Corte Suprema di Cassazione
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Sez. 6, Sentenza n. 20514 del 2010

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. LATTANZI Giorgio - Presidente - del 28/04/2010
Dott. IPPOLITO Francesco - rel. Consigliere - SENTENZA
Dott. LANZA Luigi - Consigliere - N. 902
Dott. COLLA Giorgio - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. FAZIO Anna Maria - Consigliere - N. 22969/2009
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Arman Ahemed El Hissini Helmy, n. a Quena (Egitto) il 14.1.1961;
Maaouy Lotti Ben Sadok, n. a Tunisi (Tunisia) il 28.2.1966;
Ben Yahia Mouldi Ben Rachid, n. a Tunisi (Tunisia) in data 11.4.1971;
Hekiri Hichem Nem Mohamed, n. a Tunisi (Tunisia) il 18.3.1969;
Kneni Kamel, n. a Aroussa (Tunisia) il 7.5.1969;
Sahraoui Nessun Ben Romdhane, n. a Bizerta (Tunisia) il 3.8.1973;
avverso la sentenza della Corte d'assise d'appello di Milano, emessa il 10.11.2008;
- letti i ricorsi e il provvedimento impugnato;
- udita in pubblica udienza la relazione del cons. Dott. IPPOLITO Francesco;
- udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale, Dott. MARTUSCIELLO Vittorio, che ha concluso per la declaratoria d'inammissibilità del ricorso di Maaouy Lofti; il rigetto dei ricorsi di Arman, Ben Yahia e Sahraoui; l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei confronti di Hekiri, nonché nei confronti di Kneni limitatamente alla misura dell'espulsione, con rimessione al giudice di rinvio dell'applicazione di altra misura di scurezza;
- uditi i difensori (avv. C. Scambia per Arman, avv. C. Corbucci, anche in sostituzione dell'avv. Clementi, per Maaouy Lofti e Kneni, avv. G. De Carlo per Ben Yahia e Hekiri) che hanno concluso con richiesta d'accoglimento dei rispettivi ricorsi. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d'assise d'appello di Milano, il 10.11.2008 ha confermato - salva una riduzione di pena per Kneni Kamel - la sentenza con cui, in data 20 dicembre 2007, la Corte d'assise aveva condannato tutti gli imputati in epigrafe indicati per i reati loro contestati. 2. Arman Ahmed e Maaoui Lofti Ben Sadok sono stati condannati per il reato di cui all'art. 416 c.p. (capo 1 dell'imputazione), con l'aggravante della finalità di terrorismo di cui alla L. n. 15 del 1980, art. 1, fatto commesso dal 1997 fino al giugno 2001, per essersi associati tra loro e con altre persone, separatamente giudicate, allo scopo di commettere, per finalità di terrorismo più delitti d'immigrazione clandestina, ricettazione, contraffazione di documenti d'identità, violenza personale, acquisto e spendita di banconote false, promuovendo, costituendo, organizzando e partecipando, il primo come promotore e organizzatore, il secondo come partecipe, un'associazione criminosa costituente articolazione nazionale anche del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) e operante in collegamento con una rete di gruppi affini attivi in altri paesi Europei (Spagna, Francia, Belgio, Germania e Inghilterra) ed extraEuropei (Algeria, Tunisia, Afghanistan e Pakistan).
3. Ben Yahia, Hekiri, Kneni e Sahraoui sono stati dichiarati colpevoli del reato di cui all'art. 270-bis c.p. (capo 11) e d'altri delitti, commessi dall'inizio del 1999 (ricettazione, agevolazione d'ingresso illegale nel territorio dello Stato, traffico di stupefacenti, acquisto e spendita di banconote false), in seguito meglio specificati, per essersi associati tra loro e con altri (separatamente giudicati) allo scopo di compiere atti di violenza con finalità di terrorismo internazionale, in Italia e all'estero, nell'ambito di un'organizzazione internazionale, localmente denominata con varie sigle, operante sulla base di un complessivo programma criminoso, condiviso con organizzazioni similari attive in Europa, Nord Africa, Asia e Medio Oriente, finalizzato alla preparazione ed esecuzione d'azioni terroristiche, nel quadro di una progetto di "Jihad" come strategia violenta per l'affermazione della loro religione d'appartenenza.
4. Avverso la sentenza hanno presentato ricorso per cassazione tutti gli imputati sopra indicati.
MOTIVI DELLA DECISIONE
5. Arman Ahmed El Hissini Helmy è stato condannato alla pena di 3 anni e 8 mesi per il reato di cui al capo 1 dell'imputazione (art. 416 c.p., con l'aggravante del fine di terrorismo, di cui alla L. n. 15 del 1980, art. 1) sopra sintetizzato, sulla base delle dichiarazioni accusatorie rese da Jelassi Rhiadh, Tlili Lazar e Zouaoii Chokri, riscontrate anche da sentenze irrevocabili, acquisite ex art. 238-bis c.p.p..
5.1. Il ricorrente, sotto la sintetica rubrica di "violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) e violazione dell'art. 521 c.p.p.", affastella una serie di doglianze e censure, per la massima parte ripetitive dell'atto di gravame, motivatamente rigettate dalla Corte d'assise di secondo grado, le quali devono considerarsi generiche, per contrasto con le esigenze di specificità di cui all'art. 581 c.p.p., comma 1 e art. 191 c.p.p, comma 1, lett. c), le quali implicano che i motivi d'impugnazione siano ricollegati specificamente al contenuto dell'atto impugnato e non si esauriscano nella riproduzione di censure già analizzate e valutate dal giudice d'appello, soprattutto quando, come nel caso in esame, dette censure ineriscono a valutazioni di fatto, estranee alla competenza della corte di legittimità, se non negli stretti limiti della verifica di completezza, non manifesta illogicità e non contraddittorietà di cui all'art. 601 c.p.p., comma 1, lett. e).
5.2. In particolare, sono inammissibili le censure relative alla valutazione probatoria fatta dai giudici di merito, con motivazione indenne da vizi logici, sui rapporti, ritenuti di valenza centrale tra gli elementi probatori posto a carico, intrattenuti dall'imputato Arman Ahmed con Es Sayed Abdelaker, dal primo ospitato a Milano in un appartamento a lui riconducibile, risultando irrilevante che l'appartamento fosse personale o in uso all'associazione criminosa per le proprie attività illecite. Parimenti inammissibile, perché attinente a valutazione di merito, analiticamente e adeguatamente motivata, è la censura su quanto argomentato dai giudici sull'uso del computer dell'imputato da parte del predetto Es Sayed per comunicare riservatamente con un interlocutore di un'utenza siriana. 5.3. Analogamente inammissibili risultano le censure rivolte alla valutazione delle dichiarazioni accusatorie rese, a carico dell'imputato ricorrente, da parte collaboratori sopra indicati, con riferimento alle denunciate loro contraddizioni ed alle regole prescritte dall'art. 192 c.p.p., commi 2 e 3, di cui hanno fatto corretto uso sia i giudici di primo sia quelli di secondo grado, che hanno già analizzato le doglianze dell'appellante. Nè in ricorso si prospettano nuovi profili di censura, se non per rilievi marginali e inconferenti circa la minore o maggiore prossimità dal Lago Patria di Mondragone, riferito da Jelassi come luogo osservato ai fini di un possibile attentato.
5.4. È invece ammissibile, ma infondato, il motivo con cui si deduce violazione dell'art. 521 c.p.p. per avere la Corte d'appello "finito per attribuire al ricorrente un fatto, un ruolo ed una condotta diversa rispetto a quella originariamente contestati". Si riferisce il ricorrente al passo della sentenza che sottolinea come l'iman della Moschea "non svolgesse direttamente un ruolo organizzativo all'interno (...) di alcuna delle sub-cellule, pur facenti riferimento alla Moschea di viale Jenner, ma svolgesse un ben più importante ruolo di promozione di tali gruppi minori e di raccordo degli stessi con l'associazione costituente articolazione nazionale del Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento". Correttamente la Corte d'appello ha ritenuto che già tale qualificazione del ruolo dell'Arman Amed emergeva chiaramente dal capo d'imputazione a lui originariamente contestato, ruolo che si esplicò nell'opera di propaganda, tra i frequentatori della Moschea più recettivi, del progetto di Jihad in modo da indurli a frequentare i campi d'addestramento all'estero, nella raccolta di fondi mirata al finanziamento del progetto, nel collegamento con importanti personaggi che, in Italia e all'estero, dedicavano la propria vita alla realizzazione del progetto.
5.5. Infondato è, infine, l'ultimo motivo con cui si deduce l'inosservanza di legge per mancata esclusione della circostanza aggravante di cui alla L. n. 15 del 1980, art. 1. Rileva il ricorrente che "il concetto di terrorismo non era applicabile agli atti violenti, con finalità d'eversione, se indirizzati verso uno Stato straniero non costituendo tali atti una lesione dell'ordinamento costituzionale italiano".
In effetti, l'aggravante è stata ritenuta con riferimento agli attentati da compiersi in Italia, analizzati nella sentenza di primo e di secondo grado.
6. Maaoui Lofti Ben Sadok è stato condannato alla pena di due anni di reclusione per partecipazione all'associazione criminosa di cui al capo 1 dell'imputazione (art. 416 c.p., con l'aggravante del fine di terrorismo, di cui alla L. n. 15 del 1980, art. 1).
6.1. Con motivo unico, il ricorrente deduce vizio di motivazione della sentenza con riferimento all'elemento oggettivo e soggettivo del reato e censura la mancata distinzione tra l'animus del partecipe dell'associazione criminosa e quella del simpatizzante. 6.2. Il motivo è del tutto generico, giacché non si confronta con la puntuale motivazione della sentenza d'appello che ha preso in analitica considerazione le censure dell'appellante, rigettandole motivatamente con riferimento, alle dichiarazioni accusatorie di Jelassi Riadh, riscontrate da Tlili Lazhar, sul periodo di tempo trascorso dall'imputato nell'orbita dell'associazione gravitante attorno all'imam della moschea di viale Jenner di Milano, con successiva partecipazione dell'imputato, con il nome di "Abu Hodeifa" ai campi d'addestramento in Afghanistan, nonché ai colloqui avuti con il Jelassi in cui l'imputato esprimeva la necessità di portare la guerra fino in Italia.
Nell'ambito della doglianza mossa dal ricorrente, una sola censura appare specifica e sottrae il ricorso alla declaratoria d'inammissibilità richiesta dal Procuratore generale: quella che deduce il vizio di motivazione della sentenza nella parte in cui afferma "che il viaggio in Afghanistan fosse pratica riservata agli associati che avessero dato prova della fedeltà al gruppo e della condivisione dei fini".
Trattasi, però, di censura senza fondamento. Emerge da tutta la ricostruzione dei giudici di merito, operata sulla base del materiale probatorio acquisito, che il "viaggio in Afghanistan" non aveva ne' carattere premiale ne' natura turistica, ma era finalizzato alla partecipazione a rischiosi campi d'addestramento militare (da cui il Maaoui Lofti uscì ferito alla mano), come segmento esperenziale all'interno del percorso di militanza, in cui, per elementari esigenze di sicurezza e d'autotutela, non poteva essere ammesso chi non avesse dato piena prova d'affidabilità con l'adesione ad uno dei gruppi che, dopo avere operato la necessaria selezione, rendevano possibile - anche da un punto di vista organizzativo - tale frequentazione, volta a rafforzare la preparazione teorico-pratica necessaria per la diffusione della guerra in Europa e in Italia. 7. Ben Yahia Mouldi Ben Rachid è stato condannato alla pena di 10 anni di reclusione per reati di cui ai capi 11 (art. 570-bis c.p.), 12 (artt. 648, 477 e 482 c.p. per avere ricevuto ed occultato documenti d'identità e moduli in bianco di provenienza delittuosa, al fine di consentire ad altre persone di raggiungere campi d'addestramento), 13 (artt. 110 e 81 c.p., D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, commi 1 e 3, per avere compiuto atti diretti a procurare l'ingresso illegale di persone nel territorio dello Stato), 22 (art. 110 c.p., art. 453 c.p., comma 1, nn. 3 e 4, L. n. 15 del 1980, art. 1, per avere ricevuto e usato banconote false in tre occasioni per L. 100.000.000), 23 (art. 110 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per avere, in concorso con Zouaoui, acquistato quantitativi di hashish con banconote false).
7.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), inosservanza ed erronea applicazione di legge penale per violazione del D.L. n. 8 del 1991, art. 16-quater e L. n. 45 del 2001, denunciandosi l'inutilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori di giustizia oltre 180 giorni dall'inizio della collaborazione.
Il motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, la sanzione d'inutilizzabilità prevista dal D.L. n. 8 del 1991, art. 16-quater, comma 9, conv. con mod. in L. n. 82 del 1991 (introdotto dalla L. n. 45 del 2001, art. 14) per le dichiarazioni del collaboratore di giustizia rese oltre il termine di centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo dei contenuti della collaborazione, si applica soltanto alle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio e non alle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento (cfr. Cass. 46328/2007, Galletta;
27040/2008, Aparo; 42618/2009, P.G. e Franchina in proc. Ambrogio). 7.2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, ex art. 606 c.p.p., lett. e), illogicità della motivazione in relazione all'attendibilità delle dichiarazioni del collaborante Zouaoui. La censura è inammissibile, essendo del tutto scollegata dalla motivazione della sentenza impugnata e basata, invece, su un'asserita "attività di sottocopertura" dello Zouaoui, utilizzato e manipolato dagli inquirenti, che, allo stato, si configura come illazione e supposizione che non possono essere prese in considerazione in questa sede di legittimità.
7.3. Inammissibile, ex art. 606 c.p.p., comma 3, è la censura relativa al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non avendo esse costituito oggetto delle deduzioni d'appello.
7.4. Del tutto generico, e perciò inammissibile ai sensi dell'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c è anche l'ultimo motivo, con cui si deduce vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), in relazione al principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, che si risolve in considerazioni di carattere generale e in citazioni giurisprudenziali, senza alcun collegamento con la sentenza impugnata.
8. Hekiri Hichem è stato condannato alla pena di cinque anni e sei mesi di reclusione per il delitto di cui all'art. 270-bis c.p. (capo 11).
8.1. Con il primo motivo, comune al coimputato Ben Yahia, il ricorrente deduce inosservanza ed erronea applicazione di legge penale per violazione del D.L. n. 8 del 1991, art. 16-quater e L. n. 45 del 2001 e denuncia l'inutilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori di giustizia oltre i 180 giorni dall'inizio della collaborazione.
La censura è infondata per le ragioni già indicate nell'esame dell'identico motivo del Ben Yahia.
8.2. Sono invece fondati il secondo, il terzo e il quarto motivo di ricorso, con cui si deducono violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 3 e relativo vizio di motivazione sulla valutazione delle dichiarazioni accusatorie e dei relativi riscontri.
Il ricorrente aveva presentato specifici e articolati motivi d'appello, soprattutto in ordine alle accuse mosse dal collaboratore Zouaoui ed alla sua ritenuta attendibilità.
La Corte d'assise d'appello, nel rigettare il gravame dell'imputato, pur modificando alquanto le affermazioni della prima sentenza, ha respinto le critiche all'inattendibilità del dichiarante. A proposito di un asserito viaggio effettuato a Parigi, i giudici d'appello rilevano come Zouaoui "si sia sbagliato allorché ha identificato nel Rabei Osman El Sayed il consegnatario dei documenti portati nell'occasione del viaggio a Parigi"; affermano, confermando i rilievi dell'appellante, che effettivamente nel controesame cui fu sottoposto il 5.6.07 da parte del difensore di Hekiri, il collaboratore "operò un netto dietro front rispetto alla certezza dimostrata nelle precedenti dichiarazioni", aggiungendo che "non si può escludere (ma neanche affermare con sicurezza) che ciò sia dovuto alle ricordate inconciliabili dichiarazioni" dell'ufficiale di polizia giudiziaria Migale, secondo cui in quel periodo El Sayed era rinchiuso in un centro di permanenza in Germania.
La conclusione cui perviene la sentenza impugnata è che Zouaoui si era sbagliato, "ma non per questo (può) essere considerato un calunniatore ne' comunque si (può) estendere il giudizio d'inattendibilità alle altre dichiarazioni più propriamente riguardanti Hekiri".
I giudici hanno evidentemente fatto applicazione del principio di frazionabilità della dichiarazione, più volte legittimato dalla giurisprudenza di questa Corte, sempre che non esista un'interferenza fattuale e logica tra la parte della narrazione, ritenuta falsa oppure non confermata, e le restanti parti che siano intrinsecamente attendibili e riscontate e purché la falsità di una parte della dichiarazione non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la complessiva credibilità del dichiarante (cfr. Cass. n. 6221/2006, Aglieri).
L'accertata falsità su di uno specifico fatto narrato non comporta automaticamente la perdita di credibilità di tutto il compendio conoscitivo-narrativo dichiarato dal collaboratore di giustizia. Com'è stato sottolineato da recente giurisprudenza (Cass. n. 14909/2010, Conti Taguali), è affidata al giudice la verifica e la ricerca di un punto di "ragionevole equilibrio di coerenza e qualità" di ciò che viene riferito, nel contesto di tutti gli altri fatti, evidenziandosi che il necessario riscontro si pone in termini inversamente proporzionali alla pesata e vagliata attendibilità soggettiva del chiamante in reità o correità: ad una debole valenza d'attendibilità soggettiva deve corrispondere un più elevato e consistente spessore di riscontro, in una sorta di compensazione valutativa che sia in grado di porre efficace rimedio alla scarsa rassicurabilità della fonte, attraverso il necessario minuzioso raffronto di verifiche di credibilità estrinseca.
A tal esigenza di rafforzato riscontro si accompagna, ovviamente, la necessità di una specifica motivazione, idonea a dar conto della ragione per cui l'accertata falsità di uno specifico fatto narrato non comporta la perdita di credibilità del dichiarante o l'inattendibilità della dichiarazione.
A fronte della versione dell'appellante, che negò in radice l'esistenza di tale viaggio e affermò la falsità delle dichiarazioni di Zouaoui, l'affermazione della Corte d'assise d'appello è puramente asseverativa (il collaboratore "si era sbagliato") e non fornisce alcuna plausibile spiegazione dell'errore del collaboratore, che aveva con sicurezza garantito l'identità di Rabei Osman El Sayed come consegnatario dei documenti portati nell'occasione del viaggio a Parigi, sottolineando che "aveva passato due giorni di seguito con lui".
Nè è stata evidenziata dai giudici d'appello l'esistenza di sicuri e rafforzati riscontri. Questi, secondo la sentenza in esame, sono costituiti (non dalle dichiarazioni di Jelassi, contrariamente a ciò che aveva ritenuto la Corte di primo grado), ma da contatti telefonici dell'appellante con Ben Yahia e Saadi Nassim, ricavati da "tabulati pregressi" e dalla carica di sindaco ricoperta dall'imputato nella General Service di Scheik Ahmed. I tabulati pregressi, per come genericamente indicati, alla pari della frequentazione e conoscenza di persone del medesimo ambiente sociale e religioso, non appaiono idonei a costituire riscontro, giacché i semplici contatti telefonici (nell'ignoranza del loro oggetto) possono provare la conoscenza tra i diversi soggetti, ma non hanno alcuna valenza dimostrativa di riscontro sullo specifico fatto addebitato all'imputato. Nè tanto meno può servire l'indicata carica di sindaco della cooperativa, ciò che costituirebbe, sia pure sotto il profilo di riscontro confermativo, una sorta d'inammissibile "responsabilità da posizione", peraltro rivestita per un ben limitato periodo.
In conclusione, sembra dalla motivazione della sentenza che la Corte d'assise d'appello abbia riconosciuto come fondate le censure dell'appellante Hekiri, senza tuttavia trarne le conseguenze logico- giuridiche in ordine all'attendibilità del collaborante e alla mancanza di riscontri esterni alla chiamata in correità o, per lo meno, senza idonea motivazione sul punto.
Assorbite le censure sul trattamento sanzionatorio, la sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio al giudice di merito per nuovo esame.
9. Kneni Kamel è stato condannato dalla Corte d'assise d'appello alla pena di 5 anni di reclusione (così ridotta rispetto a quell'inflitta in primo grado) per il reato di cui all'art. 270-bis c.p..
9.1. Il ricorrente denuncia, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), inosservanza della legge penale e vizio di motivazione in ordine all'attendibilità dei chiamanti e alla ritenuta esistenza di riscontri individualizzanti, indicato in elementi d'ordine puramente logici e ipotetici, che assumono la valenza di supposizioni o congetture.
Deduce, inoltre, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), la mancata assunzione di prova decisiva e relativo vizio di motivazione, in ordine alla documentazione relativa allo stato di famiglia dell'imputato e al verbale illustrativo della collaborazione del dichiarante Zoauoui Chokri.
A questo proposito censura la sentenza per inosservanza e violazione di legge e vizio di motivazione anche con riferimento al rigetto della doglianza difensiva relativa alle dichiarazioni dello Zoauoui, rese dopo 180 giorni dall'inizio della collaborazione e deduce, deducendo, in mancanza del verbale illustrativo della collaborazione, l'inutilizzabilità delle dichiarazioni dibattimentali degli ufficiali di polizia giudiziaria in merito alle notizie e alle informazioni contenute nel predetto verbale. Si duole infine dell'inosservanza di norma processuali stabilite a pena d'inutilizzabilità a proposito delle intercettazioni telefoniche, acquisite in violazione degli artt. 270 e 168 c.p.p.. 9.2. Nessuna delle doglianze, ad eccezione della prima, merita accoglimento.
Cominciando l'esame dalla dedotta inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche trascritte nelle sentenze acquisite ex art. 238-bis c.p.p. e, perciò, realizzate in altri procedimenti, va innanzitutto rilevata le genericità del rilievo, in mancanza dell'indicazione specifica delle intercettazioni asseritamene utilizzate e della decisività di tale utilizzazione ai fini della formazione del convincimento dei giudici. In secondo luogo, nella parte in cui la censura evoca la mancata possibilità di controllo sulla legittimità delle intercettazioni telefoniche disposte in altro procedimento, è stato più volte affermato da questa Corte che la parte che propone tali questioni ha l'onere (non adempiuto dal Kneni) di produrre sia il decreto d'autorizzazione sia il documento al quale esso rinvia, richiedendone copia a norma dell'art. 116 c.p.p., in modo da porre il giudice del procedimento ad quem in grado di verificare l'effettiva inesistenza, nel procedimento a quo, del controllo giurisdizionale prescritto dall'art. 15 Cost. (Cass. Sez. U., n. 45189/2004, P.M. in proc. Esposito). Infine, non è prospettabile alcuna elusione dell'art. 270 c.p.p., comma 1, essendo stato contestato all'imputato il reato di cui all'art. 270-bis c.p., rientrante tra i delitti per i quali è consentita l'utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte.
Tutte le censure che hanno ad oggetto il tempo e il verbale dell'inizio della collaborazione di Zouaoui Chokri, le dichiarazioni da lui rese oltre i 180 giorni, le dichiarazioni degli ufficiali di polizia giudiziarie con relazione all'inizio della collaborazione del predetto Zouaoui sono destituite di fondamento per le ragioni già indicate con riferimento al ricorso di Ben Yahia Mouldi Ben Rachid.
Inconferenti si rivelano le censure relative alla mancata acquisizione in appello dello stato di famiglia dell'imputato, al fine di provare l'inesistenza del fratello Mourad e così smentire le contrarie affermazioni dei giudici di primo grado, avendo la Corte d'appello chiaramente affermato l'irrilevanza di tale questione ai fini dell'affermazione di colpevolezza dell'imputato, come meglio si chiarirà nella prosecuzione dell'esame.
9.4. Passando all'analisi del primo motivo, infondatamente il ricorrente, con riferimento all'attendibilità del collaboratore Zouaoui Chokri, rileva che la Corte d'appello "si è limitata a far proprie le motivazioni contenute nelle sentenze definitive acquisite nel presente procedimento, senza effettuare, quindi, la necessaria ed autonoma valutazione in merito". Rileva, invece, il Collegio che dall'esame della sentenza impugnata, che va esaminata anche in relazione ai rinvii operati alla decisione di primo grado, risulta che la valutazione delle sentenze irrevocabili acquisite è stata operata a norma dell'art. 187 e art. 192, comma 3, in piena osservanza di quanto prescrive l'art. 238-bis c.p.p.. Merita, invece, accoglimento la doglianza del Kneni concernente l'inosservanza dell'art. 192 c.p., comma 3 e la relativa motivazione con riferimento ai necessari riscontri individualizzanti. L'affermazione di colpevolezza era stata fondata dalla Corte di primo grado sulle dichiarazioni accusatorie di Zouaoui Chokri, riscontrate in parte dall'altro collaboratore Jelassi, ma soprattutto, dall'esistenza di una pratica (sequestrata preso l'agenzia Adineh Travel) per il visto per l'Iran (che si riteneva finalizzata ad andare a combattere in Afghanistan, dove già suo fratello Mourad era morto da mujhaiddin).
L'appellante aveva mosso specifici rilievi critici in ordine ai tre ritenuti riscontri (dichiarazioni di Jelassi, pratica per ottenere un visto per l'Iran, esistenza di un fratello Mourad, morto "martire" in Afghanistan), denunciandone anche l'inconsistenza del necessario carattere individualizzante.
La Corte d'appello, ribadita l'attendibilità di Zouaoui, ha sottolineato che il primo giudice "non ha in realtà, assunto l'esistenza di un fratello di nome Mourad, morto come martire, quale riscontro individualizzante della dichiarazioni accusatorie, ma ha semplicemente riportato, quanto riferito al riguardo sia da Zouaoui sia da Jelassi, osservando soltanto che il dato in questione non può ritenersi smentito dalla documentazione acquisita". Hanno poi precisato i giudici d'appello che "le dichiarazioni di Jelassi non costituiscono certo riscontro individualizzante delle dichiarazioni accusatorie dello Zouaoui, ma solo conferma che affettivamente, negli ambienti della Moschea, girasse tale voce".
Orbene, esclusa la valenza di riscontro sia alle dichiarazioni di Jelassi sia alla supposta uccisione in combattimento dell'eventuale fratello Mourad (la cui esistenza e la cui morte, peraltro, è onere dell'accusa dimostrare), residua unicamente la richiesta del visto per accedere in Iran, del quale la Corte territoriale ha "confermato il valore di riscontro".
La Corte, tuttavia, per attribuire tale valore avrebbe dovuto fornire una convincente spiegazione del motivo per cui - avendo il sodalizio criminoso attrezzature e mezzi per procurarsi e realizzare documentazione falsificata e così occultare i movimenti dei suoi adepti - il Kneni avrebbe scelto la via legale di una richiesta ufficiale di visto per l'ingresso in Iran, tramite un'agenzia di viaggi. Tale spiegazione manca nella sentenza impugnata, che omette anche di replicare al rilievo dell'appellante, secondo cui affinché la pratica relativi al visto per l'Iran potesse costituire riscontro individualizzante, occorreva dimostrare e provare che il visto era stato richiesto per poi andare a combattere in Afghanistan o comunque in quelle zone del medio-oriente dove vi sono atti di guerra, ovvero per andare in luoghi ove l'associazione criminosa intendeva svolgere atti di terrorismo o atti prodromici all'attività ed al fine dell'associazione medesima. Assorbite le censure sul trattamento sanzionatorio, la sentenza impugnata va, pertanto annullata nei confronti di Kneni Kamel, con rinvio al giudice del merito per nuovo giudizio.
10. Sahraoui Nessun Ben Romdhane, condannato alla pena di 6 anni di reclusione per i reati di cui ai capi 11 (art. 270-bis c.p.) e 27 (artt. 110, 648, 477 e 492 c.p. per avere ricevuto ed occultato documenti d'identità e moduli in bianco di provenienza delittuosa, al fine di consentire gli spostamenti dei militanti
dell'associazione.
10.1. È preliminare l'esame dei motivi con cui il ricorrente deduce violazione di legge processuale che incidono sulla regolare costituzione del rapporto processuale.
10.2. È fondato il motivo con cui, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), viene denunciata la violazione, degli artt. 420-bis, 420- ter, 420-quater e 603 c.p.p. e art. 178 c.p.p., lett. c) per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento all'ordinanza di contumacia dell'imputato. Dalla sentenza emerge che - dopo avere dichiarato la contumacia di Sahraoui con una prima ordinanza del 22.5.2008, per essere la documentazione fornita dalla difesa in lingua araba e di provenienza non ufficiale - successivamente, all'esito della produzione da parte della difesa Sahraoui di ulteriore documentazione in lingua araba e relativa traduzione, la Corte d'assise d'appello, con una seconda ordinanza emessa all'udienza del 5.11.2008, respinse "la richiesta di dichiarare il legittimo impedimento dell'appellante a comparire e, in subordine, di disporre i dovuti accertamenti circa l'attuale detenzione in Tunisia".
A giustificazione di tale decisione, la Corte territoriale ha rilevato, per un verso, che il predetto documento in lingua araba "attesterebbe - al più - lo stato di detenzione alla data del 8.5.2007" e, per altro verso, che la detenzione all'estero per altra causa non risultava dagli atti, così come richiesto dal testo dell'art. 420-ter c.p.p., comma 2.
In tema d'impedimento dell'imputato, giova rammentare che la detenzione dell'imputato per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integra un'ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio in contumacia, anche quando risulti che l'imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è configurabile a suo carico, a differenza di quanto accade per il difensore, alcun onere di tempestiva comunicazione dell'impedimento. (Cass. Sez. U, n. 374836, Arena).
La Corte territoriale non ha posto in discussione tale principio, ovviamente valido anche per lo stato di detenzione all'estero, ma ha ritenuto che tale stato non "risultava dagli atti".
La Corte ha evidentemente inteso il testo dell'art. 420-ter c.p.p., comma 1 ("quando... risulti che l'assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per... altro legittimo impedimento") nel senso che l'impedimento deve risultare dagli atti già formati del fascicolo processuale, non considerando che i documenti prodotti dalla difesa, una volta acquisiti dal giudice, entrano a far parte degli atti del fascicolo e, se documentano il legittimo impedimento, sono idonei a determinare le prescritte conseguenze. La documentazione prodotta dalla difesa, secondo la sentenza, "attesterebbe - al più - lo stato di detenzione del Sarhaoui alla data dell'8.5.2007". Con tale annotazione la Corte territoriale vuole implicitamente, ma chiaramente, significare che non era attestato lo stato di detenzione in data prossima al 5 novembre 2008 (data del giorno dell'udienza e dell'ordinanza), ma non ha considerato che la difesa in tale udienza aveva depositato la traduzione in italiano di documentazione sostanzialmente analoga a quella prodotta in lingua araba il 22 maggio 2008. Quand'anche si volesse ritenere formalmente legittimo il mancato collegamento tra la documentazione presentata il 22 maggio (in lingua araba) e quelle prodotta il 5 novembre (in lingua italiana), non poteva la Corte omettere di considerare, da un lato, che il difensore aveva, con riferimento alla prima udienza, indicato specificamente lo stato di detenzione dell'imputato in un determinato carcere della Tunisia e, dall'altro, che lo svolgimento di tutta la vicenda rendeva palese che la difesa non stava realizzando tentativi dilatori, ma era visibilmente impegnata a provare la sussistenza del legittimo impedimento per detenzione in un paese che la stessa Corte territoriale ha stigmatizzato come scarsamente collaborativi. In tale situazione era doveroso, in accoglimento della richiesta subordinata, disporre i necessari accertamenti d'ufficio per la verifica dello stato di detenzione, non potendosi far ricadere sull'imputato le difficoltà di collaborazione tra autorità giudiziaria italiana e autorità tunisine. L'omissione d'accertamento ha determinato una violazione dei diritti dell'imputato, sanzionata a norma dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 180 c.p.p..
La sentenza impugnata va, perciò, annullata nei confronti del Sarhaoui con rinvio al giudice di merito.
10.3. Il Collegio rileva la fondatezza anche dell'altro motivo con cui il ricorrente deduce violazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), degli artt. 169, 295 e 296 c.p.p., art. 178 c.p.p., lett. c) per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento al decreto di latitanza emesso in data 22.9.2005.
Il difensore dell'appellante aveva presentato specifico motivo di gravame in ordine alla dichiarazione di latitanza, censurandone l'illegittimità formale (per mancanza d'indicazione delle specifiche ricerche svolte, secondo quanto è richiesto dall'art. 295 c.p.p., comma 1) e sostanziale (per mancata considerazione di una precedente nota dei ROS, datata 22.4.2005, che attestava l'avvenuta espulsione dell'imputato per la Tunisia in data 5.12.2002).
Era stata appellata anche la successiva dichiarazione di contumacia, conseguenza dello stato di latitanza erroneamente riconosciuto al Sarhaoui, non potendosi ne' la latitanza ne' la contumacia ricondurre in alcun modo ad un atto volontario dell'imputato. La Corte d'appello ha, per un verso, ritenuto che il decreto di latitanza, emesso il 2.9.2005 fosse stato ritualmente adottato con riferimento alla concreta situazione accertata in quel momento, costituendo l'avvenuta espulsione un dato "neutro, e, pertanto, giustamente ignorato nel decreto di latitanza" e, per altro verso, ha valutato che "l'espulsione, di per sè, non costituisce legittimo impedimento... potendo chiedere l'interessato l'autorizzazione a rientrare per presenziare".
Orbene, a prescindere dalle notorie e non agevoli difficoltà per ottenere l'autorizzazione a rientrare in Italia a seguito di un decreto d'espulsione, rileva il Collegio che la difesa aveva denunciato la nullità della vocatio in iudicium derivante dall'irrituale declaratoria della latitanza.
Poiché gli effetti della dichiarazione dello stato di latitanza si estendono per tutto il procedimento sino alla cessazione del predetto stato, la verifica della ritualità della sua adozione condiziona quella della ritualità della notificazione della citazione in giudizio, per cui l'invalida dichiarazione di latitanza comporta l'irregolarità della notifica della citazione giudizio e della successiva dichiarazione di contumacia.
L'assunto da cui muovono i giudici d'appello circa la ritualità della declaratoria di latitanza non è condivisibile, risultando dalla stessa sentenza impugnata che il ROS di Milano, con nota del 2.4.2005, aveva segnalato che il Sarhaoui, compiutamente generalizzato, era stato già espulso verso la Tunisia, cosicché non poteva in alcun caso inferirsi che l'imputato si fosse "volontariamente" sottratto alla custodia cautelare (art. 296 c.p.p., comma 1) o, quanto meno, che si fosse allontanato dal territorio nazionale nella consapevole previsione dell'emissione di un provvedimento coercitivo a suo carico e della volontà dello stesso di sottrarsi alla sua esecuzione.
In siffatta situazione, per essere ritenute "esaurienti", secondo il disposto dell'art. 295 c.p.p., comma 2, le ricerche avrebbero dovuto essere estese alla Tunisia, ex art. 169 c.p.p., comma 4, la cui previsione, dettata per l'emissione del decreto d'irreperibilità, deve ritenersi applicabile analogicamente anche ai fini della legittimità dell'emissione del decreto di latitanza, che è una forma d'irreperibilità, qualificata dalla volontaria sottrazione del soggetto ad un provvedimento coercitivo, essendo tale procedura elemento per valutare il grado di completezza delle ricerche. (Cass. n. 17592/2007, Dalipi; n. 5929/2009, Bambach; n. 47229/2009, Neziri). Ne consegue anche la nullità del giudizio di primo grado, con conseguente necessità d'annullamento, nei confronti di Sahraoui Nessim Ben Romdhane, sia della sentenza impugnata sia di quella della Corte d'assise di Milano pronunciata in data in data 20 dicembre 2007, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'assise di Milano.
11. Sul provvedimento d'espulsione.
La Corte d'assise, con conferma da parte della Corte d'assise d'appello, aveva disposto il provvedimento d'espulsione dal territorio dello Stato, a pena espiata, di vari imputati, tra cui Kneni, Hekiri, Sahraoui e Ben Yahia, taluni dei quali avevano formulato motivi d'impugnazione sul punto.
In proposito, a seguito di ricorso proposto in data 13.4.2010 dal ricorrente Kneni Kamel alla Corte Europea dei diritti dell'uomo ex art. 34 Cedu, il Greffier della 2^ sezione della predetta Corte ha comunicato alla Rappresentanza permanente d'Italia presso il Consiglio d'Europa, con nota 15.4.2010 trasmessa a questa Corte dal Ministero della giustizia, il contenuto di una misura cautelare sospensiva emessa in data 14 aprile. Con tale provvedimento, il Presidente della 2^ sezione della Corte di Strasburgo indica al Governo italiano la necessità di "non procedere all'espulsione del ricorrente verso la Tunisia fino a nuovo ordine, al fine di non pregiudicare l'esito del procedimento", ai sensi dell'art. 39 del Regolamento della Corte, con avvertenza che la mancata collaborazione, ovvero il mancato rispetto dell'indicazione della Corte di non procedere alla materiale espulsione dello straniero sino a nuovo ordine, costituirebbe autonoma violazione della Convenzione, distinta e indipendente da quelle denunciate dalla parte ricorrente, per le quali l'Italia potrebbe, in ipotesi, incorrere in una condanna ulteriore.
Sebbene la nota del presidente della 2^ sezione della Corte Europea abbia la forma dell'auspicio e dell'invito a soprassedere, fino a nuovo ordine, all'esecuzione del provvedimento d'espulsione nei confronti di Kneni e sia diretta al Governo italiano, che ha il compito di dare materiale e concreta esecuzione all'ordine d'espulsione del condannato dal territorio dello Stato, non v'è alcun dubbio che quell'invito costituisca un'inibizione obbligatoria, la cui mancata osservanza - per la giurisprudenza della Corte a partire dalla decisione della Grande Camera del 2005 - "va considerata come ostruzione alla disamina efficace da parte della Corte della rimostranza fatta dal richiedente e come ostruzione dell'esercizio efficace del suo diritto e, pertanto, come una violazione dell'articolo 34 della Convezione" (decisione sul caso Mamutkulov e Askarov a Turchia - ricorsi nn. 46827/99 e 46951/99). Alla doverosa osservanza degli obblighi che scaturiscono dai provvedimenti anche provvisori della Corte di Strasburgo, oltre al Governo, sono tenute tutte le istituzioni della Repubblica, compresi gli organi giurisdizionali nell'ambito delle rispettive competenze, e specificamente, in materia di misure di sicurezza, il magistrato di sorveglianza.
Nè la questione può ritenersi limitata al ricorrente Kneni, oggetto della specifica misura provvisoria sopra indicata della Corte Europea, giacché la stessa misura di sicurezza dell'espulsione, a pena espiata, è stata disposta anche nei confronti i ricorrenti Hekiri, Sahraoui e Ben Yahia, tutti cittadini tunisini e, perciò, destinati all'espulsione verso la Tunisia, paese che, secondo quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo, non offre garanzia di rispetto dei diritti umani fondamentali.
La Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, (resa esecutiva con L. n. 848/1955), la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (resa esecutiva con L. n. 489 del 1988) e il Patto Internazionale sui diritti civili e politici (reso esecutivo con L. n. 881 del 1977) proibiscono la tortura e i trattamenti inumani e degradanti e prescrivono il divieto di refoulement, ovvero di rimpatrio a rischio di persecuzione. Il divieto di refoulement è assoluto e si applica ad ogni persona, senza considerazione ne' del suo status ne' del tipo d'imputazione o di condanna, ed indipendentemente dalla natura del trasferimento, comprese l'estradizione o l'espulsione. Proprio con riferimento alla Tunisia, il 28 febbraio 2008, la Grande Camera della Corte Europea, nel caso Saadi c. Italia, ha statuito che la messa in esecuzione della decisione di espellere il ricorrente verso quel paese integrerebbe una violazione dell'art. 3 della Convenzione, che vieta la sottoposizione a tortura, a pena o trattamento inumani o degradanti.
Tale decisione è stata fondata sulla considerazione di diritto, secondo cui l'art. 3 stabilisce una protezione assoluta della persona e impone di non estradarla o espellerla quando essa corre, nel Paese di destinazione, un rischio reale di essere sottoposta ai trattamenti inumani o degradanti, e sulla constatazione di fatto emergente dai rapporti sulla Tunisia d'affidabili organizzazioni internazionali (Amnesty International e Human Rights Watch, corroborati da relazioni del Dipartimento di Stato americano), che segnalano numerosi e regolari casi di tortura e di maltrattamenti in quel Paese relativamente a persone accusate ai sensi della legge antiterrorismo del 2003. "Le pratiche denunciate - che si verificherebbero spesso durante il fermo e allo scopo di estorcere delle confessioni - vanno dalla sospensione al soffitto alle minacce di violenza sessuale, passando per le scariche elettriche, l'immersione della testa in acqua, le percosse e le bruciature di sigarette, ossia pratiche che senza alcun dubbio raggiungono la soglia di gravità richiesta dall'art. 3 della Convenzione. Le accuse di torture e di maltrattamenti non sarebbero esaminate dalle autorità tunisine competenti, che si rifiuterebbero di dar seguito alle denunce e utilizzerebbero regolarmente le confessioni ottenute sotto costrizione per giungere a condanne".
In tali condizioni, la Corte Europea ha ritenuto che, nella fattispecie, sussiste un rischio reale che la persona sottoposta ad espulsione verso la Tunisia potrebbe subire dei trattamenti contrari all'art. 3 della Convenzione.
Da tale pronuncia deriva per ogni articolazione istituzionale della Repubblica la necessità di verificare il rigoroso rispetto dell'art. 3 della Convenzione e, specificamente, per ogni organo giurisdizionale competente a deliberare decisioni che comportano trasferimenti di persone verso la Tunisi, il dovere di individuare e adottare, in caso di ritenuta pericolosità della persona, un'appropriata misura di sicurezza, diversa dall'espulsione, alla luce dei principi vigenti in materia e in considerazione della particolare situazione dei prevenuti. E ciò fino a quando non sopravvengano in Tunisia fatti innovativi idonei a mutare la situazione d'allarme descritta nell'indicata decisione della Corte Europea dei diritti dell'uomo, sì da offrire affidabile e concreta dimostrazione di garanzia di pieno rispetto dell'art. 3 della Convenzione.
Trattandosi vicende suscettibili di evoluzione e di sviluppo, tale verifica va fatta nel momento in cui deve eseguirsi l'espulsione, con eventuale sostituzione di essa con altra misura di sicurezza. P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata nei confronti di Hechiri Hichem Ben Mohamed e di Kneni Kamel, e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'assise d'appello di Milano;
annulla la sentenza impugnata e la sentenza della Corte d'assise di Milano del 20 dicembre 2007 nei confronti di Sahraoui Nessim Ben Romdhane e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'assise di Milano.
Rigetta gli altri ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 28 aprile 2010.
Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2010