Sez. L,
Sentenza
n. 10235
del 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe - Presidente -
Dott. VIDIRI Guido - Consigliere -
Dott. PICONE Pasquale - Consigliere -
Dott. STILE Paolo - rel. Consigliere -
Dott. BALLETTI Bruno - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 7642/2006 proposto da:
RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
FARAVELLI 22, presso lo studio dell'avvocato DE LUCA TAMAJO RAFFAELE,
che la rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
LARIA AGOSTINO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VINCENZO
PICARDI 4/B, presso lo studio dell'avvocato GIROLAMI PAOLO,
rappresentato e difeso dall'avvocato CAPPUCCIO ANNA MARIA giusta
delega a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 253/2005 della CORTE D'APPELLO di CATANZARO,
depositata il 02/03/2005 R.G.N. 33/04:
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
24/02/2009 dal Consigliere Dott. STILE PAOLO;
udito l'Avvocato GIROLAMO PAOLO per delega CAPPUCCIO ANNA MARIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
MATERA Marcello, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso in data 12 gennaio 2004, Rete Ferroviaria S.p.A.
proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Vibo Valertia,
Giudice del lavoro, pronunciata in data 10 giugno 2003, con la quale
era stata condannata al pagamento in favore di LARIA Agostino, a
titolo di risarcimento danni per licenziamento illegittimo, della
complessiva somma di Euro 46.270,66, oltre accessori di legge dal
deposito della sentenza al soddisfo, quale differenza tra le somme
percepite a titolo di pensione e quelle che avrebbe percepito in
costanza di rapporto di lavoro fino al 65' anno di età.
Le censure rivolte dalla società ferroviaria alla sentenza di primo
grado involgevano: a) l'eccezione di decadenza dall'impugnazione del
licenziamento, siccome mai effettuata e maturata alla data di
proposizione del giudizio di primo grado, erroneamente superata dal
Tribunale; b) l'impossibilità di convertire il giudizio di
impugnativa del licenziamento in azione ordinaria di risarcimento del
danno per inadempimento contrattuale ai sensi dei vigenti principi
civilistici.
Rilevava la società, a tale riguardo, che la disciplina
dell'illegittimità del licenziamento e delle relative sanzioni,
seppure collocabile nel quadro generale dell'invalidità dei negozi
giuridici riconducibile al codice civile, rappresentava una lex
specialis tendente, come tutte le normative speciali, ad assorbire ed
implicitamente ad escludere quella di diritto comune, con la
conseguenza che il licenziamento illegittimo, attraendo ogni
fattispecie di invalidità o d'inefficacia del recesso e,
correlativamente, ogni vizio di quest'ultimo negozio in quanto causa
di annullabilità, poteva essere fatto valere dal lavoratore nelle
forme e nei termini specificamente previsti dalla legge; c)
l'impossibilità di convertire il giudizio di impugnativa del
licenziamento in azione ordinaria di risarcimento del danno per
illecito extracontrattuale ai sensi dei vigenti principi civilistici.
L'appellante evidenziava, poi, sul punto, la carenza dei presupposti,
in specie del dolo o colpa, per un'affermazione di responsabilità
per illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., giacché il licenziamento
dell'appellato era avvenuto nell'ambito di una procedura di mobilità
concordata con le organizzazioni sindacali ed in applicazione di una
disciplina legislativa che solo gli orientamenti più recenti della
giurisprudenza di legittimità avevano censurato sotto il profilo
della natura non derogatoria e speciale rispetto alla generale
disciplina dettata dalla L. n. 223 del 1991.
Concludeva, pertanto, per l'accoglimento dell'appello e l'integrale
riforma della sentenza del Tribunale di Vibo Valentia.
Costituitosi, il Laria invocava il rigetto dell'impugnazione,
siccome infondato, e la conferma della sentenza gravata.
Con sentenza del 16 dicembre 2004 - 2 marzo 2005, l'adita Corte
d'appello di Catanzaro rigettava il gravame, osservando che - come da
orientamento di questa Corte (Cass. 2 marzo 1999 n. 1757) - la
mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non
comportava la liceità del recesso del datore di lavoro bensì
precludeva al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione
nel posto di lavoro e il risarcimento ai sensi della L. n. 300 del
1970, art. 18; sicché, nell'ipotesi di licenziamento illegittimo,
qualora si fosse verificata la decadenza dall'impugnazione era
concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in
base ai principi generali propri di questa azione, sempre che ne
ricorressero (e fossero dal lavoratore allegati) i relativi
presupposti. Nella specie, il Laria non aveva invocato
l'applicazione, in suo favore, dell'art. 18 Stat. Lav., ma, al
contrario aveva formulato unicamente azione risarcitoria per la
ritenuta illegittimità del comportamento della società datrice,
ravvisata nel mancato rispetto dei criteri dettati dalla L. n. 223
del 1991 per l'individuazione dei lavoratori da collocare in
mobilità, sicché era pienamente esperibile l'azione in parola.
Tale azione era anche fondata in quanto la società aveva risolto
anticipatamente il rapporto di lavoro, erroneamente interpretando la
L. n. 449 del 1997, senza collegarla a quella n. 223/1991.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre la Rete Ferroviaria
Italiana S.p.A. con due motivi.
Resiste Agostino Laria con controricorso, ulteriormente illustrato
da memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la Rete Ferroviaria S.p.A.,
denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966,
artt. 6 e 8, L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, L. n. 300 del 1970,
art. 18, artt. 2697 e 2909 c.c., art. 414 c.p.c., sostiene che la
Corte di Catanzaro, pur muovendo da una corretta premessa e cioè,
che il Laria non aveva effettuato tempestivamente l'impugnativa del
licenziamento in oggetto, era pervenuta all'erronea conclusione che
la riscontrata decadenza non precludeva l'esperimento della normale
azione risarcitoria di diritto comune, quando il lavoratore faccia
valere pregiudizi diversi ed ulteriori rispetto a quelli contemplati
nell'art. 18 St. Lav. oppure nella L. n. 604 del 1966, art. 8;
nell'affermare ciò, peraltro, la Corte non terrebbe neppure conto
del fatto che, nella fattispecie in esame, il risarcimento del danno
richiesto dal Laria in nulla differirebbe dalla tipica tutela
risarcitoria apprestata dalla legislazione vincolistica sui
licenziamenti.
A parere della ricorrente la tesi sostenuta dal Giudice del merito
non sarebbe condivisibile, trascurando di considerare che, nel nostro
ordinamento, il contratto di lavoro, in tutte le sue vicende - e
segnatamente per quelle che riguardano la sua risoluzione - presenta
marcati profili di autonomia e specialità rispetto alle regole che
valgono per i comuni contratti a prestazioni corrispettive e di
durata. Ed infatti il potere di recesso del datore di lavoro, che si
concretizza nell'intimazione del licenziamento (sia individuale che
collettivo), è limitato da norme speciali che si preoccupano pure di
"tipizzare" il regime sanzionatorio per l'ipotesi che l'esercizio di
quel potere sia abnorme. Sicché, al di fuori di tale quadro
normativo e delle tutele tipizzate dal legislatore, non v'è spazio
per azioni risarcitorie da licenziamento illegittimo.
Pertanto, ad opinare diversamente, si finirebbe col vanificare le
regole "speciali" che disciplinano l'intimazione del licenziamento,
la sua impugnativa e le sanzioni che conseguono all'accertamento
della illegittimità di esso. D'altra parte, anche a voler ritenere
astrattamente configurabile un'azione risarcitoria basata
sull'illegittimità del recesso, non v'è dubbio che essa - dovendo,
sia pure in via incidentale, prendere le mosse dalla valutazione del
(corretto) esercizio da parte del datore di lavoro del potere di
licenziare - resterebbe sempre preclusa e neutralizzata tutte le
volte in cui il licenziamento non sia stato tempestivamente
impugnato.
Il motivo va accolto nei termini e per le ragioni che di seguito si
espongono.
Al riguardo, giova rammentare che, secondo un primo orientamento -
che costituisce, in diritto, il presupposto della domanda del Laria
(v. in particolare Cass. n. 1757 del 1999), "la mancata impugnazione
del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del
recesso del datore di lavoro bensì preclude al lavoratore soltanto
la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il
risarcimento ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18. Ne consegue
che, nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia
verificata la decadenza dall'impugnazione è concesso al lavoratore
di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi
generali che governano questa azione, sempre che ne ricorrano (e
siano dal lavoratore allegati) i relativi presupposti. Nello stesso
quadro, è stato anche affermato che, costituendo l'inadempimento il
fatto costitutivo generatore della pretesa fatta valere, il regime di
tutela si risolve, fermo il fatto costitutivo, in una questione di
scelta della norma giuridica da applicare (la L. n. 300 del 1970,
art. 18, ovvero le norme codicistiche) che come tale è passibile di
mutamento ad opera delle stesse parti o anche del giudice - senza che
ciò comporti modifica della "causa petendi" (v. Cass. 23.12.2000 n.
16163).
Altro orientamento (v., in particolare, Cass. n. 18216 del 2006),
richiamato dalla ricorrente, muove dalla considerazione che il
vigente ordinamento prevede per la risoluzione del rapporto di lavoro
una disciplina speciale, del tutto diversa da quella ordinaria,
all'interno della quale, e nelle relative aree, il legislatore ha
previsto un termine breve di decadenza (sessanta giorni) per
l'impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore (L. n. 604
del 1966, art. 6, v. anche L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3) a
garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal
recesso datoriale, ritenendo tale certezza valore preminente rispetto
a quello della legittimità del licenziamento.
Da tale presupposto viene tratta la conseguenza che al lavoratore,
che non abbia impugnato nel termine di decadenza suddetto il
licenziamento, è precluso il diritto di far accertare in sede
giudiziale la illegittimità del recesso e di conseguire il
risarcimento del danno, nella misura prevista dalle leggi speciali
(L. n. 604 del 1966, art. 8 e L. n. 300 del 1970, art. 18); inoltre,
se tale onere non viene assolto, il giudice non può conoscere della
illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare, di per sè,
al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune. La decadenza,
infatti, impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del
danno secondo le norme codicistiche ordinarie, nella misura in cui
non consente di far accertare in sede giudiziale la illegittimità
del licenziamento. In particolare, sul piano della responsabilità
contrattuale, poiché l'inadempimento (nella specie, il dedotto
recesso illegittimo) costituisce presupposto del risarcimento dovuto
dal contraente inadempiente a norma dell'art. 1218 c.c., la
impossibilità di tale accertamento esclude la possibilità di
riconnettere al preteso inadempimento del datore di lavoro
l'obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore, ed a tal fine
è irrilevante che si tratti di licenziamento individuale o
collettivo, perché ciò che viene in rilievo è sempre la posizione
soggettiva particolare del lavoratore che invoca la tutela
risarcitoria.
Questa stessa giurisprudenza, tuttavia, tiene a temperare il proprio
assunto, affermando - come pure ha precisato Cass. 18216/2006 cit.-
che, nell'area dei licenziamenti disciplinati dalla normativa
speciale, in caso di decadenza, l'azione risarcitoria di diritto
comune può essere esercitata, in via residuale, per far valere
profili di illegittimità del licenziamento che siano diversi da
quelli previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti
(individuali o collettivi), come nei casi del licenziamento
ingiurioso o del licenziamento pubblicizzato con la finalità di
nuocere alla figura professionale del lavoratore o, ancora, del
licenziamento quale atto finale di un mobbing (per questi esempi, v.
Cass. 12 ottobre 2006 n. 21833).
Tale orientamento appare condivisibile perché valorizza
correttamente l'intento del legislatore di attribuire valore
preminente alla certezza della situazione di fatto scaturita dalla
decadenza, Pertanto, se il giudice, a seguito di questa, non può
conoscere della eventuale illegittimità del licenziamento, appare
evidente che neppure può conoscere tale illegittimità al fine di
integrare, di per sè, la illiceità del comportamento del datore di
lavoro. In altre parole il fatto ingiusto posto alla base della
pretesa risarcitoria extracontrattuale non può consistere nella
semplice illegittimità del licenziamento, non più conoscibile, ma
deve integrare un comportamento illecito ulteriore del datore di
lavoro ex art. 2043 c.c., che deve essere allegato e provato dal
lavoratore richiedente in base ai principi generali.
In tali sensi va riaffermato il principio dettato da Cass. n.
18216/2006 cit., precisandosi che la decadenza dall'impugnativa del
licenziamento preclude l'accertamento giudiziale dell'illegittimità
del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune, venendo a
mancare il necessario presupposto, sia sul piano contrattuale (in
quanto l'inadempimento del datore di lavoro consista nel recesso
illegittimo in base alla disciplina speciale), sia sul piano
extracontrattuale (ove il comportamento illecito dello stesso datore
consista, in sostanza, proprio e soltanto nella illegittimità del
recesso).
Ciò posto - come risulta dalla stessa impugnata sentenza - il
Laria, pur non invocando l'applicazione, in suo favore dell'art. 18
stat. Lav., ha formulato, al contrario, unicamente azione
risarcitoria per ritenuta illegittimità del comportamento della
società datrice, ravvisata nel mancato rispetto dei criteri
dettati dalla L. n. 223 del 1993 per la individuazione dei lavoratori
da collocare in mobilità, senza tuttavia l'indicazione e
l'allegazione del fatto ingiusto che si sia accompagnato al
licenziamento.
L'esaminato motivo va, dunque, accolto rimanendo assorbito il
secondo.
Risultando, quindi, la domanda fondata soltanto sulla dedotta
illegittimità del licenziamento, basata sul mancato rispetto della
L. n. 223 del 1991, il ricorso in esame, alla luce del suddetto
orientamento, deve ritenersi fondato (v., in termini, Cass. 9 marzo
2007 n. 5545).
Trattandosi di violazione di un principio di diritto la controversia
va decisa nel merito con rigetto della domanda proposta con il
ricorso inroduttivo.
Infine, soprattutto per la riconsiderazione, alquanto recente, nella
giurisprudenza di questa Corte, della questione preliminare
concernente gli effetti della decadenza dall'impugnazione del
licenziamento, ricorrono giusti motivi per compensare le spese tra le
parti.
P.Q.M.
La Corte:
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel
merito, rigetta la domanda proposta con il ricorso introdduttivo e
compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 24 marzo 2009.
Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2009