filtro della prevedibilità che appare alternativo e non già ulteriore rispetto alla griglia di casi tipici individuata dall'art. 2059 c.c. Tanto più che le Sezioni Unite non applicano direttamente tale norma, ma solo quella parte della stessa ricavata attraverso l'interpretazione giurisprudenziale; quest'ultimo riferimento appare, peraltro, soltanto parziale, in quanto la regola risarcitoria enunciata in sede extracontrattuale prevede che la lesione dei diritti inviolabili generi un danno risarcibile soltanto quando vengano soddisfatti i parametri della gravità dell'offesa e della serietà del pregiudizio, mentre tali criteri non risultano per alcun verso evocati in sede di responsabilità da inadempimento.
Nel sottoporre ad una rilettura in senso costituzionalmente orientato le norme in materia di responsabilità da inadempimento, i giudici di legittimità affermano che:
a) l'art. 1218 dovrà intendersi riferito anche al danno non patrimoniale, qualora l'inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona;
b) il concetto di perdita e di mancato guadagno cui rimanda l'art. 1223 c.c. appare comprensivo anche ai pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla lesione di diritti inviolabili;
c) in applicazione dell'art. 1225 c.c., la tutela dei diritti inviolabili verrà assoggettata al limite del risarcimento dei soli danni prevedibili;
d) laddove venga in rilievo il rango costituzionale dei diritti, risulteranno nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità ai sensi dell'art. 1229, comma 2, c.c. (79).
La lettura di tali indicazioni moltiplica i dubbi quanto all'operazione interpretativa messa in atto dalle Sezioni Unite. Laddove le norme in materia di inadempimento parlano di danno, si afferma che tale concetto viene esteso fino a comprendere anche i danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di diritti inviolabili. Ora, tale ampliamento limitato non può essere condiviso; se l'art. 1218 c.c. parla di risarcimento del danno, non si vede come il concetto − nel venir esteso a comprendere i pregiudizi non economici − possa essere ristretto a quelli aventi una genesi predefinita (lesione di diritti inviolabili), dal momento che quest'ultima viene a sovrapporsi all'inadempimento stesso. Del pari, nel riferirsi all'art. 1223 c.c., affermando che il concetto di perdita e mandato guadagno comprende anche le ripercussioni non patrimoniali, si selezionano queste ultime sulla base della relativa causa generatrice: mentre la stessa deve necessariamente incarnarsi nell'inadempimento, senza restrizioni di sorta. Una simile lettura dell'art. 1223 c.c., reinterpretato attraverso il riferimento alle perdite e mancati guadagni di carattere non patrimoniale derivanti dai diritti inviolabili, porta poi a dover applicare tale regola − attraverso il richiamo di cui all'art. 2056 c.c. − anche all'ambito extracontrattuale: e qui il pregiudizio non economico finirebbe allora per essere governato attraverso due disposizioni di tenore contrastante, dal momento che l'art. 2059 c.c. fa riferimento ad una nozione di danno non patrimoniale intesa in senso più ampio.
11. La soluzione dei quesiti
I nuclei problematici fin qui analizzati sono quelli che emergono nelle argomentazioni esposte dalle Sezioni Unite al fine di rispondere alle questioni alle stesse sottoposte con l'ordinanza n. 4712/2008. La soluzione che viene, nello specifico, formulata con riguardo alle stesse ha luogo attraverso una sommaria "risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale". In realtà tale frettolosa (80) conclusione non corrisponde alle statuizioni concretamente raggiunte, che andrebbero così modulate:
1) quanto all'interrogativo "se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti", la risposta è che tale figura è concepibile in quanto alla stessa venga attribuita una finalità descrittiva (assolvendo essa la medesima funzione attribuita al danno morale e al danno biologico);
2) per quel che concerne la questione "se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio (danno esistenziale) nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate", le Sezioni Unite affermano che il criterio della gravità dell'offesa deve intendersi quale filtro selettivo applicabile (non già ad una voce descrittiva in particolare, ma vale) ai fini della risarcibilità di tutti i danni non patrimoniali discendenti dalla lesione di diritti inviolabili;
3) la questione "se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale "tipico", nega la concepibilità del danno esistenziale" trova risposta affermativa, in quanto le Sezioni Unite sottolineano ripetutamente che il danno non patrimoniale va inteso come tipico, e respingono la figura del danno esistenziale in quanto suscettibile di condurre il sistema risarcitorio nell'atipicità;
4) l'interrogativo che si chiede "se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell'ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell'illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano" va sciolto riconoscendo che il danno non patrimoniale ampiamente inteso (e quindi comprensivo dei pregiudizi esistenziali) è risarcibile − in caso di inadempimento − a fronte della lesione dei diritti inviolabili (81), secondo le regole specifiche previste in materia che vanno sottoposte ad una rilettura costituzionalmente orientata;
5) quanto al quesito "se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere", la risposta negativa va tratta da quelle considerazioni delle Sezioni Unite che respingono l'idea secondo cui la qualità delle vita o più ampiamente la felicità rappresentano veri e propri diritti della persona;
6) per quel che concerne i criteri di liquidazione del danno esistenziale (e, più in generale, del danno non patrimoniale), si afferma che può darsi corso esclusivamente ad un liquidazione di carattere unitario e cumulativo;
7) la questione "se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il c.d. danno tanatologico o da morte immediata" viene sciolta affermando che potrà essere liquidato un danno di carattere morale in caso di lucida agonia della vittima poi deceduta;
8) la domanda su "quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale" trova risposta nella più generale affermazione secondo cui il danno non patrimoniale, poiché rappresenta conseguenza dell'illecito, va allegato e provato, utilizzando tutti i mezzi di prova previsti dall'ordinamento, e in particolare le presunzioni.
12. La resilienza del sistema risarcitorio
Il risultato ermeneutico raggiunto dalle Sezioni Unite appare − come abbiamo potuto verificare nel dettaglio − assai discutibile per quanto riguarda le singole regole di volta in volta individuate. Non solo: ad essere criticabile − nel suo complesso − è la visione d'insieme che viene offerta del sistema; nell'intento di arginare singole deviazioni, si vorrebbe imprimere un complessivo e sproporzionato arretramento alla tutela risarcitoria in campo non patrimoniale.
L'interprete che correttamente intenda salvaguardare i traguardi raggiunti nel campo della protezione della persona dovrà far leva sulla resilienza del sistema risarcitorio, che presenta al suo interno i meccanismi atti a contrastare l'urto inferto dall'interpretazione delle Sezioni Unite. La svolta restrittiva potrà, del resto, essere contrastata facendo leva sulle contraddizioni ed incongruenze logiche che emergono all'interno delle stesse sentenze seriali: le quali − lungi dal costituire un punto di arrivo del dibattito − appaiono, per il modo in cui risultano costruite, destinate ad alimentare nuovi accesi contrasti. Si tratterà perciò di porre in evidenza le incoerenze di cui sono affette le regole prospettate, sia in materia aquiliana che contrattuale, al fine di impedirne la concreta applicazione. E, laddove la stessa abbia luogo, bisognerà impegnarsi affinché i profili di illegittimità che esse pongono vengano fatti approdare davanti alla Consulta: il ruolo svolto da quest'ultima − che tanta importanza ha rivestito in passato nell'evoluzione della tutela della persona e che, in questi ultimi anni, appare assai appannato − tornerebbe così ad essere centrale, per garantire il concreto perseguimento, sul piano risarcitorio, di quell'obiettivo di protezione dell'individuo del quale appare intrisa la nostra Carta fondamentale.

Ritorna al link(1) V. Cass. civ., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, in questa Rivista, 2003, 675, con note di Cendon, Anche se gli amanti si perdono l'amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass., 8828/2003; di Bargelli, Danno patrimoniale ed interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059; e Ziviz, E poi non rimase nessuno; in Danno resp., 2003, 816, con note di Busnelli, Chiaroscuri d'estate. La Corte di Cassazione e il danno alla persona; di Ponzanelli, Ricomposizione dell'universo non patrimoniale: le scelte della Corte di Cassazione; e di ProcidaMirabelli di Lauro, L'art. 2059 c.c. va in paradiso; in Corr. giur., 2003, 1017, con nota di Franzoni, Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta per il danno alla persona; in Foro it., 2003, I, 2272, con nota di Navarretta, Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente.

Ritorna al link(2) Cass. civ., 25 febbraio 2008, n. 4712 (ord.), in questa Rivista, 2008, 1050, e ivi, commento di Ziviz, Danno non patrimoniale: mossa obbligata per le Sezioni Unite, 2008, 1011; e di Facci, Verso un "decalogo" delle Sezioni Unite sul danno esistenziale?, 2008, 1559; in Guida dir, 2008, 12, 42, con nota di Pirruccio, La capacità di provare il fatto conta più della sua catalogazione; in Danno resp., 2008, 553, con note di Ponzanelli, Il danno non patrimoniale tra lettura costituzionale e tentazioni esistenziali: la parola alle Sezioni Unite; e di Bona, La saga del danno esistenziale verso l'ultimo ciak; in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 707, con nota di Sganga, Aspettando Godot, ovvero la presunta fine della saga del danno esistenziale; in Foro it., 2008, 1447, con nota di Diana e Palmieri.

Ritorna al link(3) I problemi riguardanti la sistemazione del più generale assetto del sistema risarcitorio sono stati spesso trascurati dai critici del danno esistenziale, gran parte dei quali ha ritenuto di profondere ogni sforzo nel mero rifiuto della figura, movendo nei confronti dei sostenitori della stessa l'accusa di essere privi di metodo scientifico. Non è certo questa la sede per definire quale sia il metodo scientifico da applicarsi in campo giuridico, per cui ci si limiterà ad osservare che un corretto sviluppo del dibattito tra sostenitori di tesi avverse si fonda sullo scambio di argomentazioni logiche a fondamento della propria interpretazione, le quali dovranno tener conto delle obiezioni mosse dai critici della stessa. Ciò vale per entrambe le parti in campo, nessuna delle quali può dirsi in partenza depositaria della verità: chi attacca una certa prospettiva di lettura del sistema dev'essere − a sua volta − in grado di respingere le obiezioni mosse alla prospettiva contrapposta, che egli mostra di appoggiare.

Ritorna al link(4) Ad esempio, la regola risarcitoria in materia di danno non patrimoniale − che risulta scandita attraverso tre differenti parametri − individua gli stessi (inviolabilità del diritto, gravità dell'offesa, serietà del pregiudizio) in parti differenti del testo e non risulta mai enunciata in maniera completa.

Ritorna al link(5) Basti pensare all'elencazione dei casi tipici cui rimanda l'art. 2059 c.c., incompleta ed inesatta nei riferimenti.

Ritorna al link(6) Ad esempio la definizione del rapporto tra art. 2043 e art. 2059 c.c. vede affermare inizialmente una relazione gerarchica tra le due disposizioni, mentre successivamente le norme vengono considerate operanti allo stesso livello.

Ritorna al link(7) Affermazioni prive di qualsiasi riscontro vengono date per dimostrate: come quella secondo cui tutti i casi previsti dalla legge, all'infuori dell'art. 185 c.p., rappresentano altrettante ipotesi di protezione di diritti inviolabili costituzionalmente protetti. In verità, tali casi rinviano a cause generatrici del danno e non già a ipotesi di individuazione di interessi meritevoli di tutela; e, quand'anche si indaghi attorno agli stessi, questi non risultano certo assumere tutti il carattere di diritti inviolabili.

Ritorna al link(8) Quale espressione di una verità assiomatica sembra essere intesa dalle Sezioni Unite la regola della gravità dell'offesa, che in effetti non trova alcun tipo di riscontro sul piano normativo, né appare espressione del diritto vivente.

Ritorna al link(9) Ad esempio, si afferma che è l'allargamento della regola di risarcibilità ad aver attratto il danno biologico nell'orbita dell'art. 2059, mentre in realtà è accaduto l'esatto contrario.

Ritorna al link(10) Così la reinterpretazione dell'art. 1223 c.c. come norma che si riferisce anche ai danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di diritti inviolabili vedrebbe la stessa dover essere applicata anche in ambito aquiliano, tramite il richiamo dell'art. 2056 c.c., contrapponendosi alla regola dell'art. 2059 c.c. che si rifà ad una nozione più ampia di danno non patrimoniale, quale pregiudizio derivante dalla lesione di interessi non patrimoniali non ulteriormente qualificati.

Ritorna al link(11) Nessun rilievo viene dato alle precisazioni formulate dall'ordinanza n. 4712/2008, che pure apparivano sottoposte alla valutazione delle Sezioni Unite al fine di una conferma o modifica di alcuni assunti fondamentali nella definizione del sistema risarcitorio in materia di danno non patrimoniale.

Ritorna al link(12) La premessa dedicata alla situazione preesistente alla svolta del 2003 è sommaria a dir poco: le Sezioni Unite si limitano a rammentare che, a fronte della regola codicistica dettata dall'art. 2059 c.c. "la giurisprudenza, nel dare applicazione all'art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel c.d. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell'animo transeunte", omettendo qualsiasi riferimento alle evoluzioni innescate dall'inserimento nel sistema del danno biologico.

Ritorna al link(13) Le Sezioni Unite danno conto della rilettura costituzionale del sistema risarcitorio operata dalle sentenze gemelle, attraverso quello che risulta essere un riassunto semplificatorio. Vengono, infatti, compresse e frammiste tra loro le due tematiche ben distinte che emergevano in quell'ambito: da un lato, l'ampliamento della nozione di danno non patrimoniale, e, dall'altro lato, l'estensione della relativa regola di risarcibilità, che viene a comprendere le ipotesi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti. Qui, invece, quest'ultimo ampliamento viene − impropriamente − evocato tra le motivazioni addotte a giustificare l'adozione di un concetto di danno non patrimoniale corrispondente al "danno determinato dalla lesione di interessi inerenti (sic) la persona non connotati da rilevanza economica". Nel riportare la lettura delle sentenze gemelle, questa viene smentita anche sul piano grammaticale, in quanto lì si affermava che "si deve quindi ritenere ormai acquisito all'ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di "danno non patrimoniale", inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona".

Ritorna al link(14) Da intendersi − diversamente da quanto riferito approssimativamente da vari interpreti − nella corretta accezione di argomentazione volta ad individuare dighe (floodgate) a fronte dell'eventualità di un'alluvione di richieste risarcitorie.

Ritorna al link(15) Si punta qui a costruire una contrapposizione tra art. 2043 e 2059, quali norme collocate allo stesso livello operativo, mentre in precedenza le Sezioni Unite avevano affermato che l'applicazione dell'art. 2059 può aver luogo soltanto una volta che siano stati accerti tutti presupposti della responsabilità previsti dall'art. 2043 c.c.

Ritorna al link(16) In tale prospettiva, l'art. 2059 c.c. avrebbe allora dovuto trovare collocazione − sul piano sistematico − tra le regole destinate a governare l'an del risarcimento, e non già il quantum.

Ritorna al link(17) Nel secondo senso sembrano deporre le considerazioni delle Sezioni Unite secondo cui "sul piano della struttura dell'illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell'interesse protetto". Diversamente deve opinarsi, invece, leggendo le considerazioni esposte nel § 2.3.

Ritorna al link(18) Una volta constatato che, allo stato attuale, la disciplina del danno non patrimoniale non può essere spiegata attraverso una stretta correlazione con la rilevanza penale dell'illecito (non rappresentando più l'art. 185 c.p. l'unico caso di risarcibilità per un simile pregiudizio), si tratta di prendere atto del fatto che la formulazione normativa dell'art. 2059 appare di per sé neutra. La fisionomia concreta della norma è destinata, pertanto, a mutare al variare delle ipotesi cui viene fatto rinvio: e dall'analisi di quella casistica, quale oggi risulta strutturata, non è dato evincere alcun intento di carattere prettamente affittivo nei confronti del danneggiante. La visione punitiva non trova del testo riscontro nemmeno nell'estensione interpretativa dell'ambito del 2059, dal momento che la tutela della lesione dei diritti inviolabili viene subordinata alla logica della tolleranza nei confronti del danneggiante.

Ritorna al link(19) Dura a morire risulta, ancora una volta, la tentazione di accordare una primazia a tale norma, rispetto alle altre disposizioni che prevedono il ristoro del danno non patrimoniale: prevalenza che non trova alcun riscontro sul piano normativo, dal momento che tutti i casi previsti dalla legge devono essere collocati sullo stesso piano.

Ritorna al link(20) Viene citato l'art. 29, comma 9, l. n. 675/1996, ora abrogato e sostituito dall'art. 15 del d.lgs. n. 196/2003.

Ritorna al link(21) Altri casi previsti dalla legge ove ci si riferisce esplicitamente al risarcimento del danno non patrimoniale − che non vengono menzionati dalle Sezioni Unite − sono previsti dall'art. 4 del d.lgs. n. 215/2003, dall'art. 4 del d.lgs. n. 216/2003, dagli artt. 37 e 38, d.lgs. n. 198/2006, dall'art. 3, l. n. 67/2006, dall'art. 158, l. n. 633/1941: quest'ultima ipotesi, in particolare, rende palese come la tutela risarcitoria appaia sancita anche a fronte di diritti che non rivestono natura inviolabile.

Ritorna al link(22) Per quanto riguarda l'art. 2 della l. n. 89/2001, la giurisprudenza appare in larga parte orientata ad attribuire natura indennitaria e non già risarcitoria alla somma riconosciuta quale equo indennizzo per l'irragionevole durata del processo: in tale prospettiva, tale caso ricade al di fuori del campo di applicazione dell'art. 2059 c.c., che concerne ipotesi di risarcimento e non già di indennizzo.

Ritorna al link(23) La configurazione tipicizzata della regola risarcitoria che qui viene dettata in materia di danno non patrimoniale viene a collidere con alcune recenti affermazioni che le stesse Sezioni Unite hanno formulato in materia di danno morale: in particolare, sancendo la risarcibilità del danno da stress indotto da spot pubblicitario illecito sulla base del semplice rilievo circa l'ingiustizia dello stesso (v. infra § 7.1.), ovvero pronunciandosi in materia di provvedimenti disciplinari del Consiglio dell'ordine nei confronti dell'avvocato: in questo caso i giudici di legittimità hanno sottolineato che "ogni processo, sia esso civile che penale o amministrativo, costituisce di per sé fonte di pregiudizio in quanto anche nei casi in cui non provoca danni patrimoniali, comporta comunque dei turbamenti d'animo e delle sofferenze capaci di peggiorare la situazione di chi lo vive" (Sez. Un. civ., 15 dicembre 2008, n. 29294, in www.personaedanno.it).

Ritorna al link(24) Più avanti, al punto 3.4.1., troviamo precisato che in caso di reato, laddove si tratta di accertare la sussistenza del requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c., "la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell'interesse leso".

Ritorna al link(25) Le Sezioni Unite affermano che "in ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti". Un'affermazione in relazione alla quale emergono due profili di critica: a) il novero degli interessi protetti non dipende dall'accezione più o meno ampia di danno non patrimoniale, in quanto in caso di reato le posizioni protette non erano diverse quando ad essere risarcito era soltanto il danno morale; b) le Sezioni Unite ricollegano la tipicità alla ricorrenza della violazione di un interesse costituzionale, e sottolineano che l'ipotesi di reato farebbe eccezione ampliando il novero degli stessi: ma il ragionamento viene invertito sul piano logico, essendo la tipicità legata ai casi individuati dal legislatore (che, storicamente, corrispondono in primo luogo al reato), dai quali l'interprete dovrebbe ricavare a posteriori il denominatore comune.

Ritorna al link(26) In realtà tale conclusione non appare corretta: diversamente dal sistema tedesco che individua direttamente gli interessi tutelati a livello non patrimoniale, tutte le ipotesi cui rinvia il legislatore italiano fanno riferimento a fattispecie complesse, in cui vengono descritte cause generatrici del danno: non è un determinato interesse ad essere tutelato in quanto tale, ma soltanto quella lesione che corrisponde alle fattispecie descritte dal legislatore.

Ritorna al link(27) Le Sezioni Unite paiono, erroneamente, ipotizzare che tutte le ipotesi diverse dal reato riguardino la tutela di diritti inviolabili costituzionalmente protetti.

Ritorna al link(28) Non rivestirebbero la qualità di diritti costituzionalmente protetti − secondo quanto affermano esplicitamente le Sezioni Unite − i diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo.

Ritorna al link(29) La digressione è contenuta nel nucleo argomentativo dedicato al danno esistenziale.

Ritorna al link(30) In generale, il modo di operare dell'estensione interpretativa dell'art. 2059 c.c. viene individuato nei termini di identificazione di nuovi casi previsti dalla legge (rappresentanti dalla lesione di diritti inviolabili); nell'ipotesi di norme comunitarie, tuttavia, si ritiene − in una differente prospettiva − di dover procedere alla disapplicazione del filtro limitativo previsto dalla norma.

Ritorna al link(31) In verità, alquanto opinabile appare ipotizzare che il danno biologico venga riportato sotto l'egida dell'art. 2059 c.c. in virtù dell'ampliamento della relativa regola risarcitoria, dal momento che è accaduto esattamente il contrario: è nel momento in cui si sono voluti riassemblare i pregiudizi alla persona che venivano risarciti fuori dall'art. 2059 (danno biologico e danno esistenziale) nell'unitaria nozione di danno non patrimoniale che è diventato indispensabile trasportare sul terreno di quella disciplina una regola risarcitoria altrettanto ampia di quella riconosciuta in precedenza in ordine a tali pregiudizi. Appare, altresì, disarmante l'affermazione, di poche righe successiva, secondo cui la tutela del danno biologico avrebbe potuto trovare fin da principio collocazione nell'ambito dell'art. 2059 c.c., la quale liquida in due righe un dibattito protrattosi per oltre un ventennio, pretendendo altresì di suggellare una simile conclusione evocando le controverse conclusioni raggiunte dalla Corte cost. nella sentenza n. 372/1994.

Ritorna al link(32) Successivamente nel testo del corpo comune si afferma l'inviolabilità di ulteriori diritti corrispondenti al diritto alla libertà personale, il diritto a non subire discriminazioni, il diritto alla dignità personale del lavoratore.

Ritorna al link(33) L'ordinanza n. 4712/2008 aveva, infatti, sottolineato la necessità di stabilire la tavola dei valori/interessi costituzionalmente protetti la cui lesione determina un danno non patrimoniale risarcibile.

Ritorna al link(34) Le Sezioni Unite negano apertamente la natura di diritti inviolabili per quanto riguarda i diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo nel § 2.11. e il diritto alla libertà di circolazione nel § 3.10.

Ritorna al link(35) Si tratta di sottolineare che la sofferenza morale può essere cagionata da qualunque illecito rilevante ai fini dell'art. 2059 c.c. e non soltanto dal reato.

Ritorna al link(36) Se pieno accordo va manifestato con riguardo a quest'ultima parte del ragionamento, per quanto concerne le altre affermazioni si tratta di constatare che il danno morale − oltre a non essere categoria del tutto ignota a livello normativo (v. art. 125, d.lgs. n. 30/2005) − ha sempre assolto ad una funzione descrittiva; ed soltanto in virtù del fatto che − per lungo tempo − tale descrizione finiva per coincidere con il danno non patrimoniale complessivamente inteso che si è finito per parlare di danno morale da reato. Ma in verità la sofferenza e il turbamento emotivo rappresentavano da sempre, così come i riflessi di ordine patrimoniale, conseguenze che possono prodursi a seguito di qualunque illecito (per poi essere considerate giuridicamente rilevanti nei soli casi previsti dalla legge).

Ritorna al link(37) V. § 2.3. del corpo comune.

Ritorna al link(38) Si pensi, ad esempio, ai riflessi negativi non patrimoniali che derivano dalla distruzione della casa di abitazione oppure della protesi dell'handicappato.

Ritorna al link(39) V. § 4.8: più dettagliate apparivano le indicazioni fornite dalle sentenze gemelle, le quali affermano che il danno rilevante con riferimento all'art. 2059 è "l'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica".

Ritorna al link(40) Le Sezioni Unite sembrano voler legare il concetto di autonomia alla fase genetica del danno: sarebbe da considerarsi autonomo soltanto il danno correlato specificamente ad una determinata figura di torto. In realtà, sul piano fenomenologico − che appare antecedente a quello genetico − un concetto ampio può essere ben suddiviso in una serie articolata di subcategorie, che si differenziano sulla base di determinate qualità e come tali appaiono autonome l'una rispetto all'altra.

Ritorna al link(41) Tale operazione diventa essenziale, ad esempio, quando si tratti di stabilire se un determinato pregiudizio rientri o meno nella copertura assicurativa.

Ritorna al link(42) Si tratta di una considerazione del tutto infondata, dal momento che la dottrina favorevole al danno esistenziale non ha mai sostenuto l'automatica risarcibilità dello stesso. In particolare, anche prima della svolta del 2003, l'applicazione dell'art. 2043 c.c. implicava la verifica circa la sussistenza dei relativi presupposti, tra i quali è compreso il requisito dell'ingiustizia. Così come l'accertamento di un danno patrimoniale (che come tale non appare ricollegabile alla lesione di uno specifico interesse) non garantisce il risarcimento, laddove esso non discenda da una lesione ingiusta, identica conclusione era destinata a valere per il danno esistenziale.

Ritorna al link(43) Con la sentenza n. 15449/2002 (Cass. civ., 5 novembre 2002, n. 15449, in D&G, 2002, 41, 22; in questa Rivista, 2003, 81, con nota di Ziviz, Legge Pinto e danno esistenziale; in Danno resp., 2003, 266, con nota di Ponzanelli, Prova del danno non patrimoniale ed irrilevanza del danno esistenziale; in Giur. it., 2003, 21, con nota di Didone, Danno da irragionevole durata di processo penale per reato prescritto) si riconosce in realtà apertamene la diversità intercorrente tra danno esistenziale e morale, quali voci distinte da indennizzare in caso dell'unico illecito rappresentato dalla durata irragionevole del processo.

Ritorna al link(44) Si tratta di uno dei passaggi più infelici formulati dalle Sezioni Unite, dal momento che alla giurisprudenza di merito vista nel suo complesso vengono imputati gli eccessi e le carenze dogmatiche delle quali sono affette esclusivamente singole decisioni dei giudici di pace.

Ritorna al link(45) Vengono citati "la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal blackout elettrico". Ora, se il caso della morte dell'animale d'affezione o del maltrattamento dello stesso appare assai poco fantasioso e tanto meno risibile, alla stregua degli indici che provengono in tal senso dalla coscienza sociale e dallo stesso ordinamento, bisogna segnalare che la gran parte degli esempi citati riguarda ipotesi di responsabilità legate ad inadempimento, con riguardo alle quali il problema va risolto alla stregua delle specifiche regole cui essa risulta sottoposta. Non solo: nella gran parte delle vicende rammentate, il danno − al di là del nome allo stesso attribuito dal giudice − era incarnato da un disagio ed una sofferenza di ordine psichico, e quindi qualificabile come danno morale.

Ritorna al link(46) Seguendo un'argomentazione del genere anche il danno biologico, che a suo tempo è servito a colmare un vuoto di tutela, dovrebbe perdere qualsiasi autonomia.

Ritorna al link(47) In caso di reato, si afferma che il danno esistenziale sarà risarcibile se ricorra il requisito dell'ingiustizia ai sensi dell'art. 2043 c.c., nei termini di lesione di un interesse la cui rilevanza andrebbe riconosciuta per il fatto stesso che sia prevista una tutela penale con riguardo allo stesso.

Ritorna al link(48) Vengono citati a tale proposito gli esempi del danno da perdita del rapporto parentale e del danno derivante dalla lesione del diritto alla sessualità coniugale.

Ritorna al link(49) V. Sez. Un. civ., 24 marzo 2006, n. 6572, in questa Rivista, 2006, 1041, con note di Bertonicini, Demansionamento ed onere della prova dei danni conseguenti; e di Bilotta, Attraverso il danno esistenziale, oltre il danno esistenziale; e ivi, 2007, 839, nota di Bonaccorsi, I percorsi del danno non patrimoniale da demansionamento tra dottrina e giurisprudenza; in D&G, 2006, 17, 10, con nota di Cimaglia, Così fu sdoganato il danno esistenziale; e Meucci, Se il dictum dei giudici riduce le tutele; in Danno resp., 2006, 858, con nota di Malzani, Il danno da demansionamento professionale e le Sezioni Unite; in Foro it., 2006, I 1344, e ivi, 2335, note di Cendon, Voci lontane, sempre presenti sul danno esistenziale; e di Ponzanelli, La prova del danno non patrimoniale e i confini tra danno esistenziale e danno non patrimoniale.

Ritorna al link(50) V. Cass. civ., 15 luglio 2005, n. 15022, in questa Rivista, 2006, 86, con nota di Cendon, Danno esistenziale: segreti e bugie; in D&G, 2005, 40, 48, con nota di Rossetti, Danno esistenziale: fine di un incubo. Quella gramigna infestava i tribunali; e Cass. civ., 9 novembre 2006, n. 23918, in Giur. it., 2007, 1112, con nota di Ziviz, La sindrome del vampiro; in questa Rivista, 2007, 276, con nota di Cendon, Danno esistenziale ed ossessioni negazioniste; in Resp. risar., 2007, 1, 44, con nota di Martini, Sull'autonomia istituzionale della figura preferibile l'orientamento più prudente.

Ritorna al link(51) Il che significa che l'eventuale passaggio da un sistema tipico ad uno atipico potrà aver luogo senza modificare in alcun modo le categorie attraverso le quali viene classificato il pregiudizio; come palesemente testimoniato dalle evoluzioni in materia di art. 2043 c.c., alla luce delle quali si è passati da una regola interpretativa tipica − legata alla qualificazione della situazione protetta in termini di diritto soggettivo assoluto − ad un principio di atipicità dell'illecito, senza che tale discorso abbia influenzato in alcun modo la classificazione delle voci risarcitorie.

Ritorna al link(52) Non diversamente da quanto avviene, ad esempio, in materia di danno patrimoniale, dove riconoscere l'esistenza di una perdita o di un mancato guadagno non significa affatto assicurarne la giustiziabilità in termini aquiliani.

Ritorna al link(53) Si tratta di constatare che i concetti possono essere disposti in una scala di maggiore o minore universalità e classificati mediante il rapporto genere/specie: ove la specie è un concetto che ospita un maggior numero di caratteristiche, ma può venir riferito a un minor numero di elementi rispetto al genere. Percorrendo il concetto da genere a specie si ottiene una maggior comprensione, in quanto vengono definite un maggior numero di caratteristiche riguardanti il concetto stesso.

Ritorna al link(54) Tale affermazione deve essere, in realtà, formulata con riguardo al danno non patrimoniale complessivamente inteso, tanto più che le esemplificazioni formulate dalle Sezioni Unite investono, per la gran parte, profili pregiudizievoli che rilevano sotto l'aspetto del danno morale piuttosto che di quello esistenziale.

Ritorna al link(55) Come esempi di liti bagatellari vengono citate Cass. civ., 27 giugno 2007, n. 14846, in questa Rivista, 2007, 2270, con nota di Chindemi, Perdita dell'animale d'affezione: risarcibilità ex art. 2059 c.c., relativa alla perdita dell'animale d'affezione, e Cass. civ., 12 febbraio 2008, n. 3284, in questa Rivista, 2008, 1057, con nota di Ziviz; in Danno resp., 2008, 445, con nota di Ponzanelli, che riguarda precipuamente un danno di carattere emotivo.

Ritorna al link(56) La felicità, sebbene non possa essere essere configurata quale diritto, può ritenersi obiettivo prioritario perseguito dell'ordinamento, vista sotto il profilo oggettivo di quel "pieno sviluppo della persona umana" di cui all'art. 3 Cost.

Ritorna al link(57) I due parametri − va sottolineato − vengono evocati soltanto in materia di lesione di diritti inviolabili, mentre nelle ipotesi normativamente previste qualsiasi danno non patrimoniale ha accesso al risarcimento: il che determina, ancora una volta, una disparità di trattamento non ragionevole, visto che le posizioni tutelate nei casi tipici possono rivestire rango inferiore rispetto a quello dei diritti inviolabili.

Ritorna al link(58) Senza contare che un criterio selettivo basato sull'esiguità monetaria indurrebbe un'ulteriore ed ingiustificata diversità di trattamento rispetto ai danni patrimoniali, in ordine ai quali non sussiste alcun parametro del genere. Si tenga conto, del resto, che un danno esiguo sul piano quantitativo potrebbe essere stato sofferto da una moltitudine di danneggiati dal medesimo illecito, dando così origine all'esperibilità di un'azione risarcitoria collettiva ai sensi dell'art. 140-bis cod. cons. laddove le vittime siano consumatori.

Ritorna al link(59) V., da ultimo, Cass. civ., 1 dicembre 2008, n. 28501, in www.personaedanno.it.

Ritorna al link(60) V., Corte cost., 6 luglio 2004, n. 206, in Guida dir., 2004, 29, 50, con nota di Finocchiaro, e la conseguente modifica dell'art. 339 c.p.c., operata dall'art. 1 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che prevede l'appellabilità delle decisioni del giudice di pace che non si attengano ai principi informatori della materia.

Ritorna al link(61) È esclusivamente in seno all'art. 2043, quindi, che andrà risolto il problema della rilevanza della lesione. Sarà, in particolare, sul piano dell'accertamento circa il requisito dell'ingiustizia che dovranno essere respinte le richieste di tutela riguardanti torti di carattere bagatellare: la fragilità e l'inconsistenza della lesione subita dall'interesse patito dalla vittima saranno infatti destinate a pesare in maniera negativa sulle relative istanze risarcitorie, a fronte del prevalere di un interesse meritevole di tutela in capo al danneggiante. Tali considerazioni rendono evidente un dato che potrebbe apparire scontato: vale a dire che, prima di discutere di risarcimento del danno non patrimoniale appare indispensabile riscontrare l'effettiva ricorrenza di un illecito. Qualunque sia il tipo di conseguenza non economica lamentata dalla presunta vittima (sia che il pregiudizio si incarni nello stress e nel disagio, sia che esso si sostanzi in una qualche modificazione, anche temporanea, della propria esistenza), l'accertamento di un pregiudizio del genere non potrà mai, di per sé solo, giustificare l'attivazione del rimedio risarcitorio. Se le sentenze gemelle del maggio 2003 hanno sottolineato come, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, non basti la sola dimostrazione della lesione, ma sia necessario provare anche le conseguenze che ne sono scaturite, sul piano logico dovrà essere fatta valere anche la proposizione inversa: vale a dire che non sarà sufficiente − ai fini della tutela − la prova di aver subito una qualche conseguenza negativa di ordine non patrimoniale, ma dovrà bensì essere dimostrato che la stessa sia sortita dalla violazione di un interesse giuridicamente protetto. È proprio una prova di quest'ultimo tipo a difettare in seno alla gran parte delle vicende processuali di carattere bagatellare di cui si è discusso in tempi recenti. Il giudice, in molti casi, finisce per incentrare il discorso esclusivamente sul danno subito dall'attore, senza stabilire se lo stesso sia stato o meno cagionato da un comportamento del danneggiante ascrivibile alla sfera dell'illecito.

Ritorna al link(62) V. Sez. Un. civ., 29 agosto 2008, n. 21934, in questa Rivista, 2008, 2450, con nota di Chindemi; in Danno resp., 2008, 1258, con nota di Ponzanelli, I giudici di pace, i principi informatori e la riparazione del danno non patrimoniale nel giudizio di equità.

Ritorna al link(63) Diversamente, accogliendo una prospettiva mirante a riconoscere rilevanza costituzionale al danno, sarà possibile identificare un criterio tale da poter costituire denominatore comune di tutte le ipotesi di ristoro del danno non patrimoniale: principio, quindi, cui dovrà attenersi il giudice di pace nelle cause in cui decide secondo equità.

Ritorna al link(64) Si vedano in proposito le considerazioni formulate da una recente decisione della Cassazione in materia di lesione della reputazione (Cass. civ., 14 ottobre 2008, n. 25157, in www.personaedanno.it) − cui viene fatto riferimento dalle stesse Sezioni Unite − ove si afferma che "il riferimento alla personalità umana e alla persona come singolo, operato dall'art. 2 Cost., rappresenta certamente valido fondamento normativo per ritenere che l'individuo non è considerato come un punto di aggregazione di valori (tra cui in primis, ma non esaustivamente, i diritti inviolabili), inteso come somma degli stessi, sempre autonomamente scindibili, ma come un unicum, per cui la lesione di uno qualunque di tali valori è sotto il profilo qualitativo sempre lesione della persona umana. Ciò che può mutare è il percorso lesivo e l'entità e l'intensità dell'aggressione, ma non il punto terminale, che è costituito sempre e solo dalla persona, nella sua unitarietà. (...) Essendo unici il titolare ed il bene protetto, la conseguenza è che unica deve essere la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona umana, giusto quanto emerge dall'unica categoria prevista dall'art. 2059 c.c.".

Ritorna al link(65) È questo l'unico riferimento di carattere esplicativo − che proviene dalle Sezioni Unite − su quali dovrebbero essere le conseguenze negative riconducibili sotto l'etichetta di danno non patrimoniale.

Ritorna al link(66) Il significato che deve assumere il rilievo secondo cui è "definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo" parrebbe dover intendersi quale superamento della transitorietà della sofferenza.

Ritorna al link(67) Diversamente da quanto ritengono le Sezioni Unite, laddove si inneschi una lesione dell'integrità psichica, siamo di fronte ad un'ulteriore figura di illecito, lesivo della salute, che si affianca all'illecito lesivo del diritto colpito in prima battuta dal reato.

Ritorna al link(68) La netta distinzione ontologica ricorrente tra danno biologico e danno morale risulta confermata da una sentenza della Cassazione successiva alle decisioni delle Sezioni Unite (Sez. Un. civ., 12 dicembre 2008, n. 29191, www.personaedanno.it) ove si afferma che quest'ultima voce appare dotata di logica autonomia rispetto a quella del danno biologico, e per tale motivo dovranno escludersi meccanismi di liquidazione semplificativi di tipo automatico.

Ritorna al link(69) Ad essa si adegua prontamente Sez. Un. civ., 14 gennaio 2009, n. 557, in www.personaedanno.it.

Ritorna al link(70) La medesima conclusione viene affermata dalle Sezioni Unite per quanto riguarda l'alterazione fisica di tipo estetico, che va incorporata anch'essa nel danno biologico.

Ritorna al link(71) Le Sezioni Unite approfittano per respingere le conclusioni raggiunte da Cass. civ. n. 2311/2007 (Cass. civ., 2 febbraio 2007, n. 2311, in questa Rivista, 2007, 790, con nota di Ziviz, Le relazioni pericolose: i rapporti tra danno biologico e danno esistenziale), che aveva provveduto a liquidare autonomamente un danno esistenziale da perdita della sessualità, a fronte della lesione della salute della vittima.

Ritorna al link(72) Così testualmente affermano le Sezioni Unite nel § 2.13.

Ritorna al link(73) Per la conferma di tale principio le Sezioni Unite rinviano alle recenti pronunce dalle stesse assunte in materia di danno da emotrasfusione infetta: v. per tutte, Sez. Un. civ., 11 gennaio 2008, n. 581, in questa Rivista, 2008, 827, con nota di Greco, Le Sezioni Unite ed il limite prescrizionale nel danno da emotrasfusioni infette, che afferma "il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è danno-conseguenza, non vi è obbligazione risarcitoria".

Ritorna al link(74) V. 2.13 del corpo comune.

Ritorna al link(75) Vengono citati gli esempi dei contratti del settore sanitario e del contratto intercorrente tra allievo e istituto scolastico.

Ritorna al link(76) Qui le Sezioni Unite si soffermano a sottolineare che la propria precedente sentenza (Sez. Un. civ., 24 marzo 2006, n. 6572, cit.) in cui si parla di danno esistenziale utilizza tale definizione con "valenza prevalentemente nominalistica, poiché i danni-conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata".

Ritorna al link(77) Non appare chiaro se − nelle ipotesi in cui l'inserimento degli interessi non patrimoniali nel contratto avvenga ad opera della legge − la relativa tutela debba essere garantita soltanto nel caso in cui essi corrispondano a diritti inviolabili. La previsione legislativa sembrerebbe dover escludere una conclusione di quest'ultimo tipo; il che implicherebbe, allora, che la reinterpretazione delle norme in materia di inadempimento, successivamente operata dalle Sezioni Unite, non potrebbe essere limitata alla considerazione dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di diritti inviolabili, perché escluderebbe tale casistica normativa.

Ritorna al link(78) Laddove, infine, la natura dolosa dell'inadempimento comporti l'estensione del risarcimento anche ai danni imprevedibili, si tratterà in ogni caso di confinare gli stessi entro quella stessa soglia di apprezzabilità sociale che viene applicata in ambito aquiliano, attraverso l'attivazione del filtro dei valori costituzionalmente protetti.

Ritorna al link(79) In questo caso la limitazione ai diritti inviolabili può ritenersi giustificata in quanto corrispondente alla violazione di norme di ordine pubblico.

Ritorna al link(80) La collocazione topografica di tale risposta è al § 3.14., prima dei passaggi che affrontano le problematiche della responsabilità da inadempimento e della liquidazione e prova del danno non patrimoniale.

Ritorna al link(81) E anche nelle ipotesi in cui la legge inserisce gli interessi non patrimoniali nel contratto, laddove essi non corrispondano a diritti inviolabili: vedi ad esempio il caso di danno da vacanza rovinata.



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vedi giurisprudenza
Nota a :
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972

LA DUALITÀ DEL SISTEMA RISARCITORIO E L'UNICITÀ DELLA CATEGORIA DEI DANNI NON PATRIMONIALI

Resp. civ. e prev. 2009, 1, 0076X1133142

Dianora Poletti
Ordinario di diritto privato nell'Università di Pisa

Sommario: 1. Otto quesiti per un "poker" di decisioni. − 2. La conferma della bipolarità del sistema risarcitorio. La struttura dell'illecito produttivo del danno non patrimoniale. − 3. (Segue). I tratti di disomogeneità del sistema. − 4. La regola di risarcibilità del danno non patrimoniale nel contesto contrattuale. − 5. Il rapporto tra le diverse "componenti descrittive" del danno non patrimoniale. − 6. (Segue). Un tentativo di ricomposizione. − 7. Il banco di prova del danno da morte.

1. OTTO QUESITI PER UN "POKER" DI DECISIONI
L'attesa per l'intervento delle Sezioni Unite sul profilo da tempo più discusso della responsabilità civile − quello della riparazione del danno non patrimoniale − ha trovato risposta alquanto tempestiva in quattro pronunce "gemelle", che tratteggiano più marcatamente i lineamenti del sistema dei danni non patrimoniali come definiti dalle sentenze della primavera 2003.
Gli otto quesiti e le richiesta di conferma o di smentita alle nove "proposizioni" elencati dall'ordinanza di rimessione(1) hanno provocato un intervento che, in sintesi, ha:
a) confermato la lettura "costituzionalmente orientata" dell'art. 2059 c.c. fatta propria dalle precedenti pronunce "gemelle" del 2003 e rafforzato il senso della bipolarità del sistema del risarcimento del danno;
b) respinto l'accezione del danno esistenziale come categoria autonoma di danno, contrastante con la riaffermata bipolarità del sistema;
c) ridefinito il contenuto del danno non patrimoniale e dei suoi diversi "aspetti descrittivi";
d) consacrato la compatibilità della regola con l'area dell'addebito contrattuale, attraverso una rilettura estesa agli artt. 1218 e 1223 c.c., ossia alle tradizionali "roccaforti" della patrimonialità del danno risarcibile nel nostro ordinamento.
Non vi è dubbio che tra le varie stagioni che hanno attraversato la responsabilità civile sia ormai − e non solo da oggi − il tempo dell'art. 2059 c.c., che ha definitivamente abbandonato quel ruolo marginale che non solo l'epoca della sua emanazione nel codice del '42, ma anche quella più moderna dell'avvento del danno biologico gli avevano tributato (2). Il danno patrimoniale, sul quale il legislatore del codice aveva costruito il sistema risarcitorio, è posto sostanzialmente ormai in sottordine, segnando un mutamento della filosofia della responsabilità civile che, nell'irreversibile ribaltamento del rapporto tra danno alle cose e danno alla persona (3), traduce la riconosciuta commensurabilità in denaro dei valori personalistici.
Le decisioni in esame, come ha già dimostrato il subitaneo fiorire di commenti, di incontri accademici e di tavole rotonde, sono tutt'altro che liquidabili in poche battute, e solo una lettura semplicistica e neppure del tutto corretta può coglierne l'aspetto più pregnante nella decretata morte del danno esistenziale. La motivazione affronta infatti gli aspetti più complessi del sistema del danno risarcibile; inoltre alcuni passaggi rendono necessario un apporto dell'interprete che non si presenta sempre agevole e al corretto operato di questi è affidato il futuro del danno non patrimoniale e della sua liquidazione.
L'art. 2059 c.c. esce ulteriormente valorizzato − anzi, "rinvigorito" − dalle pronunce delle Sezioni Unite, in quanto norma deputata alla riparazione di tutti i danni non patrimoniali, mentre quest'ultimo pregiudizio è confermato nella sua ampia latitudine di "danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica". Tuttavia, diversamente dall'art. 2043 c.c., la norma non riesce a cancellare la sua disomogeneità, fosse solo per la presenza, al suo interno, di un doppio livello di ingiustizia (4). L'interprete deve dunque recuperare la vera essenza della proclamata tipicità della disposizione e la sua attitudine a mantenere una forza selettiva degli interessi che, se lesi, originano il risarcimento e deve inoltre impegnarsi a ricomporre le varie "figure descrittive" che costituiscono la categoria senza cancellare i risultati "definitivamente acquisiti" di elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali in argomento (5).
Le articolate motivazioni sulla "questione di particolare importanza" si devono alla penna del relatore Preden, ma sono ampiamente tributarie delle opinioni del giudice Segreto, espresse non solo in alcune delle decisioni che avevano animato il dibattito nell'ultimo torno di anni (6). Un dibattito che ha visto i teorici impegnati come non mai a commentare ogni decisione sul tema, da quelle di legittimità a quelle della giurisprudenza di prossimità e a compiere una puntuale − quasi maniacale − classifica delle stesse nel novero di quelle favorevoli o di quelle contrarie al riconoscimento del danno esistenziale, sul quale si è dovuto confrontare l'effettivo senso e la tenuta della svolta compiuta dalla giurisprudenza di legittimità poco più di un lustro addietro.
2. LA CONFERMA DELLA BIPOLARITÀ DEL SISTEMA RISARCITORIO. LA STRUTTURA DELL'ILLECITO PRODUTTIVO DEL DANNO NON PATRIMONIALE
La compiuta ricostruzione del sistema bipolare della responsabilità civile, incentrato su una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., allontanato dalla tipizzazione penalistica, non aveva convinto del tutto gli interpreti, propensi invece a condividere l'accoglimento dell'ampia accezione del concetto di danno non patrimoniale.
Da una parte si erano subito collocate le opinioni decisamente e diversamente critiche volte a riproporre teorie non bipolari ma "neo-monistiche" della responsabilità civile, dirette a ricostruire il sistema della risarcibilità intorno all'unica regola generale dell'art. 2043 c.c., destinata a governare qualunque tipo di danno, perché ritenuta applicabile indifferentemente al danno patrimoniale e a quello non patrimoniale. In questo quadro, l'art. 2059 c.c. è stato riferito esclusivamente alle conseguenze pregiudizievoli, in presenza di una lesione ingiusta ai sensi della regola generale dell'art. 2043 c.c. (7) e, in alcuni casi, nuovamente riassegnato ad una esclusiva funzione sanzionatoria (8).
A deporre verso tale conclusione era stato invocato soprattutto un passaggio argomentativo della decisione n. 8828/2003, dal quale si era voluto desumere che l'art. 2059 c.c. concorresse solo alla determinazione del danno risarcibile dinanzi ad una fattispecie di illecito completa di tutti gli elementi dell'art. 2043 c.c. (9). Su tale presupposto, si è ritenuto di spostare il riferimento alla natura costituzionale dall'interesse leso alle conseguenze pregiudizievoli, facendo così riemergere la logica della costituzionalizzazione dei danni (10).
Sull'altro versante, la critica proveniva da chi non era convinto di un bipolarismo non sufficientemente scolpito, che avrebbe dovuto fare più propriamente leva sulla gravità dell'offesa ai soli diritti inviolabili per concedere la risarcibilità del danno in esame, pena, altrimenti, i rischi di una sostanziale abrogazione dell'art. 2059 c.c. (11), come quella cui conduceva il riferimento della norma all'ordinaria generalità degli interessi riguardanti la persona (12).
In questo contesto, le decisioni in rassegna confermano la correttezza della ricostruzione operata dalle decisioni nn. 8827 e 8828/2003 e si propongono di completare i tratti del sistema bipolare, chiarendo più puntualmente lo stesso sia sotto il profilo della iniuria sia sotto il profilo del danno.
Secondo la Corte il risarcimento del danno patrimoniale è ancorato all'"ingiustizia generica" dell'art. 2043 c.c., integrata dalla lesione di qualunque interesse giuridicamente rilevante ed espressione di un principio di atipicità, mentre quello non patrimoniale ha a suo fondamento − nelle fattispecie non tipizzate − un'ingiustizia "costituzionalmente qualificata", propria dell'art. 2059 c.c., che fa scattare il suo risarcimento, al di là dei casi di esplicita previsione legislativa, solo dinanzi alla lesione di interessi di rango inviolabile.
La seconda norma deve necessariamente desumere dalla prima la sussistenza degli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile (in particolare il nesso causale e la separazione tra evento di danno e danno risarcibile), ma l'unico elemento strutturale che l'art. 2043 c.c. non "presta" all'art. 2059 c.c. è il concetto di ingiustizia del danno, che diverge nelle due disposizioni, le quali postulano un autonomo concetto di iniuria, differenziandosi dunque in punto di lesione dell'interesse protetto, che viene identificato dalle Sezioni Unite, per la risarcibilità del danno non patrimoniale, nella lesione dei soli diritti inviolabili. Si scioglie in tal senso la discussa alternativa tra diritti costituzionali o diritti fondamentali e inviolabili, accogliendosi appieno l'opinione dottrinale che accentuava anche con tale scelta la diversità tra le regole degli artt. 2043 e 2059 c.c. e la capacità selettiva della seconda(13).
Il riferimento all'interesse inviolabile comporta, sul piano del danno risarcibile, l'accoglimento di un modello più restrittivo della risarcibilità dei danni non patrimoniali, che un giudizio di accertamento in concreto della inviolabilità dell'interesse leso limita alla risarcibilità delle offese serie o non minime, di per sé inidonee a superare il limite della tollerabilità civile. A quest'ultima conclusione giungono ora anche le Sezioni Unite, che − compiendo un passo innanzi nella ricomposizione del sistema dei danni non patrimoniali − contemperano la solidarietà verso la vittima con il principio della tolleranza (14), introducendo un ulteriore filtro alla risarcibilità dei danni non patrimoniali, attinente sia alla lesione (la sua gravità), sia al danno conseguenza (la sua serietà), che consente di accordare il risarcimento solo nel caso in cui sia superato il livello della tollerabilità e il pregiudizio non sia futile.
Questi filtri (15) evitano il risarcimento dei pregiudizi spesso "fantasiosi", che hanno dato luogo alle liti bagatellari, ponendo fine alla deriva più criticata dei danni esistenziali (16) e confermando che i "micro-danni" esistenziali non dovrebbero soltanto essere contenuti sul piano del quantum del danno risarcibile (17), ma devono essere prima ancora espunti dall'an della risarcibilità per la loro incapacità di configurare un'offesa seria all'interesse, non toccato nel suo nucleo inviolabile(18). Ciò consente di allontanare non tanto i timori verso fenomeni di "overcompensation" quanto, soprattutto, i rischi di smarrimento dei caratteri strutturali della responsabilità civile, diretta alla riparazione di perdite e non di disagi, di meri disturbi o di semplici fastidi.
In questa ricostruzione del modello dei danni non patrimoniali, l'art. 2059 c.c. conserva la sua tipicità, che è affidata ad una selezione degli interessi di tipo "legislativo-interpretativo".
La tipicità della norma è tuttavia una tipicità di tipo "evolutivo", poiché il collegamento con l'art. 2 Cost., che non enuclea un genus chiuso di diritti inviolabili, consente all'interprete di vagliare l'acquisito carattere della inviolabilità di interessi della persona emergenti dalla "realtà sociale" e quindi la necessità di concedere loro la "minima tutela", quella di stampo risarcitorio. Ciò rafforza ulteriormente la legittimità costituzionale del sistema, messa invece ancora in dubbio da chi ha segnalato l'aporia dello stesso, diretto a concedere una tutela generalizzata agli interessi patrimoniali e a riservare una tutela limitata ai soli interessi dotati di rilevanza costituzionale per le lesioni della persona, tanto che la nuova interpretazione dell'art. 2059 c.c. avrebbe segnato, in buona sostanza, un regresso (19). Si trascura però con ciò di considerare che il mantenimento di un filtro selettivo per l'accesso alla risarcibilità dei danni non patrimoniali è imposto dalla mancanza di oggettività del danno in esame, propria invece del danno patrimoniale, che postula un problema di coesistenza con le altrui libertà. Significativa appare, in questa direzione, la scelta delle Sezioni Unite − emersa anche nella definizione accolta di nocumento non patrimoniale (ossia il "danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica") − di escludere dalla regola di risarcibilità, elaborata in via interpretativa, i danni non patrimoniali derivanti dalla lesione di interessi economici (20), che conferma il riconosciuto predominio dei valori della persona rispetto a quelli del patrimonio (21).
Anche il criterio per valutare i filtri della gravità dell'offesa e della serietà del pregiudizio, ossia il criterio con il quale si compie il giudizio di accertamento in concreto della violazione dell'interesse e delle conseguenze che ne derivano − la "coscienza sociale in un determinato momento storico" − è a sua volta un parametro elastico, tratto dagli impieghi della stessa giurisprudenza. La coscienza sociale propria di un dato momento storico rappresenta un metro oggettivo ed esterno al soggetto leso, non affidato alla sola sensibilità del giudice, che consente di vagliare l'accesso alla soglia del vero e proprio danno delle sensazioni afflittive o di condizionamento negativo del vivere che conseguono alla lesione dell'interesse.
L'esemplificazione di taluni interessi della persona privi del carattere della inviolabilità (22) allontana definitivamente anche la logica della costituzionalizzazione dei danni (come pure quella della moltiplicazione dei diritti) e dunque la dissacrazione di chi, fortemente avverso al danno esistenziale, aveva comunque ritenuto che non esistesse un profilo di danno alla persona privo di aggancio all'art. 2 Cost. (23). Per di più, lo stesso giudice − diversamente da quanto avevano prospettato taluni studiosi − si dimostra guardingo anche verso la possibilità di desumere interessi di rango inviolabile da quelle Carte sovranazionali che pure contengono il catalogo dei diritti della persona, escludendo espressamente che la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali assuma il rango di fonte costituzionale, così da trasmettere tale carattere anche ai diritti da essa predicati.
La conseguenza prima del confermato carattere bipolare della responsabilità civile è l'impossibilità di configurare il danno esistenziale come un'autonoma categoria di danno (24), poiché per il tramite di un'apparente tipica figura categoriale − come già avevano sostenuto altre pronunce (25) − si traghetterebbe il danno esistenziale nel territorio della atipicità, riservando allo stesso la sola "ingiustizia generica" e non già quella "costituzionalmente qualificata". La funzione del danno esistenziale − quella di avere evidenziato una lacuna del sistema risarcitorio − si è esaurita, secondo le Sezioni Unite, con la rilettura costituzionale dell'art. 2059 c.c. operata dalle sentenze del 2003. La motivazione compie al riguardo anche una sorta di lettura autentica dei precedenti invocati a favore del danno in parola come categoria a sé stante, per comprovare che l'uso della formula danno esistenziale è stato invece puramente descrittivo di pregiudizi attinenti alla sfera dell'esistenza. È solo in questi termini, ossia come mera "sintesi descrittiva" di taluni aspetti di un pregiudizio complesso − il danno non patrimoniale − che può essere ancora usata la locuzione danno esistenziale. Questo accomuna però anche gli "altri" danni non patrimoniali − il danno biologico, il danno morale, il danno da perdita del rapporto parentale − che non hanno o non mantengono dignità di sotto-categorie di pregiudizio.
3. (SEGUE). I TRATTI DI DISOMOGENEITÀ DEL SISTEMA
Il sistema così ricostruito è un sistema disomogeneo, sotto più di un profilo. Anzitutto, perché all'interno dell'art. 2059 c.c. può convivere un doppio livello di ingiustizia. La natura dualistica − legata alla tipizzazione legislativa e giurisprudenziale − dell'illecito produttivo del danno non patrimoniale, nella ricostruzione delle Sezioni Unite, si riflette, più precisamente, non solo su un diverso concetto di ingiustizia ma anche su un diverso concetto di danno risarcibile.
Sul primo versante, le ipotesi normativamente tipizzate possono infatti recare al loro interno una "ingiustizia costituzionalmente qualificata", qualora il danno consegua alla violazione di diritti costituzionalmente inviolabili, con ciò conciliandosi con la regola ricostruita in via interpretativa (26), oppure un'ingiustizia più "debole", "generica", strutturata su quella dell'art. 2043 c.c. (27), che attiene alla lesione di interessi della persona meritevoli di tutela anche se non presidiati dal rango costituzionale e inviolabile.
Le ipotesi normativamente tipizzate che riguardano la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale per l'offesa ad interessi di carattere economico (28) non collimano neppure con la stessa definizione di danno non patrimoniale fornita dalle decisioni, che ripropone la corrispondenza della natura del danno con la natura dell'interesse leso per la regola ricostruita in via interpretativa, introducendo con questo un ulteriore dualismo del sistema.
Il problema principale sembra però essere rappresentato, nella ricostruzione del sistema dei danni non patrimoniali, dalle ipotesi di reato, che peraltro, presupponendo la configurazione solo in astratto dell'illecito penale, con la conseguente possibilità che ai fini civili la responsabilità sia configurata anche per effetto di una presunzione di colpa, coprono, in ordine alla risarcibilità del danno non patrimoniale che ne consegue, un'area assai estesa. I passaggi contenuti nella motivazione delle pronunce "gemelle", che rivelano come l'art. 185 c.p. piaccia ormai poco ai giudici di massimo grado, sono quasi tautologici. Affermano le Sezioni Unite che, nell'ipotesi di reato "la tipicità non è determinata solo dal rango dell'interesse protetto ... ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale". In un altro passaggio, discorrendo della presenza di reato, si afferma subito dopo che "la tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall'ordinamento positivo ... e cioè purché sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell'interesse leso".
Il "nuovo" art. 2059 c.c. è dunque disomogeneo quanto agli interessi tutelati, posto che solo l'opzione legislativa − che può essere propria anche del legislatore comunitario, le cui statuizioni prevalgono sul diritto interno incompatibile, che va nel caso disapplicato − può fare accedere alla tutela risarcitoria interessi a struttura debole, non costituzionalizzata. Dalle affermazioni sopra riportate trapela anche il tentativo di sindacare la scelta del legislatore all'insegna della presenza o meno della rilevanza dell'interesse e dunque dell'ingiustizia del danno, quando invece il parametro dell'ingiustizia dovrebbe più propriamente riferirsi a fattispecie non predeterminate.
Questi tratti peculiari si possono comprendere − e fors'anche giustificare − all'interno di una norma alla quale è affidato il bilanciamento degli interessi nella delicata materia della risarcibilità del danno alla persona. L'interprete pare però autorizzato a tentare il recupero di un fondamento di unitarietà della disposizione, ripartita tra una tipicità a doppio livello (quella legislativa) e una tipicità di rango costituzionale (quella giurisprudenziale). Pur in assenza di una esplicita affermazione delle Sezioni Unite, tale recupero potrebbe fare leva sull'impiego generalizzato − ossia per tutte le ipotesi di eventi di danno in essa racchiuse, individuate in via legislativa o interpretativa − del filtro della gravità dell'offesa e della serietà del danno, così da espungere dall'area della risarcibilità i danni bagatellari derivanti da reato o da illecito tipizzato. Si eviterebbero in tal modo irragionevoli disparità di trattamento, posto che i pregiudizi futili o irrisori non accederebbero alla soglia della risarcibilità qualunque sia la tipicità − normativa o interpretativa − della fattispecie dalla quale scaturiscono.
Un ulteriore aspetto che le Sezioni Unite tralasciano di considerare concerne le ipotesi nelle quali la norma che tipizza un illecito civile prospetti solo il risarcimento del danno tour court, senza aggettivazioni, ossia senza chiarire se il risarcimento sia esteso a comprendere il danno non patrimoniale (29). Ragioni di coerenza interna del sistema inducono a ritenere decifrabili tali ipotesi con la regola di risarcibilità ricostruita in via interpretativa e dunque con il parametro della ingiustizia "costituzionalmente qualificata", per cui solo quando sia leso un interesse inviolabile, a seguito di un giudizio di inviolabilità in concreto, potrà essere concesso il risarcimento anche del danno non patrimoniale.
4. LA REGOLA DI RISARCIBILITÀ DEL DANNO NON PATRIMONIALE NEL CONTESTO CONTRATTUALE
Le Sezioni Unite confermano quello che, all'indomani della svolta del 2003, era stato prospettato, pur nel silenzio delle sentenze "gemelle" del 2003, ossia che la nuova regola di risarcibilità del danno non patrimoniale incentrata sulla tipizzazione normativa dell'illecito o sulla lesione di interessi di rango inviolabile era tale da applicarsi anche al contesto contrattuale(30).
Per vero, sull'argomento l'ordinanza di rimessione effettuava un percorso singolare: anziché porre il quesito circa l'estensione della regola in campo contrattuale, muovendo dalla decisione delle Sezioni Unite 24 marzo 2006, n. 6572, pronunziata in tema di danno da demansionamento del lavoratore (31), si domandava se il "riconosciuto danno esistenziale" dovesse ritenersi limitato al contesto contrattuale ovvero potesse essere inteso come espressione di un principio comune alle due tipologie di responsabilità.
Le Sezioni Unite prospettano la questione nella giusta direzione, ridisegnando con poche e quasi disinvolte battute i termini del danno risarcibile nell'ambito contrattuale e respingendo con convinzione la già criticata regola del concorso o cumulo di responsabilità (32). Gli artt. 1218 e 1223 c.c. vengono reinterpretati alla luce della nuova regola di risarcibilità dettata per l'addebito aquiliano, che consente di ritenere risarcibile il danno non patrimoniale da contratto quando l'inadempimento abbia determinato la lesione di diritti inviolabili della persona e di ricondurre tra le perdite e le mancate utilità della seconda norma anche i "pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla lesione dei menzionati diritti".
Con questo, si allontanano sia le tesi che ravvisavano nell'art. 1174 c.c. − disposizione che pure viene evocata nella motivazione − gli estremi sufficienti per giustificare non solo la rilevanza ma anche la stessa risarcibilità dei danni non patrimoniali contrattuali (33) sia le opinioni che, individuando nell'art. 1223 c.c. un concetto di perdita senza aggettivazioni, capace di abbracciare anche il danno non patrimoniale, identificavano nella disposizione un principio unitario di risarcibilità del danno da inadempimento senza differenziazioni sulla natura dello stesso (34), rinvenendo nella stessa struttura del rapporto contrattuale la possibilità di selezionare le pretese non serie o pretestuose(35), sia, infine, le teorie che ritenevano necessaria un'espressa previsione o un'aggiunta legislativa alla stessa norma per pervenire alla risarcibilità dei danni non patrimoniali.
Le ipotesi menzionate di tipizzazione normativa riguardano il contratto di trasporto e il contratto di lavoro, rispetto al quale le Sezioni Unite ridimensionano anche la portata del proprio precedente del 2006, che certo gli interpreti non avevano enfatizzato (36); tra le ipotesi di rilevanza contrattuale degli interessi non patrimoniali vengono ricordati principalmente i contratti che si concludono in ambito sanitario, suggellando la latitudine della responsabilità per inadempimento, estesa a ricomprendere le ipotesi di contatto sociale e a tutelare i terzi nei c.d. contratti di protezione (37). Tutte queste fattispecie coinvolgono per di più diritti inviolabili, la cui lesione, nella quasi totalità dei casi, integra altresì ipotesi di reato.
Non nitido appare invece il contemperamento della regola con l'assetto pattizio, che può estendere il risarcimento del danno in esame anche ad interessi della persona privi del carattere della inviolabilità o derivanti dalla lesione di interessi di carattere economico (come il danno non patrimoniale da lesione della proprietà) o, ancora, consentire di dedurre nel contratto interessi di mero fatto (38). Tuttavia, il riferimento alla causa concreta, intesa come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare e un accenno all'"eventualità" che tali interessi − se non patrimoniali − possano non essere presidiati da diritti inviolabili della persona, sembra capace di assegnare una doverosa rilevanza all'autonomia contrattuale. La ragione concreta della dinamica contrattuale sarà volta ad includere sia quei contratti nei quali la considerazione dell'interesse non patrimoniale giustifica la stessa operazione economica (39) sia quei contratti nei quali emerge in maniera esplicita o implicita l'intento delle parti di assegnare rilevanza, in caso di lesione, anche ad interessi di natura non patrimoniale. E non vi è dubbio che la buona fede costituisca strumento idoneo a cogliere il più compiuto senso dell'operazione contrattuale posta in essere dalle parti.
Lo specifico profilo meriterebbe ben altri approfondimenti, che coinvolgono lo stesso concetto di iniuria nella responsabilità debitoria, ma la via tracciata appare convincente. Fare entrare senza limitazione alcuna il danno non patrimoniale in questo tipo di responsabilità significherebbe legittimare la risarcibilità di ogni sofferenza derivante dal mero inadempimento, in contrasto con la stessa presenza e la distribuzione dei rischi contrattuali, secondo la stessa ratio in qualche modo sottesa al limite della prevedibilità del danno (40). In aggiunta, includere nell'ambito contrattuale la risarcibilità di questo pregiudizio con limiti differenti dal contesto aquiliano avrebbe determinato un'ingiustificata disparità di trattamento tra i due versanti.
Resta, a presidiare la differenza tra le due aree di responsabilità, la previsione dell'art. 1225 c.c., considerata nel punto della motivazione in cui le Sezioni Unite procedono opportunamente ad inquadrare la nuova regola nella disciplina generale del danno contrattuale. La norma (41), a lungo invocata per ostacolare la risarcibilità del danno non patrimoniale da contratto, è tutt'altro che così intesa dalle Sezioni Unite. Anzi, secondo questo giudice alla stessa resta deputata la funzione di limitare la risarcibilità dei danni, patrimoniali e non patrimoniali (42). Ciò rafforza la convinzione della possibilità del suo coordinamento con le condizioni di risarcibilità del danno non patrimoniale nel contesto contrattuale, a partire dalla prevedibilità del danno derivante dalla lesione degli interessi inviolabili, per la loro "deduzione" in contratto (43).
5. IL RAPPORTO TRA LE DIVERSE "COMPONENTI DESCRITTIVE" DEL DANNO NON PATRIMONIALE
L'ultimo passaggio della lunga motivazione sulla questione di particolare importanza è dedicato all'esame del rapporto tra le diverse componenti del danno non patrimoniale, che si era diviso nelle precedente giurisprudenza tra la sua natura di danno unitario o tripartito (44), non solo nella sua liquidazione. Le conclusioni raggiunte segnano il profilo di maggiore rottura rispetto al passato.
Prima di soffermarsi sul punto, la Corte avverte però l'esigenza di chiarire che il danno risarcibile è solo il danno conseguenza e di respingere la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, anche in caso di lesione di valori della persona. Non esistono dunque voci di danno in re ipsa(45), ma il danno − anche la sofferenza morale − va allegato e provato.
A detta delle Sezioni Unite il danno non patrimoniale è un unicum, al cui interno i pregiudizi in vario modo denominati (biologico, morale, da perdita del rapporto parentale), secondo quanto già si è precisato, hanno solo una valenza descrittiva di un pregiudizio complesso, come avevano già chiarito alcune precedenti decisioni (46). Questo pregiudizio complesso va risarcito integralmente, senza nessuna lacuna ma neppure senza nessuna locupletazione (47).
Il richiamo all'unicità categoriale è senz'altro condivisibile. Si tratta solo di puntualizzare che la riconduzione a mere formule di sintesi delle tipologie o voci di danno che compongono l'universo del danno non patrimoniale non cancella la loro specificità né deve porre in sottordine la riflessione sul contenuto e sulla funzione del risarcimento, che appare decisamente più complessa in presenza di pregiudizi non patrimoniali. Le diverse voci o tipologie di danno non patrimoniale assumono infatti, a quest'ultimo riguardo, una finalità non omogenea, senza contare che − almeno nel caso del danno biologico − si tratta di tipi di danno ormai riconosciuti anche in via legislativa.
Un conto è dunque sostenere che l'articolazione delle voci di danno non patrimoniale non si traduce in un loro differente trattamento giuridico, un conto è avvertire la necessità di una specificazione delle diverse conseguenze pregiudizievoli, anche "a prescindere dal nome attribuito" alle stesse, in fase di liquidazione dell'unitario danno non patrimoniale. Che è poi operazione che compiono, a ben vedere, proprio le Sezioni Unite che, a dispetto del proclamato impiego delle diverse denominazioni di danno quali mere sintesi descrittive, non si sottraggono alla indicazione del contenuto delle voci di danno e all'individuazione del loro rapporto con le diverse tipologie di illeciti. Così, il danno morale è identificato nella sofferenza soggettiva anche non transeunte dipendente in primo luogo dal reato; al danno biologico, che scaturisce dalla lesione del diritto inviolabile alla salute, si attaglia la definizione accolta dal legislatore del codice delle assicurazioni private − che viene condivisa ed anzi ritenuta suscettibile di generale applicazione − mentre il danno esistenziale, che identifica il pregiudizio che attiene all'esistenza della persona e che deriva dalla lesione di altri diritti inviolabili, consiste nella "sofferenza morale determinata dal non potere fare", ma anche − quando vengano lesi diritti inviolabili della famiglia − nello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di un congiunto (al quale viene assegnata la locuzione di danno da perdita del rapporto parentale, che le Sezioni Unite paiono preferire a quella di danno esistenziale) o nella incapacità di trattenere rapporti sessuali con il coniuge leso nella propria integrità psico-fisica.
Sul punto le decisioni Unite compiono una serie di passaggi argomentativi che devono essere analizzati attentamente.
Anzitutto, la riconosciuta incapacità del danno esistenziale di assurgere ad autonoma categoria di danno trasforma il danno morale soggettivo e riassegna la sua compiutezza al danno biologico. Quest'ultimo, nella ricostruzione delle Sezioni Unite, viene confermato nei suoi tratti essenziali; anzi, riguadagna la sua ampia latitudine di danno onnicomprensivo, che include quali voci o sottovoci il danno estetico, alla vita di relazione, alla sessualità e soprattutto la componente relazionale del pregiudizio di tipo esistenziale. Nella prevalente dottrina e in talune pronunce giurisprudenziali era già stato evidenziato che, in caso di lesione della salute, il danno esistenziale non ha ragione di esistere come voce autonoma in quanto assorbito dai (o meglio compreso nei) profili "relazionali" o "dinamici" del danno biologico (48), ossia quelli rimessi alla fase della personalizzazione del risultato del calcolo attuato secondo le tabelle, nelle quali si specifica la base monetaria uniforme, subordinati alla prova fornita dal danneggiato. L'aggiunta del danno esistenziale al danno biologico, che espressamente ricomprende nella sua stessa definizione anche l'incidenza negativa della menomazione "sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato", determina dunque ingiustificate duplicazioni. Termina in tal modo la forza centrifuga del danno esistenziale, che aveva tentato di disaggregare dal danno biologico la sua componente relazionale.
Su tali presupposti, positivo appare il richiamo operato dalle Sezioni Unite alla massima personalizzazione possibile della liquidazione del danno biologico, che ha alle spalle il mantenimento del metodo "bifasico" di quantificazione, volto a coniugare l'uniformità pecuniaria di base fondata su valori omogenei con l'adeguamento alle circostanze del caso concreto ma che rende ancora più critica − almeno nel caso dei danni provocati da sinistri stradali − la compressione della valutazione secondo equità operata dagli artt. 138 e 139 cod. ass.
Opinabile è invece l'affermazione sulla non necessarietà dell'accertamento medico legale, che altre decisioni avevano ritenuto imprescindibile (49), quasi che la Corte fosse stata influenzata sul punto dal quesito posto dall'ordinanza di rimessione (50). Se in taluni casi può non essere possibile disporre tale accertamento (51), il riferimento alla sua possibile superfluità e la sua sostituzione con l'impiego delle presunzioni, che possono costituire anche l'unica fonte di convincimento del giudice, pur di fronte a specifiche allegazioni del danneggiato, rischia di incrinare il nucleo essenziale e peculiare del danno in esame, rappresentato dalla patologicità e di generare nuove sovrapposizioni, per il tramite del richiamo ad un concetto generico di benessere, con il danno esistenziale. L'accertamento medico legale rappresenta infatti il filtro atto a respingere le offese non serie. In questo senso può dirsi che la gravità dell'offesa e la serietà del danno, nel caso di lesioni corporali, sono determinati proprio dall'accertamento di tipo medico e che il danno biologico già reca in sé il rimedio avverso la "bagatellarità".
Il danno morale, che perde l'attributo "soggettivo", consiste nella sofferenza soggettiva e può non avere carattere transeunte. Può ricevere autonoma liquidazione in presenza di un fatto-reato ma non se è componente "di un più complesso pregiudizio non patrimoniale", come accade quando si lamentino degenerazioni patologiche della sofferenza, posto che nel qual caso refluisce anch'esso nel danno biologico, la cui estensione include "ogni sofferenza, fisica o psichica".
Il passaggio farà certamente discutere gli interpreti, dato che riecheggia la criticata accezione del danno biologico "come momento terminale di un processo patogeno originato dallo stesso turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo" fatta propria da Corte cost. n. 372/1994. A questo si somma l'affermazione che determinerebbe duplicazione di risarcimento "la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale ... del primo", che merita di essere opportunamente chiarita, anche se convince la critica alla sudditanza del danno morale rispetto al danno biologico, e il censurato metodo della sua liquidazione in una frazione percentuale di quest'ultimo, che mette del tutto in ombra la diversità dei parametri di riferimento per la loro liquidazione.
A sua volta, il pregiudizio definito "per comodità di sintesi" esistenziale si ripartisce, in certo qual modo frantumandosi, nel danno biologico, coincide in parte con la sofferenza soggettiva che compone il danno morale da reato (rectius, come precisa la Corte: "nella sofferenza morale determinata dal non potere fare") e − in caso di lesioni di tipo non biologico − è risarcibile solo entro "il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno".
6. (SEGUE). UN TENTATIVO DI RICOMPOSIZIONE
Le componenti descrittive dell'unitario pregiudizio non patrimoniale come delineate dalle Sezioni Unite e i loro rapporti devono essere riconsiderati alla luce dell'esperienza liquidativa del danno non patrimoniale e delle voci di danno consolidate alla stregua della elaborazione teorica e dell'esperienza giurisprudenziale. Il futuro del danno alla persona, ancora in parte da riscrivere, è dunque affidato non solo alla sinergia tra le Corti ma anche allo stretto dialogo di queste con la dottrina.
Posto che tutte le componenti descrittive del danno non patrimoniale si affidano alla valutazione equitativa, la motivazione posta a base della liquidazione acquista un rilievo sempre più accentuato. Se l'idea della liquidazione unitaria, che ponga a fondamento del quantum concesso a titolo risarcitorio un'unica somma di denaro giustificata dal mero rinvio all'equità deve essere respinta con decisione, non appare neppure sufficiente una liquidazione analitica, che peraltro non sconfessa affatto la ribadita unitarietà della categoria del danno non patrimoniale. All'interno di una liquidazione di tal genere occorre più propriamente una puntuale indicazione dei criteri impiegati per la determinazione delle somme concesse, per un'insopprimibile esigenza di "chiarezza del percorso liquidatorio" (52).
Le ragioni della necessità di tale percorso sono molteplici.
Sul piano sistematico, anzitutto la liquidazione differenziata tra le varie componenti descrittive del danno non patrimoniale si impone per la possibilità di esercitare correttamente le azioni di surroga o di regresso degli enti previdenziali, che possono dirigersi solo verso le voci di danno indennizzate, evitando che si torni a quel confronto indifferenziato tra gli indennizzi previdenziali e il quantum complessivo del risarcimento "civilistico", che permetteva il pieno soddisfacimento dei gestori delle assicurazioni sociali a scapito dello stesso danneggiato (53). Azioni di surroga e regresso che pongono proprio l'esigenza della necessaria indicazione, all'interno della liquidazione del danno biologico, del quantum liquidato per gli aspetti "dinamico-relazionali".
Sul piano concettuale, la specificazione dei parametri di liquidazione si raccorda direttamente alla funzione del risarcimento e consente di definire il contenuto delle diverse "componenti descrittive": le compromissioni peggiorative delle attività del danneggiato dovute alla convivenza con una invalidità; le proiezioni negative della lesione di diritti diversi sull'esistenza e sulle relazioni soggettive del danneggiato; la sofferenza morale. In questo contesto, l'unicità categoriale del danno non patrimoniale sembra capace di convivere con una funzione pluralista o meglio composita del risarcimento (54), in parte solidaristico-satisfattiva, in parte almeno latamente compensativa (per il danno biologico), in parte integrata da una componente sanzionatoria (ad es., per il danno morale da illecito doloso).
Unicamente la verifica dei parametri di volta in volta impiegati dal singolo giudice potrà inoltre consentire di proseguire lungo il cammino del confronto con i precedenti giurisprudenziali (55), che, pur nella difficoltà di offrire "appaganti e controllabili" soluzioni quantitative, permette di evitare che la liquidazione "assuma connotazioni ogni volta diverse, imprevedibili, suscettibili di apparire arbitrarie" (56).
Sul piano, infine, della "tenuta" dell'argomentazione delle Sezioni Unite, solo per la via indicata sarà possibile controllare la presenza di ingiustificate duplicazioni ovvero la mancanza di considerazione di taluni aspetti del complesso pregiudizio che va risarcito integralmente. In questo senso sembrano comunque già deporre le motivazioni di rinvio delle sentenze "gemelle".
Ciò precisato, in ordine al rapporto tra le diverse componenti di danno e ai rispettivi criteri di liquidazione, si viene rafforzando il convincimento di separare i danni non patrimoniali derivanti dalla lesione corporale da quelli di tipo non biologico (57).
Per i primi occorrerà quantificare correttamente il danno biologico, mantenendo la necessità dell'accertamento medico-legale, con il quale si determinano durata e percentuale dell'invalidità temporanea e percentuale dell'invalidità permanente, consentendo una comparazione su basi omogenee delle diverse ipotesi di danno. Nella liquidazione occorrerà specificare, rispetto al risultato dell'applicazione dei valori tabellati, l'aumento riferibile ai profili dinamico-relazionali del danno biologico, indicando i parametri utilizzati nel singolo caso (58) e ciò − come si è sopra detto − anche per consentire il corretto esercizio delle azioni di surroga e di regresso dell'assicuratore sociale.
Se il danno esistenziale aggiunto al danno biologico costituisce una moltiplicazione risarcitoria, non appare tale invece l'aggiunta a quest'ultimo pregiudizio del danno morale, la cui autonomia è stata messa in dubbio da più parti ma che invece pare ancora giustificarsi per effetto dell'ontologica diversità tra le due componenti descrittive. A questo riguardo la seconda deve essere riferita, nel solco della tradizione, e come si legge in alcuni passaggi della motivazione, alla sofferenza soggettiva, espressione della componente emozionale del danno non patrimoniale. L'affermazione della Corte circa il divieto di cumulo tra danno biologico e danno morale può di conseguenza essere ricondotta ai suoi più corretti termini, richiamando il precedente riferimento alla "degenerazione patologica della sofferenza". Solo quando la sofferenza degenera in patologia trascorre nel danno biologico, divenendone "intrinseca ... componente". Il danno biologico, nella sua ricomposta ampiezza, comprende dunque il dolore e le ricadute esistenziali della convivenza con la patologia, ma non include anche il profilo emozionale.
A proposito di quest'ultimo danno non vi è dubbio che dalla motivazione delle Sezioni Unite traspare un ridimensionamento del connotato sanzionatorio, già determinato dall'allontanamento del danno non patrimoniale dalla sua matrice penalistica. Questa perdita del carattere punitivo, che invece può continuare a soddisfare un'esigenza di deterrenza nel risarcimento del danno non patrimoniale (59), non convince del tutto (60), specie se si consideri che norme di nuova emersione sembrano caratterizzarsi per un'impronta di carattere anche sanzionatorio, come accade per l'art. 709-ter, comma 2, n. 2, c.p.c.
Nel caso di lesione degli interessi inviolabili diversi dalla salute, può esistere solo un danno emozionale (e allora l'unica voce di danno risarcibile sarà il danno morale) ovvero potrà essere provata anche un'alterazione peggiorativa delle qualità dell'esistenza, che condiziona in negativo ed in maniera non transeunte il vivere della vittima e che appare rilevabile da indici di carattere oggettivo. All'interno di una nozione unitaria di danno non patrimoniale non appare corretto sommare automaticamente queste due componenti, ma si può accogliere l'invito, già presente in giurisprudenza e ora divenuto una precisa indicazione, a procedere ad una liquidazione unitaria, dando conto di tutti gli elementi considerati ai fini del quantum, tanto più che sia per la componente esistenziale che per quella emozionale la base di riferimento è rappresentata dalla tipologia dell'offesa e dalla sua serietà. Sarà quindi necessario che la motivazione espliciti se nella liquidazione dell'unitario danno non patrimoniale si sia tenuto conto "solo delle sofferenze morali" o "anche (in tutto o in parte) dei profili di danno non patrimoniale derivanti dalla perdita del rapporto parentale, con i conseguenti pregiudizi alla quotidianità della vita, quale si era in precedenza instaurata" (61).
Qualora, infine, l'unica componente del danno non patrimoniale sia rappresentata, come può accadere nel caso di reato, dal danno morale non transeunte, i suoi parametri di quantificazione − posto che, come precisa la Corte, l'intensità e la durata nel tempo dell'effetto penoso incidono sulla liquidazione − dovranno specificare il corrispondente quantum e le motivazioni che giustificano, nel singolo caso, la non transitorietà di questo pregiudizio.
7. Il banco di prova del danno da morte
Due delle quattro decisioni delle Sezioni Unite hanno riguardato casi di danni da morte (62). Le Sezioni Unite, nel meditare la "questione di particolare importanza", per vero, non erano state investite dell'intera problematica del danno da uccisione, ma erano state richieste dall'ordinanza di rimessione di considerare se rappresentasse "peculiare categoria di danno non patrimoniale il c.d. danno tanatologico o da morte immediata".
Al di là della risposta delle Sezioni Unite, che è (implicitamente) negativa, posto il ripudio delle sotto-categorie di danno non patrimoniale risarcibile, il danno da morte rappresenterà un indubbio banco di prova della rilettura del danno non patrimoniale e delle sue diverse componenti operata dalla Corte.
La motivazione, dopo avere riconosciuto la risarcibilità del danno da rottura del rapporto parentale in capo ai superstiti, si dirige specificamente a considerare il caso del danno da sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche che attenda lucidamente la fine della vita anche per poche ore (63). Tale danno era stato finora comunemente ricondotto al danno biologico temporaneo (di frequente si è usata anche la formula "danno biologico terminale" (64)) relativo al solo periodo di permanenza in vita che, essendo "massimo nella sua entità ed intensità", è stato risarcito attraverso una personalizzazione dei criteri risarcitori, capaci di discostarsi notevolmente dai valori comunemente praticati (65). Tra qualche oscillazione, nel caso di apprezzabile sopravvivenza, la giurisprudenza ha riconosciuto anche il danno morale soggettivo subito dal de cuius, trasmissibile agli eredi (66).
Le decisioni in esame ritengono che alla vittima in vigile agonia debba essere liquidato il solo danno morale, nella sua "nuova più ampia accezione", poiché il limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte impedisce una degenerazione in patologia. La motivazione, che può anche condividersi sul punto, specie in ordine all'attenzione posta sull'adeguatezza del quantum, non permette però di comprendere se le Sezioni Unite abbiano tenuto in considerazione la componente descrittiva del danno non patrimoniale rappresentata dal danno derivante dalla lesione temporanea della invalidità, anch'esso normativamente considerato(67). Inoltre, non è risolto il caso dei soggetti non senzienti (68), per i quali non può valere l'applicazione dei criteri di quantificazione che la decisione n. 26973 detta per il giudice del rinvio nel caso di un danneggiato di giovane età deceduto a seguito della gravi ustioni riportate da sinistro stradale ("protrazione dell'agonia in stato di lucidità ... sofferenze fisiche per le lesioni e morali per la coscienza della imminente fine della vita, di estrema gravità"), né la motivazione vale a colmare − per dirla invece con la Corte − "il vuoto di tutela" determinato dalla negazione, nel caso di morte immediata o a brevissima distanza dall'evento lesivo, del risarcimento del danno biologico per la perdita della vita, sebbene su tale indirizzo giurisprudenziale non si sia manifestato, tra i giudici di legittimità, un argomentato dissenso.
Infine, i disegnati rapporti tra danno morale e danno da perdita del rapporto parentale generano proprio al riguardo qualche ulteriore rilievo. Se il "nuovo" danno morale, ossia la sofferenza soggettiva non solo transeunte non consente più di distinguere, per le Sezioni Unite, questo pregiudizio dall'altro, che costituiscono componenti dello stesso complesso danno ("la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita") che per ciò va unitariamente considerato, resta da chiarire se la definizione del danno da perdita del rapporto parentale che si legge invece in altre parti della motivazione − ossia lo sconvolgimento della vita familiare determinato dalla morte o dalla grave invalidità del congiunto − valga davvero ad identificare la sola afflizione soggettiva ancorché non effimera.

Ritorna al link(1) Cass. civ., 25 febbraio 2008, n. 4712 (ord.), in questa Rivista, 2008, 1559, con nota di G. Facci, Verso un "decalogo" delle Sezioni Unite sul danno esistenziale; in Danno resp., 2008, con note di G. Ponzanelli, Il danno non patrimoniale tra lettura costituzionale e tentazioni esistenziali: la parola alle Sezioni Unite; e di M. Bona, La saga del danno esistenziale verso l'ultimo ciak; in Corr. giur., 2008, 621, con commento di M. Franzoni, Prove di assetto per il danno non patrimoniale: alcune suggestioni.

Ritorna al link(2) Sulla valorizzazione della disposizione, ora "ritrovata" (G.B. Ferri, Le temps retrouvé dell'art. 2059 c.c., in Giur. cost., 2003, 1990 ss.) cfr. soprattutto, anche se in diverso senso: C. Castronovo, Il danno biologico, Milano, 1998, spec. 191 ss.; E. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, passim.

Ritorna al link(3) F.D. Busnelli, Il danno biologico, Torino, 2001, 86.

Ritorna al link(4) Infra, § 3.

Ritorna al link(5) In questi termini la motivazione delle Sezioni Unite si riferiscono all'elaborazione del danno biologico.

Ritorna al link(6) A. Segreto, Le attuali frontiere del danno non patrimoniale e dintorni, in Danno resp., 2007, 1081 ss.

Ritorna al link(7) Per riferimenti teorici ed una sintesi del dibattito sia consentito il rinvio a D. Poletti, Danni non patrimoniali, in Il diritto. Enc. giur. del Sole 24 Ore, Milano, 2007, IV, 601 ss., e, più ampiamente, Ead., Il danno risarcibile, in Manuale di diritto civile e commerciale, a cura di N. Lipari e P. Rescigno, in corso di pubblicazione.
Significativo è il modo con cui l'ordinanza interlocutoria (supra, nota 1) − che tradiva una netta "simpatia" per la "terza (sotto) categoria di danno non patrimoniale" (id est, quello esistenziale) − illustrava la prima delle "proposizioni" da confermare o da smentire: "il danno patrimoniale è risarcibile ex art. 2043 c.c., quello non patrimoniale secondo il combinato disposto degli artt. 2043-2059 c.c.".

Ritorna al link(8) A. Procida Mirabelli Di Lauro, La responsabilità civile. Strutture e funzioni, Torino, 2004, 48.

Ritorna al link(9) Il punto è stato affermato anche dalla giurisprudenza: cfr. Cass. civ., 1 giugno 2004, n. 10482, in Danno resp., 2004, 953, con nota di A.L. Bitetto, secondo la quale l'art. 2059 c.c. è norma costruita "in termini di restrizione del risarcimento di detto danno ... e non di restrizione della responsabilità extracontrattuale, la quale è regolata in termini generali dall'art. 2043 c.c. e in termini speciali dalle norme successive (art. 2044-2054)".

Ritorna al link(10) Posto che la rilevanza costituzionale non dovrebbe riguardare l'"interesse colpito in prima battuta in capo alla vittima", ma proprio le conseguenze pregiudizievoli della lesione: P. Ziviz, Brevi riflessioni sull'ingiustizia del danno non patrimoniale, in questa Rivista, 2003, 1341. Ha affermato più di recente la stessa A. (P. Ziviz, Danno esistenziale: solo il tuo nome è mio nemico, in questa Rivista, 2008, 91) che "i valori della persona si pongono a valle dell'interesse protetto, quali entità suscettibili di essere pregiudicate a seguito del manifestarsi del danno". L'opinione non era propria della sola dottrina, perché anche talune decisioni, riferendo per esempio l'art. 2 Cost. a copertura del danno morale, derivante dalla lesione del diritto alla corrispondente integrità, avevano fatto intravedere questa strada: da ultimo Cass. civ. 16 settembre 2008, n. 23725, ined.

Ritorna al link(11) F.D. Busnelli, Chiaroscuri d'estate. La Corte di Cassazione e il danno alla persona, in Danno resp., 2003, 827. Si domanda, ad altri scopi, se l'art. 2059 c.c. si sia arricchito di un nuovo parametro − quello costituzionale − o se viceversa, si sia impoverito, traducendosi in un duplicato dell'art. 2043 c.c., anche D. Messinetti, Pluralismo dei modelli risarcitori. Il criterio di ingiustizia "tradito", in Riv. crit. dir. priv., 2008, 567.

Ritorna al link(12) M. Franzoni, Il danno risarcibile, Milano, 2004, 496-7.

Ritorna al link(13) Non esisterebbe dunque un secondo livello di ingiustizia del danno interno all'art. 2043 c.c. ma esisterebbero due diversi concetti di ingiustizia, espressi ciascuno dalle due norme. In argomento cfr. E. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, 1996, 35 ss.; Ead., I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, in Ead. (a cura di), I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, Padova, 2004, 35 ss.

Ritorna al link(14) E. Navarretta, Il danno alla persona tra solidarietà e tolleranza, in questa Rivista, 2001, 801 ss.

Ritorna al link(15) Non si tratta, a ben vedere, di un filtro duplice, poiché il criterio della gravità dell'offesa contiene in sé una dimensione di "relazionalità", con il quale si misura il grado di coinvolgimento dell'interesse leso rispetto alla condotta del danneggiante. Proprio perché consente di vagliare il coinvolgimento dell'interesse violato, il criterio della gravità dell'offesa si traduce anche in uno strumento di apprezzamento del danno non patrimoniale, o, meglio, permette di accertare anche la concreta effettività (id est, la serietà) del pregiudizio. Non è dunque condivisibile l'opinione di chi (G. Travaglino, Il danno esistenziale tra metafisica e diritto, in Danno resp., 2007, 531), ritiene che la serietà della lesione subita dal danneggiato sia "da ritenersi in re ipsa, tenendo in gioco interessi di rilevanza costituzionale".

Ritorna al link(16) G. Ponzanelli, Il riconoscimento del danno esistenziale e la sua estraneità ad un moderno sistema di r.c., in Id. (a cura di), Critica del danno esistenziale, Padova, 2003, 33 ss., e, per un rilievo proveniente anche dagli stessi sostenitori della categoria: P. Ziviz, Lo spettro dei danni bagatellari, in questa Rivista, 2007, 54 ss.

Ritorna al link(17) Per questa soluzione M. Bona-P.G. Monateri, Il nuovo danno non patrimoniale, Milano, 2004, 244.

Ritorna al link(18) Per l'esclusione dalla tutela risarcitoria di comportamenti a "minima efficacia lesiva", ad es., Cass. civ., 10 maggio 2005, n. 9801, in questa Rivista, 2005, 670.

Ritorna al link(19) P. Perlingieri, L'art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince, in Rass. dir. civ., 2003, 782.

Ritorna al link(20) Potrebbe essere questo il caso della perdita dell'animale da affezione, se si configura la relazione tra uomo e animale come una relazione proprietaria, che invece le Sezioni Unite risolvono sul presupposto del difetto della inviolabilità dell'interesse leso (per un precedente negativo v. già Cass. civ., 27 giugno 2007, n. 14846, in questa Rivista, 2007, 2270, con nota di D. Chindemi; e in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 211, con nota di G. Cricenti). Diverso è se l'uccisione dell'animale costituisca non solo il mezzo per attentare alla personalità del proprietario, proprio di un illecito doloso, ma anche l'ipotesi in cui la perdita del bene leso si proietti sulle condizioni dell'esistenza (tipico è il caso dell'uccisione dell'animale addestrato per la specifica terapia del soggetto ammalato), incidendo su un diritto inviolabile. In altri termini, l'esclusione del danno non patrimoniale derivante da lesione di interessi economici lascia sicuramente fuori dal territorio della risarcibilità il mero valore d'uso che la cosa riveste rispetto al suo proprietario, ma necessita di opzioni interpretative nel suo collegamento con i diritti inviolabili dell'uomo. Sulla scarsa attenzione, nel contesto europeo, per il pregiudizio affettivo derivante dai danni alle cose: E. Bargelli, Il nuovo sistema dei danni non patrimoniali a confronto con l'evoluzione del diritto europeo, in I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, cit., 127 ss.

Ritorna al link(21) In argomento cfr. anche i rilievi di E. Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la complessità dei danni non patrimoniali, supra, 71.

Ritorna al link(22) Nella sentenza si fa riferimento al caso oggetto di Cass. civ., 12 febbraio 2008, n. 3284, in questa Rivista, 2008, 1059, con nota di P. Ziviz; e in Danno resp., 2008, 445, con nota di G. Ponzanelli, Ci vuole un diritto fondamentale per la concessione del danno non patrimoniale, al quale si potrebbe aggiungere il mancato riconoscimento della natura di diritto fondamentale della persona all'interesse a praticare i riti della propria religione, ritenuto non leso dalla celebrazione anticipata di orario della messa a suffragio del proprio defunto: Cass. civ., 27 marzo 2007, n. 7449, in Danno resp., 2007, 779, con nota di G. Finocchiaro, Uno scherzo al prete e alla giustizia degli uomini.

Ritorna al link(23) F. Gazzoni, L'art. 2059 c.c. e la Corte costituzionale: la maledizione colpisce ancora, in questa Rivista, 2003, 1306. Su posizioni non dissimili: M. Barcellona, Il danno non patrimoniale, Milano, 2008, 75.

Ritorna al link(24) Sulla "inconsistenza" della categoria: C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 80. Particolarmente critico M. Rossetti, L'inutilità del danno esistenziale, in G. Ponzanelli (a cura di), Il risarcimento integrale senza il danno esistenziale, Padova, 2007, 59 ss.

Ritorna al link(25) Ad es., Cass. civ., 9 novembre 2006, n. 23918, in questa Rivista, 2007, 276, con commento di P. Cendon, Danno esistenziale e ossessioni negazioniste.

Ritorna al link(26) È questo, secondo le Sezioni Unite, il caso degli illeciti tipizzati in sede civile enumerati in motivazione. La rassegna non è tuttavia troppo puntuale, sia perché si richiama ancora, per l'illecito trattamento dei dati personali, la l. n. 675/1996 in luogo del d.lgs. n. 193/2006, sia perché le Sezioni Unite trascurano di menzionare altri illeciti che tipizzano la risarcibilità del danno non patrimoniale: tra questi, l'art. 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 (attuazione della direttiva 2000/43/CE sulla parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica), l'art. 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro senza distinzioni derivanti dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età e dall'orientamento sessuale), l'art. 3, comma 3, l. 1 marzo 2006, n. 67, che prevede l'espressa risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di discriminazioni delle persone con disabilità.

Ritorna al link(27) Per rilievi sul punto, sia consentito il rinvio a D. Poletti, Manifesta inammissibilità per l'ennesima questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., in questa Rivista, 2005, 656, ove si prospettava la coesistenza, all'interno di un unico modello di risarcibilità del danno − che anche in ciò mostrava la sua complessità − di "strutture forti", ossia interessi meritevoli in ogni caso di tutela risarcitoria e di "strutture deboli", ovvero interessi genericamente non patrimoniali, ai quali continuare ad assegnare le maglie dell'art. 2059 c.c. nella sua persistente struttura di norma agganciata al fatto-reato e, deve aggiungersi, agli illeciti civili tipizzati che non contemplano la lesione di interessi inviolabili.

Ritorna al link(28) Emblematico è il caso del danno non patrimoniale da lesione della proprietà intellettuale di cui agli artt. 125 c.p.i. e 158 l.a., sul quale cfr., per essenziali considerazioni: D. Poletti, Qualche notazione sul risarcimento del danno da lesione della proprietà intellettuale, in Liber Amicorum per F.D. Busnelli, Milano, 2008, I, 354 ss.

Ritorna al link(29) Sollevavano tale problema, già di fronte alla svolta del 2003, con riguardo, ad esempio, all'art. 7 c.c., Bona-Monateri, op. cit., 250. E si pensi anche all'art. 709-ter, comma 2, n. 2, c.p.c., introdotto dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54, che postula, in caso di gravi inadempienze o di atti che arrechino pregiudizio al minore, il "risarcimento dei danni" a carico di uno dei genitori nei confronti del minore stesso.

Ritorna al link(30) Con la specificazione che tale regola andava a disciplinare i casi in cui i contraenti non avessero già direttamente o indirettamente regolato il problema: E. Navarretta-D. Poletti, I danni non patrimoniali nella responsabilità contrattuale, in E. Navarretta (a cura di), I danni non patrimoniali, cit., 59 ss., 69. E v. anche, in argomento, le riflessioni di Bona-Monateri, Il nuovo danno non patrimoniale, cit., 256 ss.

Ritorna al link(31) In questa Rivista, 2006, 1041, con commenti di Bertoncini, 1047; Bilotta, 1051; Rossetti, 1477; e F. Bonaccorsi, I percorsi del danno non patrimoniale da demansionamento tra dottrina e giurisprudenza;ivi, 2007, 839; e in Mass. Giur. lav., 2006, 485, con nota di A. Vallebona, L'edonismo d'assalto di fronte alle Sezioni Unite: il danno alla persona del lavoratore.

Ritorna al link(32) Condivisa ancora da M. Franzoni, Prove di assetto per il danno non patrimoniale: alcune suggestioni, cit., 631.

Ritorna al link(33) M. Costanza, Danno non patrimoniale e responsabilità contrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 128.

Ritorna al link(34) G. Bonilini, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, 232.

Ritorna al link(35) C. Amato, Il danno non patrimoniale da contratto, in G. Ponzanelli (a cura di), Il "nuovo" danno non patrimoniale, Padova, 2004, 156.

Ritorna al link(36) V., ad es., F.D. Busnelli, Il danno alla persona: un dialogo incompiuto tra giudici e legislatori, in Danno resp., 2008, 611.

Ritorna al link(37) Sulla natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria, pubblica e privata: Sez. Un. civ., 11 gennaio 2008, n. 577, in questa Rivista, 2008, 849, con nota di M. Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/di risultato.

Ritorna al link(38) E. Navarretta-D. Poletti, op. cit., 67 e nota 32.

Ritorna al link(39) Il problema appare ben più vasto e complesso dei contratti con i quali si acquista "il benessere", come nel caso della vendita di pacchetti turistici, nel quale l'interesse ad un periodo di riposo e di svago assurge ad elemento integrante la causa in concreto (a tacere degli indici normativi di cui agli artt. 94 e 95 cod. cons.), solo a considerare che i diritti della personalità sempre più assurgono a "termine di riferimento oggettivo" del contratto: G. Resta, Contratto e persona, in Trattato del contratto, VI, Interferenze, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, 3 ss.

Ritorna al link(40) Segnala che "il rischio di un danno personale da mero inadempimento si può dire che rientri, in linea di massima, tra i rischi non contabilizzati/contabilizzabili in contratto", M. Barcellona, Il danno non patrimoniale, cit., 89.

Ritorna al link(41) Sulla quale v. ora lo studio di A. Gnani, Sistema di responsabilità e prevedibilità del danno, Torino, 2008.

Ritorna al link(42) Cfr., in merito, le considerazioni di F. Tescione, Il danno non patrimoniale da contratto, Napoli, 2008, 98 ss., che assegna alla norma la funzione di escludere il risarcimento di quei danni non patrimoniali che non possiedano requisiti minimi di prevedibilità, all'interno di una ricostruzione che non prevede tuttavia il limite, in area contrattuale, dei diritti inviolabili.

Ritorna al link(43) Ancora E. Navarretta-D. Poletti, op. cit., 72.

Ritorna al link(44) Ossia composto dal danno biologico, dal danno morale e dal danno esistenziale. Per tutte: Cass. civ., 16 maggio 2007, n. 11287.

Ritorna al link(45) Ma la giurisprudenza continua a qualificare come danno in sé il discredito, tanto personale quanto patrimoniale, derivante da protesto illegittimo: Cass. civ., 20 giugno 2006, n. 14977, in questa Rivista, 2007, 548, con commento di C. Scognamiglio, Protesto illegittimo e danno in re ipsa.

Ritorna al link(46) Cass. civ., 30 ottobre 2007, n. 22884, in questa Rivista, 2008, 80, con la citata nota di P. Ziviz, Danno esistenziale: solo il tuo nome è mio nemico; e ivi, 2008, 304, con nota di F. Azzarri, Dal danno parentale un modello per il sistema dei danni alla persona; nonché in Danno resp., 2007, 517.

Ritorna al link(47) Cfr., a vario titolo, i contributi raccolti nel citato volume Il risarcimento integrale senza il danno esistenziale.

Ritorna al link(48) Concordi sul punto: E. Navarretta, I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 52; G. Ponzanelli, Il "nuovo" art. 2059, in Il "nuovo" danno non patrimoniale, cit., 66; D. Poletti, Danni non patrimoniali, cit., 609, nonché P. Ziviz-F. Billotta, Danno esistenziale: forma e sostanza, in questa Rivista, 2004, 1313. In giurisprudenza era per esempio esplicita nell'affermare che, dinanzi alla liquidazione del danno biologico considerato "in tutte le situazioni e i rapporti di esplicazione della persona", non v'è luogo "per una duplicazione liquidatoria della stessa voce di danno, sotto la categoria generica del danno esistenziale": Cass. civ., 20 aprile 2007, n. 9510, in questa Rivista, 2007, 1553, con nota di P. Cendon, Ma il biologico saprà fare la sua parte?, e, in motivazione, il richiamo ad altri precedenti.

Ritorna al link(49) Sez. Un. civ., 24 marzo 2006, n. 6572, cit.

Ritorna al link(50) Nel domandarsi a quale tavola di valori/interessi costituzionalmente garantita pareva corretto riferirsi per fondare una legittima richiesta risarcitoria a titolo di danno esistenziale, l'ordinanza di rimessione si interrogava se potesse dirsi autonomamente risarcibile a tale titolo "un danno che non abbia riscontro nell'accertamento medico, ma incida tuttavia nella sfera del diritto alla salute inteso in una ben più ampia accezione di stato di "completo benessere psico-fisico"".

Ritorna al link(51) La motivazione richiama anzitutto il caso di morte del danneggiato, in cui però la dimostrazione della sussistenza di una malattia o di postumi invalidanti verrà normalmente introdotta nel processo tramite la produzione di certificazioni mediche di parte, di esami, copie di cartelle cliniche ecc., sulle quali potrà esercitarsi ugualmente l'accertamento medico-legale.

Ritorna al link(52) Cass. civ., 30 ottobre 2007, n. 22884, cit.

Ritorna al link(53) D. Poletti, I riflessi del revirement giurisprudenziale nel settore Inail, in I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, cit., 75 ss.

Ritorna al link(54) Così anche V. Scalisi, Danno alla persona e ingiustizia, in Riv. dir. civ., 2007, I, 162.

Ritorna al link(55) Cfr. in particolare la Guida alla liquidazione, in I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, cit.; E. Navarretta, Funzioni del risarcimento e quantificazione dei danni non patrimoniali, in questa Rivista, 2008, 500 ss.; D. Poletti, Manifesta inammissibilità per l'ennesima questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., cit., 667 ss.

Ritorna al link(56) In questi termini, con riferimento al danno morale, Cass. civ., 25 maggio 2004, n. 10035, in Danno resp., 2004, 1065.

Ritorna al link(57) Sulle ragioni della diversità tra danno non patrimoniale biologico e non biologico sia ancora consentito rinviare a D. Poletti, I riflessi del revirement giurisprudenziale nel settore Inail, cit., 83.

Ritorna al link(58) Che la giurisprudenza comunemente ravvisa nella gravità delle lesioni, nei postumi permanenti, nell'età, nell'attività espletata e nelle condizioni sociali e familiari del danneggiato. L'esigenza della massima personalizzazione del danno biologico comporterà una maggiore attenzione alla necessità di specificare questi − e altri − parametri con riferimento alle peculiarità del singolo caso.

Ritorna al link(59) C. Scognamiglio, Danno morale e funzione deterrente della responsabilità civile, in questa Rivista, 2007, 2485 ss.

Ritorna al link(60) Critica verso il tentativo di "archiviare difilato la prospettiva secondo cui lo scopo del risarcimento del danno non patrimoniale è anche quello di reprimere e di prevenire comportamenti antigiuridici" è M.V. De Giorgi, Il danno esistenziale dopo la svolta costituzionale del 2003, in Il risarcimento integrale senza il danno esistenziale, cit., 31.

Ritorna al link(61) Così Cass. civ., 30 ottobre 2007, n. 22884, cit.

Ritorna al link(62) Si tratta di Cass. civ., 11 novembre 2008, n. 26973 e n. 26974, il cui testo è disponibile in www.giuffre.it/riviste/resp.

Ritorna al link(63) In una delle decisioni − la n. 26973 − per undici ore.

Ritorna al link(64) Per tutte: cfr. Cass. civ., 16 maggio 2003, n. 7632, in questa Rivista, 2003, 1049.

Ritorna al link(65) La decisione sopra citata aveva per esempio confermato la pronunzia di merito che aveva liquidato tale danno con valori superiori di cento volte rispetto a quelli tabellari.

Ritorna al link(66) Più ampiamente: D. Poletti, Il danno risarcibile, cit.

Ritorna al link(67) Cfr. non solo la definizione di danno biologico dettata dagli artt. 138 e 139 cod. ass. − "per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona..." (corsivo aggiunto) − ma anche il comma 2, lett. e) della prima norma per il danno biologico temporaneo per lesioni di non lieve entità e il comma 1, lett. a) della seconda norma per quello relativo alle lesioni di lieve entità.

Ritorna al link(68) Ai quali il danno biologico e morale "terminale" sono stati concessi, anche di recente, da Cass. civ., 19 ottobre 2007, n. 21976, in Danno resp., 2008, 313, con commento di R. Foffa, Il danno non patrimoniale del soggetto in stato comatoso.



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vedi giurisprudenza
Nota a :
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972

IL VALORE DELLA PERSONA NEI DIRITTI INVIOLABILI E LA COMPLESSITÀ DEI DANNI NON PATRIMONIALI

Resp. civ. e prev. 2009, 1, 0063X1133141

Emanuela Navarretta
Ordinario di diritto privato nell'Università di Pisa

Sommario: 1. Le Sezioni Unite e la fine del contrasto "sul danno esistenziale". − 2. Il consolidamento della Drittwirkung. − 2.1. La critica al danno esistenziale e al suo presunto "rango costituzionale". − 2.2. I diritti inviolabili, la dialettica fra solidarietà e tolleranza e la piena tutela della persona. − 2.3. La Drittwirkung nella responsabilità contrattuale. − 3. Il problema della liquidazione unitaria e la necessità di rispettare i principi della trasparenza e della motivazione del quantum. − 3.1. Ciò che resta (e che deve restare) del rapporto fra le componenti del danno non patrimoniale. − 3.2. Ciò che resta (e che deve restare) del danno biologico e del suo rapporto con il danno morale. − 4. Le sfide del futuro: il translation problem per la quantificazione dei danni e la tutela dei diritti inviolabili "senza distinzioni di Corti".

(*)1. LE SEZIONI UNITE E LA FINE DEL CONTRASTO "SUL DANNO ESISTENZIALE"
Con quattro sentenze gemelle (nn. 26972-26973-26974-26975) depositate l'11 novembre del 2008, le Sezioni Unite della Cassazione, chiamate a dirimere il contrasto sul danno esistenziale (1), confermano e consolidano il revirement del 2003 (2).
L'ampliamento dei danni non patrimoniali, attraverso la lettura adeguatrice alla Costituzione dell'art. 2059 c.c., viene definitivamente riferito alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, con una chiara presa di coscienza della flessibilità della categoria, della sua permeabilità al pluralismo e della sua consonanza rispetto alla materia dei danni non patrimoniali (3). L'occasione, d'altro canto, è propizia sia per estendere la Drittwirkung alla responsabilità contrattuale sia per entrare nel cuore del contenuto positivo dei danni non patrimoniali, con soluzioni in parte da discutere, ma che comunque superano tanti luoghi comuni e riportano alla ribalta le questioni reali: la prova e soprattutto la quantificazione dei danni non patrimoniali.
Per giungere a tali sviluppi la Cassazione si misura in primis con il conflitto sul danno esistenziale (4).
Decisamente rigettata è la teoria che utilizza la "formula magica" − direbbe Wiethölter − del danno esistenziale (5) per alterare l'interpretazione proposta nel 2003, sul presupposto che la categoria dei diritti inviolabili dell'uomo sia inadeguata a tutelare la persona (6).
D'altro canto, le Sezioni Unite neppure ostracizzano in assoluto il termine. "I pregiudizi [attinenti] all'esistenza della persona, − si legge − possono per comodità di sintesi essere descritti e definiti come esistenziali". In sostanza, si traccia una chiara linea distintiva tra la teoria del danno esistenziale, che intende rovesciare il sistema bipolare, e un possibile richiamo meramente descrittivo a un pregiudizio che si proietta sull'esistenza del danneggiato e che non deve tuttavia ridursi alla formula banalizzante e in parte deviante del "non poter più fare" (7).
La scelta delle Sezioni Unite appare, dunque, opportuna, poiché ridimensiona la portata reale del conflitto giurisprudenziale, mostrando che nella maggior parte dei casi i giudici di legittimità hanno utilizzato con valenza meramente descrittiva il "danno esistenziale", e suggerisce di allentare le polemiche per affrontare i problemi reali del contenuto, della prova e della quantificazione dei danni non patrimoniali (8).
2. IL CONSOLIDAMENTO DELLA DRITTWIRKUNG
2.1. La critica al danno esistenziale e al suo presunto "rango costituzionale"
La pars destruens delle Sezioni Unite si rivolge alla teoria del danno esistenziale sia nella sua motivazione attuale sia nella soluzione tecnico-giuridica.
I fautori del danno esistenziale (9), nato per reagire alle vecchie strettoie dell'art. 2059 c.c., avrebbero dovuto riconoscere (10) il dileguarsi del movente della categoria dopo il revirement del 2003. Viceversa, la persistente proposta di dare una veste costituzionale al danno esistenziale in sé (11) non solo presuppone di ritenere insufficiente la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, ma sposa oltretutto una concezione tecnico-giuridica, le cui insidie, già denunciate in dottrina (12), vengono ora ampiamente riconosciute dalla Cassazione.
Conferire un rango costituzionale al danno esistenziale, posto che la Costituzione certamente non protegge danni ma interessi, comporta l'affermazione implicita che con il danno esistenziale automaticamente venga leso un interesse di rango costituzionale(13). In tal modo però si confondono due distinti piani giuridici, quello "del pregiudizio da riparare con quello dell'ingiustizia da dimostrare" (14), con l'effetto di produrre un duplice corto circuito. Si converte una norma di impronta tipizzante in una clausola a contenuto atipico, conferendo a due norme formalmente distinte (l'art. 2059 e l'art. 2043 c.c.) il medesimo contenuto (15), e oltretutto, dato che il danno esistenziale dovrebbe coinvolgere in re ipsa un interesse per di più costituzionale, si finisce − anche al di là delle intenzioni di chi ha concepito la teoria (16) − per abrogare l'ingiustizia del danno. Né basta ad evitare una simile incongruenza il tentativo di invocare il coinvolgimento con il danno esistenziale di valori e non di interessi costituzionali (17), poiché anche l'offesa ad un valore fondamentale è ben sufficiente a integrare un danno contra ius.
Ma soprattutto il problema di fondo è che l'obiettivo perseguito dalla teoria − la regola dell'ingiustizia per i danni non patrimoniali − non è coerente con le intenzioni che la animano, cioè la tutela della persona. E infatti, rivendicando per i danni non patrimoniali la regola dell'ingiustizia del danno, in realtà, si viene ad ampliare la tutela del patrimonio e non certo della persona, poiché si riconoscono i danni non patrimoniali anche per l'offesa ad interessi meramente economici(18). Questi risulterebbero maggiormente protetti e magari − sulla scia del valore personale ed inviolabile conferito al danno conseguente − rafforzati in un eventuale bilanciamento di interessi che dirime il conflitto con diritti personali. Se l'imprenditore a cui vengono imposte prescrizioni a tutela dell'ambiente potesse lamentare che vengono frustrati i suoi progetti imprenditoriali con conseguente modificazione peggiorativa della sua agenda esistenziale, il bilanciamento di interessi fra ambiente e iniziativa economica verrebbe alterato da un'istanza personalistica a supporto dell'interesse patrimoniale.
In definitiva, il diverso regime fra danni patrimoniali e danni non patrimoniali che deriva dal "nuovo" art. 2059 c.c. non crea alcuna disparità di trattamento fra patrimonio e persona a scapito dell'ultima, ma, al contrario, offre maggiore tutela agli interessi personali (19) rispetto a quelli patrimoniali, allontanando − come osserva la Corte − qualunque dubbio "di legittimità costituzionale".
2.2. I diritti inviolabili, la dialettica fra solidarietà e tolleranza e la piena tutela della persona
Perno centrale nell'argomentazione della Corte è l'affermazione, senza più margini di ambiguità(20), che la piena tutela della persona attraverso il risarcimento dei danni non patrimoniali è affidata alla categoria dei diritti inviolabili(21).
La scelta risponde ad una duplice ragione. Innanzitutto, le Sezioni Unite traducono il precetto dell'inviolabilità, che è sinonimo di intangibilità (22) rispetto a qualsivoglia potere pubblico o soggetto privato, in un principio di "tutela minima risarcitoria" (23) estesa anche ai danni non patrimoniali. È, dunque, proprio l'inviolabilità ad attrarre il rinvio dell'art. 2059 c.c. (24).
D'altro canto, la Cassazione mostra di voler recepire nel diritto civile tutte le risorse della categoria dei diritti inviolabili, le cui caratteristiche si coniugano perfettamente con le esigenze dei danni non patrimoniali e non consentono di ravvisare alcuna lacuna nella tutela della persona.
Le sentenze delle Sezioni Unite ricordano alcuni fra i più importanti diritti inviolabili dell'uomo, ma soprattutto segnalano il metodo attraverso il quale riconoscerli in una prospettiva sia sincronica sia diacronica (25).
Per identificare i diritti inviolabili occorre comprendere il senso che esprime la categoria e il metodo che presiede all'accertamento dell'inviolabilità.
I diritti fondamentali riflettono il valore dell'uomo, la cui essenza giuridica si identifica con la dignità e con il libero sviluppo della personalità, e rispecchiano al contempo la sua dimensione sociale, che implica la necessaria coesistenza pluralistica di libertà e diritti.
Ma soprattutto l'inviolabilità esprime una dimensione di valore non puramente astratta, ma da accertare in concreto guardando al grado di coinvolgimento dell'interesse (26). Questa caratteristica dei diritti inviolabili riveste una notevole importanza sotto una duplice angolatura.
In primo luogo, serve a confutare l'idea che i diritti inviolabili siano una categoria inadeguata a tutelare la persona (27). E, invero, le più mature riflessioni in materia di diritti della personalità − a partire da von Gierke (28) − sottolineano come la primaria differenza tra personalità e patrimonialità sia "di grado e non [o non solo] di natura"(29). È evidente, pertanto, come una nozione quale quella dell'inviolabilità nella quale è immanente il richiamo al grado di coinvolgimento dell'interesse non lascia vuoti nella tutela civile della persona, bensì meglio si adatta rispetto alle categorie tradizionali alle attuali esigenze di difesa dell'uomo. Così una serie di vicende problematiche che in astratto sembrerebbero coinvolgere diritti patrimoniali − ad esempio l'impedimento del paraplegico ad uscire di casa per il rifiuto dei condomini a installare l'ascensore, l'uccisione del cane del non vedente, la necessità di vendere un appartamento per sfuggire ad immissioni tossiche − in realtà, guardate in una prospettiva attenta al grado e all'effettivo coinvolgimento dell'interesse leso, mostrano di intaccare diritti e valori fondamentali della persona: la libertà personale, il libero svolgimento della personalità, il diritto all'abitazione, la libertà di domicilio.
In secondo luogo, l'accertamento in concreto dell'inviolabilità induce a non fermarsi alla cornice formale del diritto, ma a guardare se esso è stato "inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio" (30). Il "fastidio causato per una mattinata dai fumi emessi da una fabbrica [o] il disagio di poche ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali" (31) rientrano in quella dose di veleno quotidiano che ciascuno di noi è chiamato a tollerare per la comune convivenza; al contrario, il malessere protratto per giorni, mesi o anni derivante da immissioni industriali o l'essere costretti per giorni, mesi o anni a vivere reclusi in casa richiamano senza dubbio una dimensione inviolabile, che può variamente coinvolgere il diritto all'ambiente salubre, la libertà di domicilio o la libertà personale. Tale verifica sul grado concreto di coinvolgimento dell'interesse si sposa perfettamente con le esigenze e con le peculiarità dei danni non patrimoniali e non vale certo a limitarli (32). In un contesto nel quale manca il filtro oggettivo del mercato e nel quale domina la sensibilità soggettiva, l'accertamento di una minima serietà dell'offesa è garanzia di un'oggettiva rilevanza del danno e consente di escludere quei pregiudizi bagatellari e idiosincrasici che, anziché tutelare la persona, assecondano l'intolleranza a scapito del pluralismo dei diritti.
L'accertamento in concreto dell'inviolabilità, in definitiva, riflette il pluralismo sotteso alla categoria dei diritti inviolabili e dà ingresso nella responsabilità civile per i danni non patrimoniali, a latere della solidarietà verso il danneggiato (33), al complementare e coordinato principio della tolleranza (34)(35). Tale principio, fondamento stesso delle libertà, viene compendiato nella felice immagine di una filosofa del diritto che evoca la necessità di "incamerare una minima quota di veleno verso se stessi" (36) a garanzia della pacifica coesistenza fra libertà e diritti. Così, ad esempio, sarà la serietà dell'offesa a separare la banalità di possibili attriti quotidiani nel mondo del lavoro dal mobbing che offende la dignità e il libero svolgimento della personalità.
La conferma, del resto, che il principio della tolleranza a latere della solidarietà si adatta proprio all'ambito dei danni non patrimoniali si evince emblematicamente dall'esempio del sistema francese. Dopo la strenua difesa, in passato, di un uguale trattamento fra danni patrimoniali e non patrimoniali, oggi, dinanzi al dilagare incontrollato dei préjudices morales, viene invocata una "tolérance mutuelle" che induce a ritenere risarcibile il danno non patrimoniale soltanto se "la perturbation excède le seuil du supportable" (37).
Per tali ragioni, va salutata con il massimo apprezzamento l'affermazione della Corte secondo cui "il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile"(38).
2.3. La Drittwirkung nella responsabilità contrattuale
Le Sezioni Unite non si limitano a consolidare la regola di risarcibilità dei danni non patrimoniali che deriva dal combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 2 Cost., ma affrontano anche il coordinamento sistematico con la responsabilità contrattuale.
Il problema viene impostato dalla Corte a partire dalla constatazione imprescindibile, anche se non decisiva, del possibile coinvolgimento in ambito contrattuale di interessi non patrimoniali. Tale presenza è espressamente attestata dal dato normativo dell'art. 1174 c.c. e si riscontra di continuo in una prassi che vede l'interesse non patrimoniale configurarsi sia quale interesse protetto da obbligazioni o da obblighi, di fonte convenzionale o legale, a partire dagli artt. 2087 e 2103 c.c., sia quale sostrato di impegni contrattuali ad efficacia non necessariamente obbligatoria, com'è l'atto di destinazione nel quale l'interesse non patrimoniale veste addirittura il ruolo di presupposto causale. La gamma di ipotesi è la più varia e viene disegnata dalle Sezioni Unite con un succedersi di esempi che vanno dal contratto di cure, al contratto di trasporto, al contratto di lavoro, sino a figure più discutibili, come il contratto di protezione che avrebbe fonte in un contatto sociale.
Ma ciò che conta in questa sede sottolineare è che la responsabilità contrattuale, pur divergendo da quella aquiliana in quanto si basa su una mera violazione (l'inadempimento di un'obbligazione o la violazione di un impegno contrattuale), implica essa stessa la lesione di un interesse giuridico che risulta automaticamente violato dalla condotta non iure che è in re ipsa contra ius.
Sulla premessa, dunque, che anche la responsabilità contrattuale, pur non dando autonomo risalto al contra ius, può non soltanto genericamente coinvolgere, ma direttamente ledere interessi non patrimoniali e che la lesione di questi ultimi solleva in maniera prioritaria l'esigenza di risarcire i danni non patrimoniali, resta ora da chiarire a quali condizioni possa ammettersi il risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, posto che la presenza di un interesse non patrimoniale è condizione necessaria, ma non sufficiente per ottenere tale risarcimento (39).
Le Sezioni Unite, a fronte di norme sostanzialmente anodine, come l'art. 1223 c.c., operano una scelta decisamente coraggiosa. Staccandosi dalle teorie che differenziano la disciplina dei danni non patrimoniali in ambito extracontrattuale e contrattuale(40), sottopongono lo stesso art. 1223 c.c. nonché l'art. 1218 c.c. ad un'interpretazione adeguatrice alla Costituzione. In sostanza, poiché tali norme non escludono, ma neppure d'altro canto disciplinano il risarcimento dei danni non patrimoniali, questi, a parte le ipotesi in cui il legislatore li prevede espressamente, vengono riconosciuti se resi imprescindibili dalla natura inviolabile dell'interesse leso (41): "la lesione dei diritti inviolabili − si legge − [...] comporta l'obbligo di risarcire il danno non patrimoniale [...] quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale".
Va, chiaramente, aggiunto che nel campo della responsabilità contrattuale resta ferma comunque anche la rilevanza della fonte volontaria e, dunque, la possibilità che dall'assetto degli interessi concordato tra le parti emerga con assoluta chiarezza l'intento di dare copertura al risarcimento dei danni non patrimoniali (42).
3. IL PROBLEMA DELLA LIQUIDAZIONE UNITARIA E LA NECESSITÀ DI RISPETTARE I PRINCIPI DELLA TRASPARENZA E DELLA MOTIVAZIONE DELQUANTUM
3.1. Ciò che resta (e che deve restare) del rapporto fra le componenti del danno non patrimoniale
Ricostruite le regole di risarcibilità, le Sezioni Unite si inoltrano nel complesso territorio del contenuto positivo dei danni non patrimoniali, sulla scorta di un principio guida: "è compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione".
Di qui le Sezioni Unite traggono spunto per rilevare che il danno è sempre unitario e che, a seconda della fattispecie o del tipo di interesse leso, si colora di un contenuto che ha una valenza meramente descrittiva. Imputano, di conseguenza, le tradizionali voci di danno alle diverse tipologie di illecito − il danno morale, al reato; il danno esistenziale, alla lesione di diritti fondamentali; il danno biologico, alla lesione del diritto inviolabile alla salute − attribuendo nel contempo alle singole voci descrittive un'accezione tale da abbracciare la totalità del pregiudizio risarcibile: il danno morale comprende non solo la sofferenza transeunte, ma anche la sofferenza provocata dal reato che si protrae nel tempo e accompagna l'esistenza; i danni che "per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali" vengono associati alla "sofferenza morale determinata dal non poter fare"; il danno biologico include il dolore e le ricadute esistenziali.
L'impostazione intende evidentemente dimostrare gli eccessi di semplificazione che hanno portano a separare nettamente condizioni come quella della sofferenza e dello sconvolgimento esistenziale, che spesso coesistono e si sovrappongono. D'altro canto, vuole soprattutto avversare la prassi di sommare in via di automatismo le voci di danno (o addirittura di inventarne di nuove) per aumentare semplicemente il risarcimento (43).
L'approccio ha l'effetto di un vero e proprio terremoto rispetto al passato, ma non deve indurre in alcun modo a banali operazioni algebriche né tanto meno a una riduzione nel quantum del risarcimento. Si tratta invece di operare un ripensamento di fondo che, facendo tesoro degli spunti della Cassazione, tenga conto di un'esigenza basilare che dall'argomentazione della Corte non traspare. L'essenza della liquidazione del danno non risiede solo nella descrizione del suo contenuto e, dunque, nell'alternativa fra una liquidazione unitaria che abbraccia un contenuto complesso o una liquidazione per voci che cerca di scindere la complessità del contenuto. Non vi sarebbe differenza fra concedere x + y che è = a z e liquidare semplicemente z.
Il problema reale e basilare è di identificare i criteri di liquidazione che riflettono non solo il contenuto descrittivo del danno ma anche le funzioni del risarcimento e soprattutto rendere trasparente la corrispondenza fra tali criteri e le somme che vengono liquidate. Solo la trasparenza consente, per un verso, di evitare le duplicazioni o le omissioni e, per un altro verso, permette di creare i presupposti per operare un confronto effettivo con i precedenti giurisprudenziali relativamente al quantum, che è l'unico itinerario capace di sottrarre il momento della conversione dei criteri liquidativi in denaro al più totale arbitrio (44).
Venendo, dunque, ai criteri con cui si ricostruisce e si misura la reazione emotiva più immediata nei confronti dell'illecito − quello che tradizionalmente è stato chiamato il danno morale − vengono in considerazione in via primaria il tipo di interesse leso e la gravità dell'offesa, ma d'altro canto possono rilevare anche le condizioni personali della vittima (se, ad esempio, si tratta di un adulto o di un bambino) e soprattutto le circostanze di fatto con cui si è verificato l'impatto lesivo nonché i profili soggettivi dell'illecito, la colpa grave o il dolo del danneggiante, che possono acuire la reazione emotiva. Ed è per questa ragione che il contenuto del danno morale si è prestato anche ad accogliere, accanto alla funzione risarcitoria solidaristico-satisfattiva, un'eventuale funzione individual-deterrente, che implica un innalzamento del risarcimento in ragione della gravità soggettiva dell'illecito.
Passando, ora, dalla reazione emotiva più immediata ad una possibile proiezione negativa di più lungo periodo sull'esistenza della vittima − che non è solo "il non poter più fare", ma anche "il non voler più fare" o "il continuare a fare le stesse cose di prima ma senza più il sapore della vita" o "l'essere costretti a fare ciò che non si vorrebbe" e chiaramente anche il soffrire per simili restrizioni e condizionamenti − orbene anche tale pregiudizio in primis non può che desumersi dal tipo e dalla gravità dell'offesa nonché dalle condizioni personali del danneggiato. Sono proprio tali parametri − l'uccisione di un congiunto convivente, una violenza carnale, una carcerazione ingiustificata per un certo numero di anni − che consentono di inferire con oggettività il grado di proiezione negativa sulla vittima, che riflette anche un principio di uguaglianza formale, nel senso che per offese analoghe, ad esempio l'uccisione dell'unico figlio, non potranno esservi risarcimenti radicalmente divergenti. Ma questo chiaramente non vuol dire che il risarcimento non vada personalizzato, in nome dell'uguaglianza sostanziale e della stessa nozione di danno, considerando i cambiamenti intervenuti nel modo di vivere del danneggiato.
Orbene, constatando che il cuore probatorio di ambedue le componenti di danno è costituito dal tipo e dalla gravità dell'offesa nonché dalle condizioni personali del danneggiato parrebbe confermata e rafforzata l'esigenza di una liquidazione unitaria fra quelli che tradizionalmente erano il danno morale e il danno esistenziale. D'altro canto, però, è anche emerso che alcuni criteri possono incidere solo sulla reazione emotiva più immediata, ed eventualmente riflettere la funzione individual-deterrente, mentre altri valgono unicamente a personalizzare la proiezione nel tempo del pregiudizio che accompagna l'esistenza.
Al fine, dunque, di bilanciare le due opposte esigenze di evitare rigide scomposizioni e facili duplicazioni, ma al contempo per rendere trasparente la differente incidenza di diversi criteri e di differenti funzioni risarcitorie pare opportuno proporre che la liquidazione unitaria del danno da lesione dei diritti fondamentali o da reato renda evidenti i seguenti passaggi. Si deve esplicitare, innanzitutto, se il danno si esaurisce con l'impatto emotivo negativo o se vi sia una proiezione nel tempo sull'esistenza della vittima; in questo secondo caso, si deve rendere palese in quale proporzione si è tenuto conto dell'impatto emotivo più immediato rispetto all'insieme di sofferenze e di peggioramento della qualità della vita che invece si protraggono nel tempo. Solo chiarendo questa proporzione, il giudice può rendere trasparente il rapporto fra criteri di liquidazione comuni (tipo e gravità dell'offesa e condizioni personali del danneggiato) e contenuto complesso del danno (la reazione più immediata e il pregiudizio che si protrae) e soprattutto può disporre di due basi di valore rispetto alle quali mettere ulteriormente in evidenza l'incidenza di criteri che si riflettono solo sull'una o sull'altra dimensione del danno.
In definitiva, poiché la trasparenza sul peso economico che hanno avuto i diversi criteri di liquidazione è presupposto imprescindibile per un confronto tra i precedenti giurisprudenziali, che è il solo metodo capace di motivare il quantum concesso e di impedire il più totale arbitrio nella fase di conversione monetaria del danno, è evidente che il messaggio della Corte di procedere ad una liquidazione unitaria non possa tradursi in un numero oscuro. Viceversa, si deve coordinare con le esigenze della trasparenza nella liquidazione che, di necessità, lasciano un'impronta rispetto a quello che era il tradizionale danno morale accanto a un danno che si proietta più a lungo sull'esistenza, ma non è irrigidito − come si è già puntualizzato − nel paradigma del "non poter più fare" (45).
3.2. Ciò che resta (e che deve restare) del danno biologico e del suo rapporto con il danno morale
Chiarito che il problema della liquidazione dei danni non patrimoniali non attiene alla forma delle voci di danno, ma alla sostanza del loro contenuto e alla trasparenza dei criteri di liquidazione, molti dubbi che le sentenze gemelle sollevano anche in merito al danno biologico trovano una risposta relativamente agevole.
Il primo passaggio rivoluzionario delle pronunce è il seguente: "determina [...] duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale [...] sovente liquidato in percentuale del primo" (46).
La frase è da condividere se in luogo del sovente si mette in quanto. E infatti se il giudice liquida il danno morale in una percentuale del danno alla salute, questo vuol dire che sta risarcendo il dolore fisico e quello morale che accompagnano l'invalidità temporanea e permanente e che sono direttamente proporzionati ad essa. Ma se è vero che il danno alla salute cerca di risarcire tutte le conseguenze pregiudizievoli correlate e direttamente proporzionate all'invalidità temporanea e/o permanente, non vi è dubbio che anche il dolore (fisico e morale) che è associato allo "star male" sia compreso nella liquidazione del danno alla salute. Tale conclusione, d'altro canto, non vuol dire che debba sparire il danno morale a latere del danno biologico se per danno morale si intende, nel rispetto della tradizione, la reazione emotiva rispetto all'impatto lesivo. Questa, infatti, non dipende dall'invalidità temporanea e permanente, ma da altri criteri: da come il danneggiato percepisce la lesione; dalle circostanze concrete in cui si viene a verificare l'illecito e anche dalla stessa gravità soggettiva del danneggiante che può attivare la componente deterrente. La reazione emotiva, infatti, può ben essere elevata dinanzi, ad esempio, ad un sanguinamento copioso di una ferita, che poi magari guarisce del tutto, o in una situazione in cui la vittima, pur ferita non gravemente, viva l'esperienza di sfuggire ad un disastro. La diversità di criteri di liquidazione della componente emotiva rispetto al danno biologico spiegano, dunque, l'opportunità di mantenere distinte le due voci di danno.
Non vi è, invece, alcuno spazio per un danno esistenziale accanto al danno alla salute (o biologico), poiché la nozione di ricadute esistenziali è nata proprio nel contesto del danno alla salute la cui tecnica liquidativa risarcisce tutti i riflessi negativi sull'esistenza dell'uomo provocati dai postumi, temporanei o permanenti, della patologia. Non a caso, la stessa definizione legislativa del codice dell'assicurazione parla di "incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato". Si avrebbe, pertanto, sicura duplicazione se si andasse ad aggiungere al danno alla salute ciò che da sempre comprende nella sua nozione e non solo nella componente che personalizza il risarcimento, ma già nel nucleo riflesso nel concetto di postumo, che considera in quale misura la minorazione della salute incida negativamente sul quotidiano del soggetto. Ciò precisato, resta inteso, peraltro, che l'opportuna presa di posizione della Corte non esime dal confrontarsi sempre con la complessità del reale, come le stesse Sezioni Unite invitano del resto a fare. In tal senso, non può escludersi né un illecito lesivo di una pluralità di interessi, da cui scaturiscono una pluralità di danni, né una varia concatenazione di interessi lesi e di danni conseguenti. Si pensi ad una violenza carnale a seguito della quale la vittima contragga l'Aids, che genera sia un danno non patrimoniale che discende dalla lesione della libertà sessuale sia il danno alla salute che deriva dall'aver contratto l'Aids. D'altro canto, può anche accadere che l'illecito lesivo di un interesse, ad esempio un lutto, provochi una tale reazione patologica da assorbire la complessità del pregiudizio esistenziale: la pazzia della madre per la perdita del figlio può presentare tale gravità da assorbire con il danno alla salute tutto lo sconvolgimento della vita della vittima. Oppure può riscontrarsi in concreto che, dopo un periodo di malattia mentale, resti solo un pregiudizio cha accompagna l'esistenza del danneggiato senza più colorarsi di patologia. Né la circostanza che dalla descrizione del danno si profilino due contenuti anziché uno solo deve far automaticamente concludere nel senso che la seconda ipotesi comporti un quantum minore. La quantificazione, infatti, dovrà sempre riflettere la concreta entità e gravità del danno, a prescindere dal fatto che per ragioni di tecnica liquidativa ci si avvalga di una o più voci descrittive.
E veniamo, infine, all'ultima argomentazione rivoluzionaria delle Sezioni Unite con la quale, rilevandosi che l'accertamento medico-legale non è "strumento esclusivo e necessario" per concedere il danno biologico, parrebbe infrangersi il connubio storico fra diritto e medicina legale che da sempre ha costituito l'essenza del danno biologico (47).
La portata dell'affermazione va adeguatamente spiegata e ridimensionata nella sua apparente portata dirompente.
Innanzitutto, il danno biologico per legge e per coerenza con la nozione stessa di salute non può prescindere dalla patologia, sicché il giudice non può mai fare a meno di un accertamento o di una documentazione medica. In tal senso, mentre è indiscutibile il richiamo delle pronunce alla prova documentale, che evoca la certificazione medica, viceversa, il riferimento alla prova testimoniale non può in alcun modo riguardare l'accertamento della patologia, ma può solo servire a rafforzare quanto documentato dal medico e contribuire a personalizzare la stima del pregiudizio.
Chiarita l'intangibilità del limite della patologia, si tratta poi di comprendere il ruolo che riveste la consulenza tecnica d'ufficio, che si inquadra nella prospettiva della quantificazione e non della prova del danno. Attraverso di essa, in particolare, la medicina legale converte gli effetti di una patologia sul complessivo benessere della vittima in valori cardinali che indicano la durata e la percentuale dell'invalidità temporanea e la percentuale dell'invalidità permanente. Questa capacità della scienza medico-legale offre un vantaggio indiscutibile: consente di paragonare su una base omogenea di valori un caso con l'altro, il che agevola enormemente il processo di conversione monetaria del danno alla salute, che può limitarsi ad attribuire un valore all'unità di misura dell'invalidità, fermo restando l'adattamento equitativo del risarcimento. Orbene, ove si consideri l'enorme difficoltà, al di fuori del danno alla salute, di confrontare il quantum di diversi casi analoghi su parametri il più possibile uniformi, non vi è dubbio che, dovendo il giudice motivare la sua stima equitativa, la scelta arbitraria di non avvalersi del metodo liquidativo più attendibile e scientificamente consolidato esporrebbe simile decisione ad un sicuro sindacato in Cassazione.
Ciò premesso, dunque, il senso dell'affermazione della Corte si deve cogliere in un inciso delle pronunce che va inteso con il massimo rigore. Il mancato ricorso alla C.T.U. non può mai essere arbitrario e immotivato, ma deve essere sempre rigorosamente giustificato o dall'impossibilità dell'indagine diretta sulla persona oppure dal carattere superfluo o scarsamente rilevante della consulenza. Un esempio, in tal senso, potrebbe essere il caso del danneggiato che produca certificati medici i quali attestano una patologia temporanea concomitante con un fenomeno di immissioni, cessato il quale vengono a dileguarsi anche i sintomi della patologia temporanea.
4. LE SFIDE DEL FUTURO: IL TRANSLATION PROBLEM PER LA QUANTIFICAZIONE DEI DANNI E LA TUTELA DEI DIRITTI INVIOLABILI "SENZA DISTINZIONI DI CORTI"
L'importante traguardo raggiunto con le quattro pronunce delle Sezioni Unite è il punto di arrivo di un cammino che è ancora lungo da percorrere e vede dinanzi a sé numerose sfide.
Alle critiche e allo scetticismo nei confronti dei giudici, propensi a moltiplicare i diritti poiché spesso irretiti dal senso di giustizia del caso concreto (48), deve subentrare un fitto dialogo fra dottrina e giurisprudenza per affinare il passaggio dalla ricchezza teorica dei diritti inviolabili alla loro proiezione nel mondo reale.
Dalla proliferazione dei danni o dal fascino nominalistico delle categorie si deve procedere allo studio e alla realizzazione di un metodo di trasparenza nella liquidazione dei danni non patrimoniali e di comparazione con i precedenti, onde sottrarre il problema centrale del quantum a quello che in tutti i sistemi giuridici viene considerato un ambito di sostanziale arbitrio: "[which] undermines the tort law rationality and predictability" (49).
Infine, preso atto che la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili non è più mero appannaggio della giurisprudenza ordinaria civile, si devono rimuovere i meccanismi sostanziali e processuali che generano irragionevoli disparità di trattamento. Non solo i giudici di pace − come ammoniscono le Sezioni Unite − non devono sottrarsi alle nuove regole attraverso il giudizio equitativo, ma soprattutto il giudice amministrativo, che ha acquisito la giurisdizione anche in materia di tutela dei diritti fondamentali lesi da provvedimenti illegittimi, non potrà erigere meccanismi processuali, quali la pregiudiziale o, ab imis, la decadenza dei termini di impugnazione dell'atto, contro quel rimedio essenziale per i diritti inviolabili che è il risarcimento esteso ai danni non patrimoniali. L'ultima sfida, dunque, è quella di una protezione civile dei diritti inviolabili "senza distinzioni di Corti".

Ritorna al link(*) La nota riprende i passaggi essenziali del commento "Il valore della persona nei diritti inviolabili e la sostanza dei danni non patrimoniali", improntato ad esigenze editoriali di massima sintesi, e ne sviluppa ampiamente le argomentazioni, integrandole con un adeguato corredo bibliografico.

Ritorna al link(1) L'intervento fa seguito a Cass. civ., 25 febbraio 2008, n. 4712 (ord.), in questa Rivista, 2008, 1050 ss.

Ritorna al link(2) Cass. civ., 12 maggio 2003, n. 7281; Cass. civ., 12 maggio 2003, n. 7283; Cass. civ., 31 maggio 2003, n. 8827; Cass. civ., 31 maggio 2003, n. 8828, in Foro it., 2003, I, 2272 ss., con la nostra nota, Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente; Corte cost., 11 luglio 2003, 233, in Foro it., 2003, I, 2201 ss., con la nostra nota, La Corte costituzionale e il danno alla persona "in fieri". Il revirement delle Sezioni Unite ha suscitato ampie riflessioni documentate dalla pubblicazione di numerosi volumi collettanei e saggi dedicati al "nuovo" danno non patrimoniale fra cui cfr. Bona-Monateri (a cura di), Il nuovo danno non patrimoniale, Milano, 2004; Castronovo, Il danno alla persona tra essere e avere, in Danno resp., 2004, 237 ss.; Franzoni, Il nuovo danno non patrimoniale, in Studi in onore di M.C. Bianca, t. IV, Milano, 2006, 445; Navarretta (a cura di), I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, Milano, 2004; Ponzanelli (a cura di), Il "nuovo" danno non patrimoniale, Padova, 2004.

Ritorna al link(3) Questo ha condotto all'accoglimento da parte delle Sezioni Unite di alcuni snodi critici del ragionamento con cui era stata specificata l'interpretazione adeguatrice alla Costituzione dell'art. 2059 c.c.: la rilevanza dell'accertamento in concreto dell'inviolabilità, che guarda al coinvolgimento effettivo dell'interesse e, dunque, alla serietà dell'offesa; la conseguente esclusione dei Bagattelschäden; la centralità della dialettica fra il principio della solidarietà e il principio della tolleranza. Ci sia consentito rinviare a Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, passim; Ead., Il danno alla persona tra solidarietà e tolleranza, in questa Rivista, 2001, 801 ss.; Ead., Art. 2059 c.c. e valori costituzionali: dal limite del reato alla soglia della tolleranza, in Danno resp., 2002, 872 ss., e, dopo il revirement del 2003, Ead., I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, in I danni non patrimoniali, cit., 3 ss.

Ritorna al link(4) Sulla varietà di impostazioni sostenute in dottrina rispetto al danno esistenziale cfr. Poletti, voce Danno esistenziale, in Il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, Milano, 2007, 648 ss.

Ritorna al link(5) Così Ziviz, E poi non rimase nessuno, in questa Rivista, 2003, 709 ss.; Ead., Danno non patrimoniale: mossa obbligata per le Sezioni Unite, in questa Rivista, 2008, 1027 ss.

Ritorna al link(6) Tale opinione, in realtà, viene affermata anche da V. Scalisi, Danni alla persona ed ingiustizia, in Riv. dir. civ., 2007, 151.

Ritorna al link(7) V. infra par. 3.1. e nota n. 45.

Ritorna al link(8) Scrive Gazzoni, L'art. 2059 c.c. e la Corte costituzionale: la maledizione colpisce ancora, in questa Rivista, 2003, 1311, con il consueto acume: "Il vero e unico problema che si sarebbe dovuto affrontare con coerente e razionale motivazione è quello dei criteri con i quali procedere al risarcimento del danno non patrimoniale".

Ritorna al link(9) Cendon-Ziviz (a cura di), Il danno esistenziale, Una nuova categoria della responsabilità civile, Milano, 2000, passim.

Ritorna al link(10) In parte sembrerebbe farlo Cendon, Anche se gli amanti si perdono l'amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass., 8828/2003, in questa Rivista, 2003, 687, là dove afferma di confidare in una "lettura [...] non angusta della Costituzione", ma poi rileva che ai danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c. si applicano tutti i presupposti dell'art. 2043 c.c. compresa l'ingiustizia.

Ritorna al link(11) Ziviz, E poi non rimase nessuno, in questa Rivista, 2003, 709 ss.; Ead., Danno non patrimoniale: mossa obbligata per le Sezioni Unite, ivi, 2008, 95 s. Si prende esempio in tal senso dal danno biologico, il quale però, per come è stato costruito, può derivare solo dalla lesione della salute, ossia dall'offesa ad un diritto certamente inviolabile.

Ritorna al link(12) Ci sia consentito rinviare al nostro I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 9 ss.

Ritorna al link(13) Questo può essere variamente identificato − come rileva anche la Cassazione − in un "diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità".

Ritorna al link(14) Sono parole della Corte.

Ritorna al link(15) Il che − come sottolineano le Sezioni Unite − "si risolve sostanzialmente nell'abrogazione surrettizia dell'art. 2059 c.c.". Per converso, tende a tale risultato la proposta di V. Scalisi, Danno alla persona e ingiustizia, cit., 161, quando afferma che la proclamazione dell'effetto nell'art. 2059 c.c. "(risarcibilità) muove dalla constatazione della scontata presenza del fatto condizionante (ingiustizia)".

Ritorna al link(16) Ziviz, L'ingiustizia e il danno esistenziale, in Dal Lago-Bordon (a cura di), La nuova disciplina del danno non patrimoniale, Milano, 2005, 105 ss.

Ritorna al link(17) Così Ziviz, Danno non patrimoniale: mossa obbligata per le Sezioni Unite, cit., 1028.

Ritorna al link(18) Non si condivide in tal senso il rilievo di V. Scalisi, Danno alla persona e ingiustizia, cit., 151 s. che ritiene l'estromissione del danno non patrimoniale dall'art. 2043 c.c. una sconfitta per il valore persona. In senso analogo cfr. anche Perlingieri, L'art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince, in Rass. dir. civ., 2003, 782.

Ritorna al link(19) Sul rapporto fra interessi personali e diritti inviolabili v. par. 2.2.

Ritorna al link(20) Ravvisava profili di incertezza nell'impostazione delle sentenze del 2003 e privilegiava l'idea che la tutela dovesse andare oltre la soglia dei diritti inviolabili Monateri, Il nuovo danno non patrimoniale. La nuova tassonomia del danno alla persona, in Tratt. Bessone, X, Illecito e responsabilità civile, I, Torino, 2005, 284 ss.

Ritorna al link(21) Cfr. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, cit., passim, nonché, a favore dell'idea che i diritti inviolabili siano la categoria coinvolta nell'interpretazione adeguatrice alla Costituzione delle sentenze del 2003: Ead, Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente, cit., 2272 ss.; Ead., La Corte costituzionale e il danno alla persona "in fieri", cit., 2201 ss.; Ead., I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 18 ss. In tal senso anche Busnelli, Chiaroscuri d'estate. La Corte di Cassazione e il danno alla persona, in Danno resp., 2003, 827.

Ritorna al link(22) Baldassarre, Diritti inviolabili, in Enc. giur. Trecc., XI, Roma, 1989, 29.

Ritorna al link(23) Così si è già espressa anche Cass. civ., 31 maggio 2003, n. 8828, cit., 2288.

Ritorna al link(24) Le Sezioni Unite superano l'idea che l'art. 2059 c.c. contenga una riserva di legge e vi ravvisano unicamente un rinvio alla legge che richiede o un espresso accoglimento del rinvio o un accoglimento implicito nella forza del precetto dell'inviolabilità.

Ritorna al link(25) La capacità evolutiva dei diritti inviolabili è guidata dall'esigenza di proteggere l'uomo rispetto a nuove forme di aggressioni, tenendo conto che ogni nuovo diritto crea una compressione sulle libertà e sugli interessi già consolidati. Pertanto, oltre alla carrellata di diritti inviolabili ricordati dalle Sezioni Unite, nuovi diritti possono sempre affermarsi purché solidamente fondati sul piano dei valori e con un contenuto non indeterminato né intriso di soggettività come quel "diritto ad essere felici", respinto dalle Sezioni Unite, la cui vaghezza minaccerebbe la coesistenza con gli altri diritti. Per la critica al diritto ad essere felici cfr. per tutti Gazzoni, Dall'economia del dolore all'economia dell'infelicità, in Rass. dir. civ., 2002, 861.

Ritorna al link(26) Il carattere concreto dell'accertamento dell'inviolabilità, affermato dalla dottrina costituzionale (cfr. per tuttiBin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992, 32), ha rilevanza anche nel diritto civile dove si lega al grado e alla serietà dell'offesa. Cfr. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, cit., 71 ss.; Ead., Il danno alla persona tra solidarietà e tolleranza, cit., 801 ss.; ed Ead., I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 29 ss.

Ritorna al link(27) V. supra note nn. 5-6.

Ritorna al link(28) von Gierke, Deutsches Privatrecht, Band I, Allgemeiner Teil und Personenrecht, Munchen-Leipzig, 1936, 706.

Ritorna al link(29) Così impeccabilmente G. Resta, Autonomia privata e diritti della personalità, Napoli, 2005, 102.

Ritorna al link(30) Nel saggio I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 29 osservavamo che "non si tratta [...] di accertare in positivo la gravità della lesione, ma di escludere in negativo pretese capricciose legate ad offese minime che urtano solo l'ipersensibilità individuale, non colpiscono il nucleo inviolabile dell'interesse e sono inidonee a superare il limite della tollerabilità".

Ritorna al link(31) Le citazioni fra virgolette sono tratte dalle pronunce della Suprema Corte.

Ritorna al link(32) Così invece Ziviz, Danno non patrimoniale: mossa obbligata per le Sezioni Unite, cit., 1029.

Ritorna al link(33) L'ingresso del principio di solidarietà nella responsabilità civile si deve a Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, passim.

Ritorna al link(34) Cfr. Navarretta, Il danno alla persona fra solidarietà e tolleranza, cit., 801 ss.; Ead., Art. 2059 c.c. e valori costituzionali: dal limite del reato alla soglia della tolleranza, cit., 872 ss.; Ead., I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 28 ss.

Ritorna al link(35) La tolleranza può avere in campo giuridico una pluralità di significati. Per un'ampia panoramica sulla sua rilevanza in campo civilistico, anche con profili diversi da quelli illustrati nel testo, è doveroso il richiamo a Patti, Profili della tolleranza in diritto privato, Napoli, 1978, 5 ss.

Ritorna al link(36) Henry, Mito e identità. Contesti di tolleranza, Pisa, 2000, 231

Ritorna al link(37) Lapoyade Deschamps, L'avenir de la responsabilité civile: quelle(s) reparation(s)?, in La responsabilité civile à l'aube du XXI siècle, in Resp. civ. assur., 2001, 65; Seriaux, L'avenir de la responsabilité civile: quel(s) fondement(s)?, ibidem, 59.

Ritorna al link(38) V. supra note nn. 30 e 34.

Ritorna al link(39) Cfr. in tal senso Costanza, Danno non patrimoniale e responsabilità contrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 128.

Ritorna al link(40) È il risultato cui giunge la corrente di pensiero che ritiene sufficiente il richiamo nell'art. 1223 c.c. alla nozione di perdita per ammettere in generale i danni non patrimoniali senza una selezione analoga a quella dell'art. 2059 c.c. La teoria risale a Bonilini, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, 213 ss.; cfr. in seguito Amato, Il danno non patrimoniale da contratto, in Ponzanelli (a cura di), Il nuovo danno non patrimoniale, Padova, 2004, 152; Costanza, op. cit., 127 ss.; C. Scognamiglio, Il danno non patrimoniale contrattuale, in Il contratto e le tutele, a cura di Mazzamuto, Torino, 2002, 467.

Ritorna al link(41) Nel saggio Navarretta-Poletti, I danni non patrimoniali nella responsabilità contrattuale, cit., 68, veniva osservato: "la risarcibilità dei danni non patrimoniali dipendenti [...] dalla lesione di interessi di rango inviolabile deve essere estesa anche all'area contrattuale per l'assenza di ragioni che implichino un trattamento differenziato tra i due versanti".

Ritorna al link(42) L'accordo può essere esplicito, ed eventualmente tradursi anche in una clausola penale, o può essere dedotto attraverso l'interpretazione secondo buona fede che porta alla luce "un taciuto" che è oggettivamente auto-evidente.

Ritorna al link(43) In tal senso, la Cassazione opportunamente rileva che nel caso del decesso seguito a breve dalla morte della vittima, la possibilità di offrire una congrua tutela al danneggiato morente non dipende dalla creazione di nuove voci di danno, come il danno tanatologico, o dalla sommatoria fra danno morale e danno esistenziale: basta, invece, stimare in maniera congrua il danno morale riferito al complesso degli stati emotivi coinvolti al massimo livello, là dove comprendono la "lucida [...] agonia in consapevole attesa della fine".

Ritorna al link(44) Ci sia consentito richiamare il nostro saggio Funzioni del risarcimento e quantificazione dei danni non patrimoniali, in questa Rivista, 2008, 500 ss.; nonché la Premessa metodologica alla Guida alla liquidazione dei danni non patrimoniali, in I danni non patrimoniali, cit., 175 ss.

Ritorna al link(45) La diversità di opinioni che vi è stata sul significato del danno esistenziale (cfr. Cendon, Voci del verbo fare, in questa Rivista, 2003, 1267 ss., in simpatica dissonanza rispetto a nostri precedenti scritti e come replica Navarretta, I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 42 ss.) dipende da due ragioni: la prima è che − a nostro parere − il danno che si proietta sull'esistenza della vittima non può limitarsi, come si è cercato di illustrare nel testo, al semplice non poter fare; la seconda è che la prova di un cambiamento in negativo dell'esistenza non può essere incentrata sulla mera dimostrazione per lo più per testimoni "di ciò che è mutato nell'agenda del danneggiato". Così facendo si rischia di concedere un più alto risarcimento al diffamato pieno di impegni rispetto a chi subisca un lutto e continui a condurre la precedente grigia esistenza. In definitiva, se non si vuol regredire al vecchio danno alla vita di relazione, la bussola della prova del danno deve restare il tipo di offesa e di interesse leso, mentre la dimostrazione delle diverse abitudini di vita può servire unicamente ad aiutare la fase di personalizzazione del risarcimento.

Ritorna al link(46) Cfr. in senso analogo il nostro I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 54 s.

Ritorna al link(47) Non è un caso che il padre del danno biologico abbia sempre lavorato con un grande medico legale: il riferimento è chiaramente a Busnelli-Bargagna, La valutazione del danno alla salute, IV ed., Padova, 2001, passim.

Ritorna al link(48) Messinetti, Recenti orientamenti sulla tutela della persona. La moltiplicazione dei diritti e dei danni, in Riv. crit. dir. priv., 1992, 173 ss.; e da ultimo Gazzoni, L'art. 2059 c.c. e la Corte costituzionale, cit., 1307.

Ritorna al link(49) Niemeyer, Awards for pain and suffering: the irrational centerpiece of our tort system, 90 Va. L. Rev., 1401, 2004, 1.



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vedi giurisprudenza
Nota a :
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
Cassazione civile , 11/11/2008, n. 26972
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IL PREGIUDIZIO ESISTENZIALE COME VOCE DEL DANNO NON PATRIMONIALE

Resp. civ. e prev. 2009, 1, 0056X1133140

Pier Giuseppe Monateri
Ordinario di diritto civile nell'Università di Torino

Sommario: 1. Il nucleo della posizione assunta delle Sezioni Unite. − 2. La risarcibilità dei pregiudizi esistenziali. − 3. La definizione del pregiudizio esistenziale. − 4. La prova e la qualificazione dei pregiudizi esistenziali. − 5. Categorie e descrizioni. − 6. Pain and suffering e violazione dei diritti inviolabili. − 7. Le incerte nozioni attuali di "biologico" e di "morale".

1. IL NUCLEO DELLA POSIZIONE ASSUNTA DELLE SEZIONI UNITE
La sentenza in epigrafe esprime chiaramente e con nettezza il principio giuridico secondo cui i pregiudizi esistenziali sono risarcibili quando derivino, anche al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, dalla violazione di un diritto costituzionalmente garantito della persona.
Tali pregiudizi non formano una categoria giuridica a sé stante, ma costituiscono una categoria descrittiva, e come tali sono espressamente nominati e presi in considerazione dalle Sezioni, quale sottovoce della categoria codicistica dei danni non patrimoniali, ormai risarcibili al di fuori dei casi di reato.
Inoltre, nel prosieguo della sentenza, si ribadisce che per la prova di tali pregiudizi trova ampio spazio il ricorso alle presunzioni, atteso che il codice di rito non stabilisce una gerarchia tra le fonti di prova e non discrimina la prova presuntiva a scapito delle altre.
In tal modo la Cassazione che timidamente aveva accennato a tali pregiudizi con le sentenze gemelle del 2003 si adegua, infine, alla sentenza della Corte costituzionale dello stesso anno che aveva appunto salvato l'art. 2059 dall'incostituzionalità ricordando che esso ricomprende i pregiudizi esistenziali.
Questo precedente è ovviamente importante atteso che esso si situa a livello di Sezioni Unite ed in un caso paradigmatico di responsabilità extra-contrattuale. Infatti la posizione delle Sezioni Unite non si discosta da quanto già in precedenza stabilito in un caso di demansionamento e quindi in un caso di responsabilità contrattuale.
Naturalmente pochi avevano pensato che se il danno esistenziale è risarcibile ex contractu esso non lo fosse anche ex delicto, nondimeno tale opinione era pure stata avanzata, ed oggi evidentemente smentita dalle Sezioni.
Questo, quindi, il contenuto della decisione che qui si commenta. Poco altro di operazionalmente rilevante vi è da aggiungere. Merita tuttavia la pena soffermarsi a commentare la motivazione stessa, visto che essa costituisce un vero e proprio saggio piuttosto lungo e corposo.
2. LA RISARCIBILITÀ DEI PREGIUDIZI ESISTENZIALI
Il quadro operazionale delle decisioni delle Sezioni Unite, come dicevamo, si può agevolmente ritrovare, ad esempio, a p. 31 della 26975 (1) laddove appunto l'estensore ribadisce che "In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibli purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona".
Tale ipotesi si realizza "ad esempio" nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto, cosiddetto danno da perdita del rapporto parentale, poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia: artt. 2, 29 e 30 Cost.
In questo caso vengono, infatti, in considerazione pregiudizi che attengono all'esistenza della persona e che, "per comodità di sintesi, possono essere descritti e definiti come esistenziali".
Il punto è di tutta rilevanza. Ci si ricorderà, invero, come la querelle sul danno esistenziale sia iniziata proprio a seguito della decisione n. 372/1994 della Corte costituzionale la quale pareva negare la risarcibilità del danno da lutto qualora questo non si configurasse come un vero e proprio danno biologico nosograficamente accertabile. È perciò evidente che tale frase dell'estensore ricopra un'importanza decisiva in ordine all'apprezzamento dell'operato delle Sezioni Unite: l'esempio tratto dalle Sezioni per definire l'ipotesi paradigmatica dei danni esistenziali risarcibili è proprio quello che era apparso nel caso esaminato dalla Corte costituzionale.
Peraltro che tali pregiudizi esistenziali fossero comunque risarcibili la Corte stessa aveva già provveduto a chiarire nella sua sentenza del 2003.
I dubbi interpretativi che si erano aperti con la 372 del '94 sono quindi oggi chiusi.
Da ciò deriva quindi quanto dedotto dalle stesse Sezioni Unite e cioè che altri pregiudizi di tipo esistenziale, non rientranti nell'ambito del danno biologico, saranno risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica: "il pregiudizio di tipo esistenziale è quindi risarcibile entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno" (p. 32 decisione in epigrafe). Soluzione che ci eravamo permessi di indicare già una decina d'anni or sono (2).
Occorre, quindi, essere grati alle Sezioni Unite per aver fatto chiarezza su questo importante punto della materia che non pare oggi più contestabile.
3. LA DEFINIZIONE DEL PREGIUDIZIO ESISTENZIALE
La definizione di pregiudizio esistenziale accolta dalle Sezioni Unite è quella di danno provocato al fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno (pp. 35-6).
Tale definizione, che punta sulla natura oggettiva del danno esistenziale, a differenza dei pregiudizi di natura meramente emotiva e interiore, è anch'essa della massima rilevanza poiché recepisce quella che era stata appunto l'impostazione donata al problema in un celebre, ormai risalente, saggio (3).
È ben vero che le Sezioni Unite ritengono che tale definizione non dia luogo ad una autonoma categoria di danno, problema su cui torneremo, così come peraltro ritengono che anche la nozione di danno biologico e di danno morale risponda a mere esigenze descrittive e non implichi il riconoscimento di distinte categorie di danno (p. 51) − punto molto importante −, ma ciò non toglie che essa sia data e recepita affinché possano venire inquadrati, per comodità di sintesi, quei danni che attengono alla dignità della persona e che sono risarcibili in virtù degli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost.
Peraltro tale definizione è quella che già era stata accolta in ambito contrattuale da numerose pronunce del Supremo Collegio (nn. 4260/2007; 5221/2007; 11278/2007; 26561/2007). Ci troviamo così di fronte ad una nozione ormai salda del pregiudizio esistenziale, cosa che, come vedremo non può tanto più dirsi né della nozione di danno biologico, né di quella di danno morale.
4. LA PROVA E LA QUALIFICAZIONE DEI PREGIUDIZI ESISTENZIALI
Con limpida e estrema conseguenza le Sezioni Unite stabiliscono che, per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico si richiede l'accertamento medico-legale (p. 55).
Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà, invece, farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva (p. 56).
Infatti, attenendo il pregiudizio (non biologico) (4) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (5).
In ciò le Sezioni nulla spostano rispetto a quanto già fu detto in precedenti giudicati, ma è ovviamente importante che lo confermino. I pregiudizi esistenziali rientrano quindi in quelle categorie di general damages che normalmente conseguono alla lesione, e che perciò si posson presumere, salvo la prova contraria.
Si badi: essi devono venir richiesti ed allegati, ma che nello sconvolgimento della vita famigliare vi sia un peggioramento oggettivo dell'esistenza dei soggetti coinvolti è nozione dell'id quod plerumque. Perciò se non vengono allegati non potranno venir concessi; non sono danni in re ipsa, né, sia mai, danni-evento, come fu adombrato (invero per il biologico!) nella 184/1986. Son danni conseguenza, ma sono danni che, allegati, possono venir provati per presunzione, anzi anche solo per presunzione, salva cioè la prova contraria, o salvo, ecco il punto, una prova di una loro maggior consistenza che nel normale. L'attore potrà quindi avvalersi dell'id quod plerumque salvo a dimostrare che nella specie vi furono danni maggiori e più consistenti.
Quanto al titolo giuridico di tali risarcimenti esso, come prima dell'intervento delle Sezioni, rimane nel 2059 c.c., onde non vi sarà alcuna mutatio libelli nel qualificarli come danni o come pregiudizi. Invero l'attore ha solo l'onere d'indicare succintamente i fatti e semmai gli articoli di legge, né, invero, il giudice è vincolato alla qualificazione giuridica scelta dall'attore. Anche se l'attore qualifica un atto come appalto il giudice può ben riqualificarlo come vendita. E d'altronde simili problemi furono già risolti de plano quando si passò dalla richiesta del risarcimento del danno biologico ex art. 2043 a quella fondata sul 2059. Quindi foss'anche la domanda originaria svolta dall'attore in termini di categoria di danno esistenziale non costituirà problema veruno per il giudice, né mutatio libelli, la sua riqualificazione in termini di pregiudizio esistenziale sotto voce del danno non patrimoniale.
5. CATEGORIE E DESCRIZIONI
Quanto prima detto costituisce la vera e propria analisi giuridica della posizione assunta dalle Sezioni Unite.
Se, ora, volgendosi a fare un'analisi letteraria delle motivazioni, non si sapesse che il documento è unitariamente riferibile ad un unico autore, si sarebbe tentati di vedervi l'apporto di più mani, diverse per stile, ed anche per concezioni, idiosincrasie e pensieri reconditi.
La prima parte della decisione è coesa ed asciutta, delinea i problemi e traccia la soluzione che già dicemmo. Vi è poi una seconda parte più accorata, un medaglione, di invettive contro i danni bagatellari: il tacco della sposa che si rompe e quant'altro, tutti, o in gran parte, peraltro, danni contrattuali. Una terza parte poi si avventura in una disamina della liquidazione del danno biologico e dei suoi rapporti col morale che solleva problemi.
La prima parte recepisce in sostanza quanto la dottrina era venuta elaborando, e la sua principale preoccupazione non è più il nominare come tali i pregiudizi esistenziali, che sono, quindi, infine, compiutamente nominati, e dei quali si dice espressamente che possono venire chiamati come tali, ma è dominata dall'istanza di non farne una categoria giuridica ma semplicemente descrittiva.
Qui bisogna un poco intendersi. Aveva ragione, già nel 1983 Bonilini col dire che la categoria che il Codice conosce è solo quella del "non patrimoniale", e lo diceva a proposito del morale. Ora se le categorie giuridiche sono quelle codicistiche è evidente che l'unica categoria codicistica è quella espressa dal 2059. Col che evidentemente non solo il danno esistenziale, ma eziandio quello morale non è categoria giuridica ma solo descrittiva. Eppure la categoria danno morale ha una lunga storia: viene da lontano, e, credo, andrà ancora lontano. E, per di più, ci si chiede allora che ne sia delle altre categorie che nel codice non trovano riscontro, ad esempio quella di negozio giuridico. Il negozio è una categoria descrittiva?
Qui mi sembra che l'estensore obliteri un nomen che sarà pur fuor di moda, ma è assai utile nel diritto, e cioè quello della categoria dogmatica.
Siccome per dogma bisogna intendere una definizione che identifica un certo complesso di elementi della fattispecie, ovvero un certo complesso di effetti della fattispecie, od anche un complesso di rapporti giuridici, ovviamente i dogmi sono descrittivi. Il negozio, ad esempio, come categoria dogmatica, descrive e identifica la dichiarazione di volontà come elemento di diverse fattispecie (la promessa, l'offerta in pura perdita, la dichiarazione di rinuncia alla prescrizione, la dichiarazione di attuazione dello jus penitendi, e così via). Come ognun sa le categorie dogmatiche non devono coincidere con quelle delle fonti, atteso che vengono inventate apposta per meglio comprenderle, e maggiormente svilupparle. La dichiarazione di volontà qua tale non esisteva nelle fonti di Niehbur.
Siccome anche le categorie delle fonti, in quanto si riferiscano a fattispecie, vicende e rapporti, son categorie che descrivono certi elementi, per applicar loro il comando della norma come imperativo ipotetico, l'alternativa non è, come sembrano presupporre le Sezioni, in un mondo che pare aver smarrito la teoria generale, tra categorie giuridiche e categorie descrittive, siccome le prime hanno pure la funzione delle seconde, e le seconde sono anche le prime, ma fra categorie dogmatiche e categorie legislative. E non tanto perché vi sia una differenza essenziale tra le prime e le seconde (tra negozio bilaterale e contratto), ma perché questo è l'uso invalso onde mantener un certo quale rigore filologico nel giure, sapendo donde vengono le une e donde le altre.
Perciò col dire descrittivo non si dice alcunché di sminuente, giacché in realtà si dice dogmatico.
Se non che si svela che questa parte della sentenza è tutta un obiter, siccome è compito delle Sezioni assicurar l'uniforme interpretazione e non, come ognuno sa, discettar di dogmatica.
6. PAIN AND SUFFERING E VIOLAZIONE DEI DIRITTI INVIOLABILI
Lungo e accorato il medaglione sui danni bagatellari. Intendiamo le Sezioni hanno ragione da vendere. Ma esse stesse dimenticano le posizioni che la Suprema Corte assume rispetto alle liquidazioni effettuate dai giudici di pace.
Proprio in un caso recente di malaugurato danno da shock televisivo è stata la Cassazione a dire che siccome il giudice di pace giudica secondo equità essa non può rivederne le conclusioni.
Se si lascia mano libera ai giudici di pace codesto medaglione fa la figura d'una grida manzoniana.
Ma ciò che è più interessante è quanto segue.
Siamo per ammissione delle stesse Sezioni di fronte a ipotesi di violazione di diritti inviolabili. Quindi, ad esempio, per riprendere il caso fatto dalle stesse Sezioni dello sconvolgimento della vita famigliare di fronte a violazioni dell'art. 8, comma 1, l. n. 848/1955 di ratifica della Convenzione europea per la salvaguardia dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Orbene in un caso analogo di violazione dell'art. 8, ritardo dei servizi sociali nell'assegnazione di una casa adeguata ad un disabile, affrontato dall'arcigna Queen's Bench Division della High Court(6), Mr. Justice Sullivan ha affermato con riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e con riferimento al Report dell'ancor più arcigno Lord Woolf, Master of the Rolls, che in questi casi (n. 44) le categorie di danno (categories of loss) che devono venir risarcite includono: "distress, frustration, inconvenience, humiliation and anxiety".
È, allora, bello notare quanto hanno affermato i giudici delle nostre Sezioni, nel cui sito internet figura alla home page un link diretto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, quanto segue:
"Palesemente non meritevoli della tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione ...".
Wonderful!
Nel diritto comparato è raro che si possano trovare due proposizioni identiche ma di segno assolutamente contrario come queste.
Il giudice inglese, e il Master of the Rolls (!), ritengono palese che in tali casi si debbano risarcire quei danni che i giudici italiani ritengono palesemente non meritevoli della tutela risarcitoria (!)
Il lettore capirà agevolmente che potrei dilungarmi ad libitum sul punto. E far sfoggio d'ironia, se ne fossi per avventura capace.
Mi limiterò invece a suggerire agli incaricati che curano il sito della Cassazione di cancellare il link da loro inserito alla giurisprudenza di Strasburgo.
7. LE INCERTE NOZIONI ATTUALI DI "BIOLOGICO" E DI "MORALE"
Quanto dicevamo è però importante anche per quel che concerne le nozioni di pregiudizio biologico e di pregiudizio (non più danno!) morale. Infatti a me sembra che oggi esca più salda la nozione di pregiudizio esistenziale prima ricordata e recepita dalle Sezioni Unite.
Infatti la nozione di "biologico" in quanto danno alla salute è oggi messa seriamente in crisi nella sua concretezza giuridica dal recepimento della nozione di salute, data dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, all'art. 2, d.lgs. n. 81/2008, secondo cui la salute equivale allo "stato di completo benessere, fisico, mentale, e sociale, non consistente solo in una assenza di malattia o infermità".
Uno stato che non viene raggiunto neanche dai monaci Zen, e forse solo dagli dei greci.
Ovviamente sono definizioni come questa che cagionano problemi, non il pursuit of the Happiness. Ed è per opera di uno sventato legislatore, non degli interpreti, che ciò avviene.
Che l'OMS voglia aumentare a dismisura le proprie competenze, e lo faccia ovviamente ampliando la nozione di salute, è cosa che si capisce e che rientra nel modo in cui tali organismi internazionali sono fatti e agiscono. Ma ciò ovviamente ha delle ricadute.
Allo stesso modo muta la nozione di danno morale: quando Scognamiglio ne scriveva la sensibilità sociale riportava ancora tale nozione all'ambito non della sofferenza fisica o psichica, ma a quello della sofferenza appunto morale, cioè al soffrire non dell'individuo, ma della persona. Cioè non alla sofferenza che l'individuo patisce per la ferita, ma a quella che la persona subisce per la sua degradazione.
È allora chiaro che, se biologico ha a che fare con l'accertamento nosografico e morale ha a che fare coi valori della persona, i due concetti non si sovrappongono e corrono vicende parallele che non si intersecano.
Viceversa se come fa il legislatore il biologico si estende al benessere sociale e il morale si interpreta, come fanno le Sezioni, in termini di sofferenza soggettiva derivante dalle menomazioni subite (dolore) (p. 52), allora morale e biologico sono destinati a incrociarsi e sovrapporsi.
Ma ciò a me pare un errore che deriva dal venir meno dei valori della persona in quanto tali, e dalla perdita di significato della dimensione morale dell'esistenza personale.
Qualcosa che non può essere né approvato, né assecondato, in quanto non corrisponde affatto al nostro impianto costituzionale che del personalismo è, invece, impregnato.
Insomma il problema qui si pone e in termini assai ardui, e ci costringerà nel futuro a cercare di riportare ordine in tali nozioni.
Di fronte a ciò la nozione di peggioramento oggettivo delle condizioni di esistenza proprie della categoria descrittiva dei pregiudizi esistenziali, qui recepita dalle Sezioni Unite, pare, al contrario, assai più salda.

Ritorna al link(*) In particolare, oggetto del commento è la sentenza della Cass. civ., 11 novembre 2009, n. 26975, il cui testo è disponibile in www.giuffre.it/riviste/resp (ndr).

Ritorna al link(1) I numeri delle pagine della sentenza si riferiscono all'originale cartaceo della Cassazione (ndr).

Ritorna al link(2) P.G. Monateri, La responsabilità civile, Torino, 1998, 303.

Ritorna al link(3) P. Ziviz, Alla scoperta del danno esistenziale, in Contratto impr., 1994, 84.

Ritorna al link(4) Vorrei sottolineare l'uso della locuzione pregiudizio fatta dalle Sezioni Unite. Essa riguarda tutte le sottovoci del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059: quindi il "danno" biologico non solo non è più una species del danno ingiusto ex art. 2043, ma non è neanche più il "danno biologico", l'è (lo dico alla toscana) l'è, alla pari dell'esistenziale, un pregiudizio. Mi piacerebbe che qualcuno dei miei 25 lettori cogliesse l'ironia, o la maladresse (?), di codesto passaggio delle Sezioni.

Ritorna al link(5) Posizione recepita a partire da Cass. civ. n. 9834/2002.

Ritorna al link(6) R.. Bernard vs London Borough of Enfield, 25 October 2002, EWHC 2282.