Sez. 4,
Sentenza
n. 48292
del 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. MOCALI Piero - Presidente - del 27/11/2008
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere - SENTENZA
Dott. D'ISA Claudio - Consigliere - N. 2125
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere - N. 23931/2008
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
difensori degli imputati:
DESANA Maurizio, nato a Torino il 1 maggio 1949;
DI FRANCO Giuseppa, nata a Palermo il 15 giugno 1965;
DONADIO Cristina, nata a Torino il 6 luglio 1967;
DE CARLI Giulietta, nata a Torino il 29 giugno 1949;
PESSOT Michela, nata a Torino il 20 febbraio 1965;
e del responsabile civile Azienda Sanitaria Locale T04 (già
(A.S.L. n. 6 Ospedale di Ciriè);
avverso la sentenza pronunciata in data 16 gennaio 2008 dalla Corte
di appello di Torino;
udita la relazione del Consigliere Dott. Renato BRICCHETTI;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del S.
Procuratore Generale Dott. SALZANO Francesco, che ha chiesto
rigettarsi i ricorsi;
udito il difensore della parte civile SÀ REIS da CONCEICAO
Albertina, in proprio e quale legale rappresentante del figlio
minorenne Davide BORELLO, avv. MUSSA Carlo di Torino che ha
concluso per il rigetto dei ricorsi;
uditi il difensore di fiducia degli imputati DESANA e PESSOT,
avv. RONFANI Anna Clorinda di Torino, che ha concluso per
l'accoglimento del ricorso;
udito il difensore di fiducia delle imputate DI FRANCO, DONADIO
e DE CARLI, avv. BISSACCO Giorgio di Torino, che ha concluso per
l'accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di
Torino, in riforma della decisione assolutoria di primo grado,
condannava alla pena ritenuta di giustizia, riconosciuta la
sussistenza delle circostanze attenuanti di cui all'art. 62-bis c.p.,
Maurizio DESANA, responsabile del reparto di psichiatria
dell'ospedale di Ciriè, Giuseppa DI FRANCO, DONADIO
Cristina, Giulietta DE CARLI e Michela PESSOT, medici in
servizio presso detto reparto, per avere cagionato con colpa la morte
(reato di cui all'art. 589 c.p.) di Giuseppe BORELLO (che,
ricoverato dal 6 marzo 2002 perché affetto da disturbo depressivo
maggiore, il 17 marzo usciva dal reparto, raggiungeva la finestra
del corridoio di altro piano dell'edificio e si gettava nel vuoto),
in particolare, per non avere previsto, con disposizioni al personale
infermieristico, la sorveglianza del paziente benché il medesimo
avesse dichiarato di provare improvvisi impulsi autolesivi e, in data
13 marzo, avesse posto in essere un tentativo di defenestramento
(episodio discusso tra tutti i medici del reparto ai quali i pazienti
erano unitariamente affidati). Condannava, inoltre, gli imputati ed
il responsabile civile A.S.L. n. 6 Ospedale di Ciriè (ora
Azienda Sanitaria Locale TO4), in solido tra loro:
- al risarcimento del danno alla parte civile (rimessione delle
parti, ai sensi dell'art. 539 c.p.p., davanti al giudice civile per
la liquidazione);
- al pagamento alla stessa, a titolo di provvisionale, immediatamente
esecutiva, della somma di Euro 400.000,00;
- alla rifusione alla parte civile medesima delle spese processuali.
Disponeva, infine, che l'esecuzione della pena inflitta fosse sospesa
ai sensi degli artt. 163 c.p. e ss. e che, ai sensi dell'art. 175
c.p., non fosse fatta menzione della condanna nel certificato del
casellario a richiesta di privati.
1.1. Avuto riguardo agli specifici punti di gravame formulati nei
ricorsi, vanno riepilogati i fatti riportati nel testo della sentenza
impugnata.
BORELLO era stato, come si è detto, ricoverato il 6 marzo 2002.
Il dott. DESANA lo aveva visitato il precedente 4 marzo e lo aveva
descritto come persona in preda ad una "grossa crisi d'ansia".
La dottoressa DI FRANCO, nella scheda anamnestica, aveva annotato
che da circa due - tre settimane vi era stata comparsa di "rituali di
pulizia (lavarsi continuamente le mani), astenia, difficoltà ad
effettuare le normali attività quotidiane ed a recarsi al lavoro,
vissuti di colpa e sentimenti di angoscia" e che, nell'ultima
settimana, vi era stato un "aggravamento del quadro clinico".
Il BORELLO era sembrato, comunque, "lucido, collaborante ed
orientato nel tempo e nello spazio"; erano apparse "conservate"
capacità critica e di giudizio, benché l'ansia eccedesse i limiti
fisiologici, l'umore fosse depresso ed il paziente lamentasse
insonnia.
Il ricovero (volontario) era stato deciso per un "approfondimento
diagnostico e terapeutico".
Il giorno successivo al ricovero (7 marzo) il paziente si era
mostrato abulico, astenico e ansioso.
Nelle giornate susseguenti si era registrata un'alternanza di stati
di ansia e di angoscia (8 e 9 marzo), di dichiarato benessere (10
marzo), di insofferenza al ricovero (12 marzo).
Il giorno 13, però, BORELLO era stato sorpreso, all'interno
della stanza singola di altro paziente, "mentre cercava di mettere in
atto un tentativo di defenestramento".
Il 15 marzo aveva riferito di svegliarsi continuamente durante la
notte ma di non avere più avuto ansia.
La sera, però, dopo essersi incontrato con la moglie, era apparso
confuso.
Aveva manifestato l'intenzione di non alimentarsi e di non voler
vedere nessuno, ma poi aveva cenato regolarmente ed accettato la
visita della sorella.
Il giorno dopo si era mostrato preoccupato per le "cose dette alla
moglie".
Era comunque sembrato "più tranquillo" e nel pomeriggio aveva
chiesto di poter uscire con la moglie.
Era, quindi, uscito dalle ore 13,40 alle ore 20,00.
Infine, il 17 marzo, come annotato dalla dottoressa DONADIO, in
servizio quel giorno, il BORELLO, dopo avere riferito di essere
stato bene "in permesso" e di avere "riposato a tratti", uscito dal
reparto, si era lanciato dalla finestra del corridoio del quarto
piano dell'edificio.
L'infermiera GALBIATI aveva dichiarato che l'uomo le aveva chiesto
di poter uscire dal reparto (situato al secondo piano) per andare a
prendere il caffè; gli aveva aperto la porta proprio mentre anche
altro paziente le aveva chiesto di poter prendere un caffè.
Era allora uscita dal reparto per dire al BORELLO di prendere anche
quest'altro caffè, ma non l'aveva più visto.
Lo aveva chiamato credendo che fosse sceso "alle macchinette", ma
l'uomo non aveva risposto.
A quel punto si era accorta che l'ascensore segnava "il quarto
piano".
Era salita di corsa per le scale e nel reparto neurologia c'era la
porta aperta.
Aveva così avuto modo di constatare quanto accaduto.
1.2. Come si è detto, il giudice di primo grado aveva assolto gli
imputati, ritenendo:
- che non vi fosse stato "errore diagnostico" da parte degli
psichiatri in quanto non era provato che il BORELLO fosse affetto
da "depressione maggiore", cioè dalla forma di depressione nella
quale è più forte il rischio suicidiario, e che così fosse lo
avevano affermato anche i consulenti tecnici del pubblico ministero e
della parte civile, i quali avevano contestato agli imputati soltanto
di avere trascurato la circostanza che gli antidepressivi, compreso
l'ELOPRAM, fornivano un risultato "apprezzabilmente stabilizzato"
dopo una quindicina di giorni (sicché, prima dello scadere di detto
termine, le cautele verso il ricoverato avrebbero dovuto essere
"maggiori", tanto più che, nel caso di specie, si doveva tenere
conto del segnale di allarme del giorno 13);
- che, comunque, sussisteva rapporto di causalità tra l'omesso
accompagnamento del BORELLO fuori dal reparto ed il suicidio, nel
senso che l'evento hic et nunc non si sarebbe verificato se, durante
il periodo di latenza della terapia, fosse stato adottato un divieto
di uscita dal reparto;
- che, peraltro, il suicidio non era prevedibile in quanto: a) ne' il
personale medico ne' quello infermieristico aveva "sentito dal malato
discorsi allarmanti e specifici"; b) il giorno 13 il BORELLO si
era limitato a scuotere le robuste sbarre della finestra (non aveva,
in altre parole, tentato di buttarsi anche perché l'intento sarebbe
stato irrealizzabile); c) negli ultimi giorni, vi era stato "qualche
miglioramento", "qualche attenuazione dei sintomi";
- che, inoltre, non era esigibile una condotta di vigilanza e di
custodia da parte dei medici perché il BORELLO era ricoverato "in
regime volontario".
1.3. In seguito all'impugnazione del Procuratore generale, del
Procuratore della Repubblica e della parte civile la Corte di appello
aveva ritenuto gli imputati responsabili dell'omicidio colposo. Dopo
aver ricordato che la sussistenza del rapporto di causalità tra
l'omessa sorveglianza ed il suicidio era stata riconosciuta anche dal
primo giudice, la Corte di merito, in relazione all'esigibilità di
una condotta di vigilanza da parte del medico nei confronti di un
paziente in regime di ricovero volontario, premetteva:
- che la fine del modello "custodialistico" non aveva fatto venire
meno l'esigenza di una "compresenza vigilante" da attuarsi
nell'ambito di un'alleanza terapeutica con il paziente "del quale è
doveroso cercare il consenso";
- che la L. 13 maggio 1978, n. 180 aveva segnato il passaggio ad un
sistema basato sulla cura, ma non aveva definito il contenuto del
relativo obbligo, lasciando che il medesimo fosse modellato sulle
concrete esigenze del paziente, senza escludere eventuali momenti di
custodia purché concordati;
- che, nella specie, il consenso del BORELLO esisteva ed era valido
(era stato manifestato sia con la richiesta di ricovero, sia con la
successiva accettazione del regime di divieti di uscita, salvo
specifiche autorizzazioni);
- che era provato che la libertà del BORELLO fosse stata
"ristretta", con il consenso suo e dei suoi familiari, più volte (e
senza effetti negativi sul suo stato psichico), sia in base alle
regole generali del reparto, sia in base a decisioni assunte, per lo
specifico caso, dalla equipe medica.
Da ciò derivava, secondo la Corte territoriale, che, contrariamente
a quanto affermato dalle difese degli imputati, il divieto di uscita
dal reparto o, comunque, l'autorizzazione all'uscita con
accompagnamento "non erano in astratto contrari al regime di ricovero
volontario". Occorreva chiedersi, pertanto, perché dette regole non
fossero state osservate anche il 17 marzo.
1.4. All'interrogativo la Corte d'appello rispondeva affermando la
Corte che la sorveglianza e l'accompagnamento del paziente fuori dal
reparto (e per tutta la durata dell'uscita) fossero condotte doverose
in considerazione:
- della gravita del quadro clinico: alcuni dati anamnestici, quali la
riforma dal servizio militare per patologia depressiva o la
"familiarità" della depressione (tentativo di suicidio del padre),
erano stati trattati con superficialità dagli imputati; dalla
cartella clinica non risultava alcuna evoluzione "verso un
superamento della sintomatologia depressiva"; la moglie del BORELLO
aveva dichiarato che il dottor DESANA le aveva riferito che il
marito necessitava di sorveglianza "ventiquattro ore su
ventiquattro";
- del tentativo di defenestramento del giorno 13 marzo:
l'infermiera Paola RIVERO aveva visto il BORELLO che, nervoso ed
arrabbiato, imprecava e si agitava, percuotendo le sbarre di
plexiglass della finestra della stanza di altro degente; la
dottoressa DE CARLI, pur tentando in dibattimento di
ridimensionarne la portata, aveva, nella cartella clinica, annotato
che il BORELLO aveva riferito "di provare impulsi autolesivi
improvvisi e da mettere in atto" ed infatti quel giorno i medici,
dopo essersi consultati, avevano concordato con il paziente il
divieto di uscire dal reparto, informando del medesimo il personale
infermieristico. Lo stesso BORELLO, inoltre, aveva riferito alla
moglie di avere fatto "una cosa brutta ... cercato di buttarsi dalla
finestra".
1.5. Era da escludere, pertanto, secondo la Corte, che il suicidio
fosse imprevedibile.
E non a caso i sanitari avevano "mutato rotta" dopo l'episodio del
13 marzo, decidendo di vietare al BORELLO l'uscita dal reparto,
di sottoporlo ad osservazioni e colloqui e, soprattutto, "di
aumentare il dosaggio dell'antidepressivo".
Soltanto nell'immediatezza dell'episodio del giorno 13, quindi, le
scelte degli imputati non erano state inadeguate.
Nei giorni successivi, invece, la vigilanza era stata
inspiegabilmente allentata e l'osservazione del paziente era stata
affidata all'evidenza di dati empirici (come il fatto che apparisse
tranquillo), neppure discussi con i familiari.
A fronte di tale messe di elementi - proseguiva la Corte - gli
imputati si erano difesi dall'addebito di omessa sorveglianza
affermando che il giorno del fatto non erano emersi elementi che
giustificassero controlli.
I consulenti tecnici del pubblico ministero e della parte civile
avevano, tuttavia, giustamente osservato che certi sintomi di
apparente benessere erano, durante il periodo di latenza della
terapia antidepressiva, inaffidabili.
I permessi di uscita dall'ospedale non si sottraevano alla regola
dell'accompagnamento, anche se attuata mediante delega ai familiari;
la stessa regola, pertanto, avrebbe dovuto essere applicata anche per
l'uscita dal reparto.
La mancata applicazione, nel giorno del tragico evento, andava
inquadrata nella più generale "situazione di errata sottovalutazione
e di negligenza".
Nessuna verifica era stata compiuta al rientro dal permesso del
sabato 16 luglio, anche perché i permessi del sabato e della
domenica erano già stati decisi il venerdì "nell'ottica di una
precipitosa dimissione" che ignorava le preoccupazioni esternate dai
familiari.
E anche in occasione della concessione dei permessi non vi era stata
adeguata comunicazione tra medici e familiari.
Il giorno 14 marzo, la moglie, dopo avere appreso che al marito,
nonostante quanto accaduto il giorno precedente, era stato concesso
un permesso di uscita, aveva manifestato la propria sorpresa, oltre
che la propria preoccupazione, alla dottoressa DONADIO che si era
limitata a risponderle: "vede, va a giorni".
Ma se "va a giorni" - osservava la Corte - era oltremodo doveroso
informarsi su come fosse "andato" il permesso.
Se la condotta degli imputati nella gestione del caso fosse stata
improntata all'osservanza della normativa in materia, segnatamente
delle disposizioni di cui al D.P.R. 10 novembre 1999 (di approvazione
del progetto di tutela della salute mentale per il biennio 1998 -
2000), i medici avrebbero potuto acquisire dai familiari importanti
informazioni sulla condizione del BORELLO e, di riflesso, attivare
una maggiore attenzione ed approntare le necessarie misure di
sorveglianza.
Se vi fosse stata comunicazione tra medici e familiari si sarebbe, in
particolare, appreso che il 16 marzo, in occasione dell'uscita con
la famiglia, il paziente aveva manifestato gli stessi sintomi del
momento del ricovero e ciò, durante il periodo di latenza della
terapia antidepressiva, andava interpretato come indice di un
aggravamento della patologia.
Ma così non era stato.
E questo spiega perché l'infermiera GALBIATI, quella mattina,
aveva aperto la porta per lasciare uscire il BORELLO.
Nessun medico le aveva detto nulla e si era, pertanto, basata sul
fatto che il giorno prima fosse stato concesso al paziente un
permesso di uscita.
1.6. La Corte di appello illustrava, poi, le ragioni poste alla base
della condanna di tutti gli imputati.
1.6.1. Quanto al DESANA, osservava che il medesimo si era
volontariamente assunto il compito di provvedere ai primi due
colloqui con il BORELLO e con la moglie ed all'impostazione della
terapia.
Aveva, inoltre, discusso con le colleghe del grave episodio del 13
marzo, approvando l'aumento della terapia farmacologica (ciò a
dimostrazione del fatto che l'episodio era stato comunque
interpretato come tentativo di defenestramento).
DESANA aveva, inoltre, lasciato che BORELLO fosse gestito
all'interno di un reparto: a) privo di presenza medica dalle ore 12
del sabato alle ore 8 della domenica; b) dove la domenica le riunioni
con gli infermieri "saltavano"; c) dove l'infermiera di guardia alla
porta di uscita non riceveva le necessarie istruzioni.
DESANA aveva, dunque, avuto un ruolo attivo nella gestione del
caso.
1.6.2. Con riguardo alle imputate, la Corte osservava che esse
avevano agito in equipe, compartecipando alle decisioni sul
trattamento del paziente.
Mai si erano manifestate contrapposizioni interne.
La loro attività era apparsa costellata da disattenzione ed incuria.
La dottoressa PESSOT avrebbe dovuto, il pomeriggio del giorno 13,
sottoporre ad osservazione il paziente, ma non lo aveva fatto,
affermando di avere avuto altre cose più urgenti da fare (salvo,
poi, non saper dire quali).
La dottoressa DONADIO aveva appreso, in occasione del primo
colloquio, numerosi dati sulla storia del paziente, ma non aveva
disposto approfondimenti, iniziative o quant'altro.
I dati anamnestici erano stati riportati nella cartella clinica, ma
anche gli altri componenti dell'equipe non ne avevano discusso (al
punto che DESANA aveva affermato di non esserne neppure stato
informato).
L'ultima riunione riguardante il BORELLO si era tenuta il venerdì
15 ma, a causa degli errori di valutazione del caso e di
comunicazione con i familiari, si era deciso di concedere permessi
"preventivamente autorizzati a prescindere dalla verifica del loro
esito".
2. Avverso l'anzidetta sentenza, hanno proposto ricorso per
cassazione gli imputati ed il responsabile civile, per mezzo dei
rispettivi difensori, chiedendone l'annullamento.
3. I difensori degli imputati DESANA e PESSOT deducono:
- violazione degli artt. 40, 43 e 589 c.p. (e delle correlate
disposizioni dell'art. 27 Cost. e della L. 13 maggio 1978, n. 180 e
L. 23 dicembre 1978, n. 833, nonché del D.P.R. 20 dicembre 1979, n.
761, art. 63);
- mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della
motivazione della sentenza impugnata, nonché travisamento della
prova risultanti dal testo del provvedimento impugnato e da altri
atti del processo.
3.1. La Corte, nel confermare la responsabilità degli imputati, non
avrebbe adeguatamente valutato gli elementi probatori e i contributi
scientifici acquisiti.
La motivazione della sentenza impugnata sarebbe, inoltre, del tutto
mancante con riferimento alla ritenuta attendibilità delle
dichiarazioni della parte civile.
In proposito, la difesa premette che i giudici di appello avrebbero
omesso di "smentire" quanto affermato dai consulenti di parte,
dottori Elvezio PIRFO e Renzo GOZZI, i quali avevano
concordemente osservato che la prevenzione o la predizione del
suicidio rappresenta "uno degli aspetti più difficili della clinica
e della ricerca, non essendosi ancora individuato un comportamento
suicidiario definito e deducibile".
In particolare, la Corte non aveva replicato all'osservazione
difensiva secondo cui il suicidio non è l'effetto di una condotta
attiva altrui che il paziente subisce, ma è il frutto di un
comportamento autonomo del paziente medesimo, il risultato di una
decisione immediata o della manifestazione di un intento che il
paziente cerca di occultare e che, come tale, a meno che non sia
concretamente prevedibile, rappresenta causa autonoma sopravvenuta a
norma dell'art. 41 c.p., comma 2.
I profili di imprevedibilità del suicidio e l'inesistenza di errori
inescusabili erano stati - osservano i ricorrenti - ampiamente
trattati dai consulenti tecnici della difesa ma non hanno trovato
alcuna "citazione in sentenza".
Non corrisponde, inoltre, al contenuto degli atti affermare che i
consulenti di parte non avevano frapposto obiezioni all'affermazione
secondo cui la terapia farmacologica aveva un tempo di latenza di
almeno quindici giorni, entro il quale l'osservazione avrebbe dovuto
essere compiuta in regime di totale e costante controllo custodiale.
Avevano, invero, i consulenti della difesa osservato che i farmaci
somministrati, cd. di terza e quarta generazione, pur avendo una
concreta efficacia in tempi rapidi, non erano caratterizzati da
"regole tempistiche certe".
3.2. La difesa osserva, poi, che la sentenza impugnata è priva di
motivazione in ordine alla prova della colpa, segnatamente della
"difformità" della condotta dei sanitari rispetto ai parametri di
diligenza, prudenza e perizia.
In campo psichiatrico, perché sia formulabile un giudizio di colpa,
non è sufficiente la prevedibilità dell'evento, ma è necessario
che sia superato "il limite del rischio consentito", tenendo conto
altresì del grado di difficoltà tecnico - scientifica e dei margini
di opinabilità che il caso presenta, oltre che della
riconoscibilità della situazione di pericolo.
Per provare la colpa occorreva rinvenire una regola che affermi che
ad un soggetto affetto da depressione non psicotica, con buona
consapevolezza di malattia e buona reazione al farmaco, non possa
essere riconosciuta, nell'ambito di una corretta relazione
terapeutica, alcuna autonomia e debba essere realizzata una
situazione di custodia e di vigilanza "coincidente con la negazione
di spazi di libertà e la presenza immancabile e prolungata di
personale di accompagnamento".
Ma una regola di questo genere non esiste.
E tutti gli specialisti hanno affermato che BORELLO "mostrava buona
coscienza di malattia, con chiara adesione alla terapia ed alle
regole, e consapevolezza critica ... in un contesto di miglioramento
delle condizioni" (anche se, in una occasione, aveva dichiarato di
avere provato impulsi autolesivi).
Detti enunciati annullano in radice - proseguono i ricorrenti - la
possibilità che un errore di valutazione "circa l'affidabilità del
paziente" possa essere definito gravemente colposo.
Nel contesto delineatosi, il permesso di uscire dal reparto senza
accompagnamento era una gesto terapeutico in concreto non trasmodante
il limite del rischio consentito.
La sentenza impugnata non offre "certe e coerenti argomentazioni a
smentita di detto assunto".
Si aggiunga che, a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 180 del
1978, non sussiste, in capo al medico psichiatra, una posizione di
garanzia in funzione neutralizzatrice del pericolo di atti
autolesionistici a meno che il paziente non sia nelle condizioni di
essere sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio per avere, in
quanto inconsapevole del proprio stato di malattia, rifiutato le
cure. I giudici di appello avevano scorporato dal tutto soltanto gli
elementi idonei a sostenere l'ipotesi accusatoria, trascurando di
considerare che BORELLO aveva manifestato, di regola, sentimenti
diversi da quelli di morte.
Così facendo la Corte di merito aveva fatto coincidere - conclude la
difesa sul punto - il parametro terapeutico con quello
custodialistico.
3.3. Ed anche a voler ritenere provata la contestata condotta
colposa, la sentenza impugnata - sostengono i ricorrenti - è priva
di motivazione in ordine alla prova del rapporto di causalità.
La Corte doveva chiedersi, e non lo aveva fatto, se fosse possibile
affermare che il BORELLO, ipotizzando la sospensione del permesso
di uscita dal reparto, non avrebbe comunque attuato il proposito
suicida con modalità diverse all'interno del reparto medesimo o "a
breve distanza di tempo".
3.4. I difensori dei ricorrenti trattano, poi, del "travisamento
della prova".
Non era vero che i sanitari non si fossero informati sulle condizioni
del BORELLO in occasione dei suoi rientri in ospedale successivi al
tempo trascorso all'esterno con i suoi familiari.
Le affermazioni evocanti l'assenza di comunicazione e di confronto
tra personale sanitario e familiari sarebbero del tutto infondate,
oltre che ispirate da una non attenta verifica dell'attendibilità
delle dichiarazioni della parte civile.
Sul punto la Corte aveva omesso di considerare che gli infermieri del
reparto avevano riferito che i colloqui con i parenti erano
frequenti.
Inoltre, le condizioni del paziente al rientro dei permessi erano
sempre state puntualmente osservate da medici ed infermieri.
La decisione impugnata, ignorando dette testimonianze, aveva
tratteggiato un'inesistente situazione di isolamento del BORELLO.
In realtà, le testimonianze delle infermiere GALBIATI e LECCA
dimostravano che le stesse avevano valutato la situazione, prima di
aprire al BORELLO la porta del reparto, ritenendo che "potesse
scendere".
Si trattava, tra l'altro, di personale specificamente formato ed
esperto.
Riportando, poi, le dichiarazioni della moglie della vittima, la
Corte aveva omesso di considerare che durante l'uscita del giorno
precedente, BORELLO aveva mantenuto un atteggiamento sereno,
affettuoso e giocoso con il figlio, progettando una vacanza
all'estero per le imminenti vacanze pasquali.
3.5. La sentenza si presta a censure - secondo i ricorrenti - anche
nella parte in cui ha, in modo manifestamente illogico, ritenuto
sussistente la prova di un tentativo di suicidio nell'episodio
verificatosi il giorno 13.
Anche il geometra BRUTTO, responsabile dell'ufficio tecnico
dell'ospedale, aveva confermato l'assoluta implausibilità
dell'ipotesi del defenestramento, date le caratteristiche delle
sbarre che presidiavano la finestra.
Tutti gli infermieri, oltre agli imputati, avevano in dibattimento
confermato che il BORELLO, nell'occasione, avesse escluso
intenzioni suicide.
La Corte di merito aveva, invece, ritenuto il contrario, enfatizzando
il significato di quel gesto attraverso un'acritica valorizzazione
delle dichiarazioni della moglie ed una "reificazione" di quanto
annotato dalla dottoressa DE CARLI nella cartella clinica.
3.6. Da ultimo, i ricorrenti si soffermano sul principio di
affidamento. La sentenza sarebbe priva di motivazione in ordine alle
affermazioni dell'imputato DESANA di avere egli confidato che
ciascuno si comportasse adottando le regole precauzionali del caso.
Illogicamente la Corte di merito avrebbe sostenuto che DESANA si
fosse volontariamente assunto un compito attivo nella gestione del
caso, benché il suo ruolo non gli imponesse un obbligo di presenza
quotidiana in ospedale.
Non avevano i giudici di appello considerato che mai, dal momento del
ricovero a quello del fatto, DESANA aveva visitato e neppure
incontrato il BORELLO, il quale era stato affidato ad una struttura
competente e collaudata, gestita da operatori medici di provata
formazione specifica e professionalità, organizzata secondo principi
ispirati alla cura ed all'osservazione del paziente.
In una sola occasione DESANA aveva partecipato ad una riunione di
equipe e mai la moglie del BORELLO si era rivolta a lui con
richieste di alcun genere o anche soltanto per riferire qualcosa.
Mai, inoltre, era stato interpellato dai medici del reparto,
dirigenti di primo livello (soltanto una volta era stato da loro
succintamente informato del decorso).
Mai, infine, aveva interferito nei momenti decisionali relativi ai
permessi esterni o alle autorizzazioni ad uscire dal reparto.
Il rispetto dell'altrui autonomia imponeva un ridimensionamento della
posizione di garanzia del DESANA.
Egli era tenuto a rappresentarsi l'errore diagnostico e clinico del
sanitario sottordinato soltanto qualora esso fosse stato estraneo
alla sfera di autonomia di quest'ultimo e qualora questi non si fosse
attenuto alle istruzioni e direttive impartitegli.
Non può sussistere violazione di regole cautelari nella condotta di
un soggetto in posizione apicale quando la metodica per affrontare un
problema o una situazione sia prevista, strutturata e condivisa nel
gruppo di lavoro, quando la formazione specialistica degli operatori
sia garantita e quando la circolarità delle informazioni sia stata
costantemente attuata.
Risulta, infine, illogica la motivazione della sentenza impugnata là
dove pretende, come comportamento doveroso del DESANA, un "divieto
aprioristico perdurante un tempo indefinito".
Argomentazione che vale anche per la dottoressa PESSOT che era
rimasta assente da venerdì 15 alla domenica 17 luglio e aveva,
nei giorni precedenti, diligentemente svolto la propria attività.
4. Il difensore delle imputate DI FRANCO, DONADIO, DE CARLI e
PESSOT articola due motivi.
4.1. Con il primo motivo il difensore deduce violazione della L. 13
maggio 1978, n. 180 e degli artt. 40 e 43 c.p..
Rileva, anzi tutto, che il suicidio era imprevedibile, dati gli
evidenti segni di miglioramento del BORELLO che bene accettava le
cure prestategli.
Il primo tentativo di defenestramento altro non era, in realtà, se
non la mera conseguenza di uno "scatto di ansia e di timore".
BORELLO era stato sempre adeguatamente curato; si era, inoltre,
sempre proceduto a ricoverarlo quando ne aveva fatto richiesta.
Non era, inoltre, destinatario di alcun trattamento sanitario
obbligatorio.
4.2. Con il secondo motivo il difensore lamenta la manifesta
illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla
ritenuta sussistenza del rapporto di causalità tra la condotta delle
imputate e l'evento.
La condotta delle imputate si era rivelata sempre conforme alle leggi
ed ai regolamenti sanitari.
I giudici di appello avevano, inoltre, affermato, per dimostrare la
sussistenza del rapporto di causalità, che l'uscita dal reparto
avrebbe aumentato il rischio suicidiario.
Avevano, però, in tal modo applicato la formula, ripudiata dal
sistema penale, dell'aumento o della mancata diminuzione delle
chances di salvezza.
La sentenza impugnata - conclude il difensore - non ha dimostrato,
quindi, che l'azione doverosa omessa avrebbe scongiurato il
verificarsi dell'evento lesivo.
5. Il difensore del responsabile civile prospetta due motivi.
5.1. Con il primo motivo deduce l'erronea applicazione della L. 13
maggio 1978, n. 180.
Sostiene che, qualora il soggetto, in stato di grave alterazione
psichica, accetti di sottoporsi ad un trattamento volontario, non è
suscettibile di coercizione, ne' è esigibile un dovere, da parte del
medico, di vigilanza e custodia nei suoi confronti.
5.2. Con il secondo motivo lamenta violazione dell'art. 40 c.p.,
nonché "contraddittorietà ed illogicità" della motivazione della
sentenza impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza del rapporto
di causalità. Precisa che, come affermato dal consulente tecnico
dott. Elvezio PIRFO, il suicidio non era prevedibile, ne'
prevenibile, tenuto conto che non vi poteva essere "vigilanza 24 ore
al giorno".
Sussiste pertanto - conclude il ricorrente - il ragionevole dubbio,
in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante
della condotta omissiva rispetto agli altri fattori interagenti nella
produzione dell'evento lesivo, segnatamente l'iniziativa suicida del
BORELLO.
MOTIVI DELLA DECISIONE
6. I ricorsi, che vanno congiuntamente trattati essendo accomunati
dalla critica alle affermazioni di responsabilità, non possono
trovare accoglimento.
7. La sentenza impugnata è, invero, come più avanti si ribadirà,
caratterizzata da un adeguato e convincente apparato argomentativo
sulle questioni di interesse ai fini del giudizio di responsabilità
e non è inficiata dalle denunciate violazioni di legge (in
particolare in tema di colpa e di rapporto di causalità).
7.1. Va ricordato, in via di premessa, che oggetto del controllo da
parte della Corte di cassazione è soltanto la motivazione risultante
dal testo del provvedimento impugnato, vale a dire il ragionamento
probatorio che giustifica il giudizio sui fatti.
La Corte deve limitarsi a verificare, analizzando il testo del
provvedimento impugnato, la coerenza dell'argomentazione, la corretta
applicazione delle regole che presiedono alla valutazione delle
risultanze probatorie e dei precetti della logica, controllando che
il giudice del merito abbia dato esaustiva risposta ai motivi,
specificamente prospettati, che non siano manifestamente infondati e
che esprimano (quanto a rilevanza probatoria) decisività.
E soltanto in caso di manifesta (cioè evidente, immediatamente
percepibile, macroscopica) contraddittorietà o illogicità la
motivazione, quindi la decisione, può essere cassata.
È pur vero che, a seguito delle modificazioni apportate all'art. 606
c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, il vizio
di motivazione rilevante può ora risultare, oltre che dal testo del
provvedimento impugnato, anche "da altri atti del processo", purché
siano "specificamente indicati nei motivi di gravame"; che, in altre
parole, all'illogicità intrinseca della motivazione (cui era
equiparabile la contraddittorietà logica tra argomenti della
motivazione), caratterizzata dal limite della rilevabilità testuale,
si è affiancata la contraddittorietà tra la motivazione e l'atto a
contenuto probatorio.
L'informazione "travisata" (la sua esistenza - inesistenza) o non
considerata deve, peraltro, essere tale da inficiare la struttura
logica del provvedimento stesso.
Inoltre, la nuova disposizione impone, ai fini della deduzione del
vizio di motivazione, che l'"atto del processo" sia "specificamente
indicato nei motivi di gravame".
Sul ricorrente, dunque, grava, oltre all'onere di formulare motivi di
impugnazione specifici, anche quello di individuare ed indicare gli
atti processuali che intende far valere (e di specificare le ragioni
per le quali tali atti, se correttamente valutati, avrebbero dato
luogo ad una diversa pronuncia decisoria), onere da assolvere nelle
forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in
considerazione.
Resta, comunque, sempre esclusa, la possibilità di una nuova
valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella
effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia
pure anch'essa logica, dei dati processuali o una diversa
ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o
attendibilità delle fonti di prova.
Un motivo che riproponga in sostanza una rilettura delle fonti nel
senso anzidetto non è consentito dalla legge ed è, pertanto,
inammissibile ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 3.
7.2. Nel caso in esame, si risolvono in una non ammessa rilettura
delle fonti di prova i profili degli articolati motivi (del ricorso
presentato nell'interesse degli imputati DESANA e PESSOT)
descritti ai precedenti punti 3.4 e 3.5.
In proposito la Corte di merito ha spiegato, con estrema chiarezza,
interpretandone la deposizione, che l'infermiera GALBIATI, l'ultima
persona ad avere visto vivo il povero Giuseppe BORELLO, non era
stata informata del fatto che il medesimo, per esplicito divieto, non
avrebbe potuto uscire dal reparto se non accompagnato.
La circostanza era - secondo i giudici di appello - sintomatica del
fatto che gli imputati, nonostante avessero percepito ed elaborato i
segnali di allarme scaturiti dall'episodio del precedente giorno
13, non avevano previsto ed organizzato un adeguato sistema di
osservazione e di vigilanza.
Non vi è stato, dunque, da parte della Corte di appello alcun
travisamento dei dati probatori, segnatamente di quelli, rilevanti
nel caso di specie, riferibili al periodo successivo all'episodio del
giorno 13.
Nè, d'altra parte, la difesa dei ricorrenti specifica quali
sarebbero gli altri atti del processo dotati di forza esplicativa o
dimostrativa, tale da disarticolare il ragionamento svolto dalla
Corte di appello in relazione alle dichiarazioni rese dalla
GALBIATI.
Quanto, poi, al sopra citato episodio (la cui valutazione è oggetto
di critiche anche nell'ambito del secondo motivo del ricorso
presentato nell'interesse delle altre imputate: v. supra 4.1), la
Corte aveva desunto trattarsi di allarmante gesto autolesivo sia dal
referto della Dott.ssa DE CARLI, sia da quanto BORELLO stesso
aveva riferito ai sanitari presenti, oltre che, naturalmente, dalle
determinazioni mediche ed organizzative immediatamente assunte e che
segnavano un mutamento di rotta (caratterizzato, in particolare,
dall'aumento del dosaggio del farmaco antidepressivo e
dall'incremento della vigilanza) rispetto al precedente atteggiamento
(v. supra 1.4 e 1.5).
Ed appare di tutta evidenza come non sia rilevante se quell'impulso
autolesivo avrebbe potuto in concreto, in quello specifico contesto,
tradursi in un effettivo defenestramento; ciò che rileva è il gesto
nel suo intrinseco significato e nel valore al medesimo attribuito,
in relazione alle condizioni del paziente, dagli stessi sanitari. Va
detto, infine, per concludere sul punto, che la Corte di merito
stigmatizza le carenze di informazione e di comunicazione soprattutto
con riguardo ai periodi successivi al menzionato episodio, proprio
perché lo stesso avrebbe dovuto giustificare un irrigidimento, non
un allentamento, della sorveglianza.
In tal senso, ed in tale contesto, le critiche rivolte alla Corte con
riguardo alla valutazione delle dichiarazioni rese dalla moglie del
BORELLO si rilevano non pertinenti, oltre che non decisive, perché
gli elementi dimostrativi delle carenze evidenziate erano aliunde
desumibili.
7.3. Come si è accennato, la struttura logica e giuridica della
motivazione della sentenza impugnata è immune dai vizi prospettati
dai ricorrenti; è, infatti, aderente al quadro probatorio ricavato
dalle già citate dichiarazioni testimoniali e coerente nella
valutazione degli elementi desunti dalla documentazione ospedaliera,
segnatamente dalla scheda anamnestica, dal diario dei giorni di
ricovero e dai dati relativi all'evoluzione della terapia
farmacologica (soprattutto successivamente all'episodio verificatosi
il 13 marzo 2002).
La condanna presuppone che nel caso concreto sussistano tutti gli
estremi, oggettivi e soggettivi, della fattispecie, in particolare la
titolarità della posizione di garanzia in capo ai medici, la
prevedibilità in concreto dell'evento-morte (suicidio) non impedito
ed il rapporto di causalità tra la condotta colposa addebitata e
l'evento. Come si è visto, la sentenza impugnata affronta tutti
questi temi e ritiene dovuto ed esigibile un regime di vigilanza,
sebbene il BORELLO fosse in ricovero volontario (v. supra 1.3 e
1.4), afferma la prevedibilità del suicidio (v. 1.5) e la sua
evitabilità attraverso il comportamento alternativo lecito
(richiamandosi alla sentenza di primo grado: v. 1.2 e 1.3) e spiega
perché il fatto colposo sia da attribuirsi congiuntamente agli
imputati (v. 1.6).
7.4. Le difese degli imputati DESANA e PESSOT (v. supra 3.2) e
del responsabile civile (v. 5.1) hanno sostenuto che, a seguito
dell'entrata in vigore della L. n. 180 del 1978, non sussisterebbe,
in capo al medico psichiatra, una posizione di garanzia in funzione
neutralizzatrice del pericolo di atti autolesionistici, a meno che il
paziente non sia nelle condizioni di essere sottoposto a trattamento
sanitario obbligatorio in quanto, inconsapevole del proprio stato di
malattia, rifiuti le cure.
L'affermazione non può essere condivisa.
7.4.1. La L. n. 180 ha - come giustamente affermato dalla Corte di
merito (v. supra 1.3) - sancito la fine del modello custodiale e
segnato il passaggio, in una logica volontaristica, ad un sistema di
cura fondato sulle concrete esigenze del paziente e sul suo consenso.
E così, invero, gli imputati avevano impostato il rapporto
terapeutico con il BORELLO per giungere ad introdurre, per le sue
concrete esigenze di cura, momenti di custodia concordati (non può,
nel caso di specie, mettersi in dubbio che il paziente avesse
coscientemente accettato il regime di divieti di uscita, salvo
specifiche autorizzazioni), come tali non contrari al regime di
ricovero volontario.
In tal modo impostato il rapporto terapeutico in regime consensuale
di custodia - vigilanza temporanea (riferita al periodo necessario
perché la terapia farmacologica producesse risultati apprezzabili),
medici e personale ausiliario erano, dunque, onerati di una posizione
di garanzia a contenuto terapeutico e, in particolare, erano tenuti a
fare quanto in loro potere per evitare che la malattia degenerasse
nel compimento di atti autolesivi.
7.4.2. Anche fuori dalle ipotesi di ricovero coatto lo psichiatra è
titolare di una posizione di garanzia, sullo stesso gravando doveri
di protezione e di sorveglianza del paziente in relazione al pericolo
di condotte autolesive (e, naturalmente, eterolesive).
In applicazione dei consueti canoni in tema di responsabilità
medica, il paziente che si trovi ricoverato in un reparto
psichiatrico deve essere correttamente curato.
In altre parole, lo psichiatra, al pari di qualsiasi altro medico
curante, ha l'obbligo giuridico di curare la malattia mentale nel
miglior modo possibile, con tutti gli strumenti che ordinamento e
scienza pongono a sua disposizione.
Detto obbligo ha in sè quello di salvare il paziente dal rischio di
condotte autolesive, dovendo ritenersi che le stesse rappresentino
un'estrinsecazione, quando non una conseguenza, della patologia che
lo affligge.
Ciò che l'ordinamento richiede allo psichiatra è di contrastare il
rischio di condotte siffatte, attivandosi con gli strumenti
terapeutici di cui può disporre.
E se lo psichiatra ha in cura una persona che presenti un concreto
pericolo di suicidio, la posizione di garanzia comporta l'obbligo di
apprestare cautele specifiche (così, ad esempio, nel caso di
ricovero volontario, invitare il personale infermieristico alla
massima sorveglianza; prevedere, nel caso in cui il paziente intenda
uscire dalla struttura, che lo accompagnino persone qualificate ed
informate).
7.5. Una volta stabilito, comunque, che un regime di vigilanza è
compatibile con il ricovero volontario e che esso, in una prospettiva
di alleanza terapeutica con il paziente, può diventare dovuto ed
esigibile, il problema in concreto si sposta sulla verifica delle
cognizioni (per valutare la gravità della situazione) e dei mezzi a
disposizione dei garanti.
L'analisi compiuta sul punto dalla Corte territoriale è
particolarmente incisiva, sia là dove riferisce della
sottovalutazione dei dati anamnestici (valutazione che la difesa dei
ricorrenti neppure contesta), sia, soprattutto, nella parte in cui
valuta il più volte citato episodio del 13 marzo ed il tipo di
intervento approntato, nell'immediatezza, dai sanitari (v. supra
1.4).
7.6. Con specifico riferimento alla colpa ipotizzata, la sentenza è
- come si è visto (1.5) - congruamente motivata in relazione a tutti
i profili di interesse, segnatamente in ordine alla prevedibilità ed
evitabilità del suicidio, nonché all'esigibilità in concreto da
parte dei sanitari di condotte idonee a prevenire l'evento.
Le censure formulate dai ricorrenti (DESANA e PESSOT nei motivi
descritti ai punti 3.1 e 3.2; le altre imputate nei motivi di cui ai
punti 4.1 e 4.2) non riescono a scalfire la congruenza del discorso
giustificativo che sorregge il convincimento, tanto più che si
risolvono (almeno in gran parte) in un'interpretazione alternativa
degli elementi probatori che oltrepassa i limiti del sindacato logico
della motivazione. Le doglianze prendono, invero, le mosse da
circostanze di fatto indimostrate (che il BORELLO fosse affetto da
depressione non psicotica; che le sue condizioni fossero in
miglioramento; che l'autorizzazione ad uscire dal reparto non
"trasmodasse il rischio consentito") e sviluppano considerazioni
inconsistenti (come quelle secondo cui la Corte di appello non
avrebbe preso in considerazione le affermazioni dei consulenti
tecnici di parte).
La Corte di appello ha dato, per contro, adeguatamente risalto alla
circostanza che il BORELLO fosse soggetto ad alto rischio
suicidiario, in considerazione della natura della malattia
diagnosticata, dei dati anamnestici, dell'episodio del 13 marzo.
Tale concreto pericolo imponeva, dunque, l'apprestamento di adeguati
presidi cautelari (il divieto di uscita, senza accompagnamento, dal
reparto) e l'affidamento dell'osservanza dei medesimi ad un personale
debitamente informato.
Giusto affermare, pertanto, che la condotta tenuta dagli imputati era
in contrasto con il modello di condotta imposto dalla regola di
diligenza (quella che, nelle stesse circostanze concrete, avrebbe
tenuto l'homo eiusdem condicionis et professionis), il cui rispetto
era necessario per evitare la prevedibile realizzazione di gesti
autolesivi.
L'apprezzamento da parte della Corte di tali situazioni fattuali è
costruito in termini logici, fa richiamo a congrue massime di
esperienza e non può, pertanto, essere sindacato in questa sede.
7.7. I ricorrenti (per DESANA e PESSOT v. punto 3.3, per le altre
imputate v. 4.2 e per il responsabile civile v. 5.2) sostengono, pur
svolgendo considerazioni parzialmente diverse, che la decisione
impugnata sarebbe mancante di motivazione (o la stessa sarebbe
manifestamente illogica) in ordine alla sussistenza del rapporto di
causalità tra condotta (l'omissione di vigilanza e, in particolare,
l'omessa previsione e comunicazione del divieto di uscita del
BORELLO, se non accompagnato, dal reparto) ed evento.
La corte si è richiamata sul punto alle considerazioni svolte dal
giudice di primo grado (v. supra 1.2 e 1.3).
Non risulta, peraltro, che i ricorrenti, per quanto carenti di
interesse all'appello, abbiano prospettato al giudice di tale grado,
mediante memorie, atti, dichiarazioni verbalizzate, l'avvenuta
acquisizione dibattimentale di altri e diversi elementi probatori,
favorevoli e nel contempo decisivi, pretermessi dal giudice di primo
grado nell'economia di quel giudizio (cfr. Cass. S.U. 30 ottobre
2003, Andreotti, RV 226093). Le doglianze sono, in ogni caso,
inammissibili perché il richiamato giudizio di sussistenza del
rapporto di causalità posto alla base della decisione di condanna
non è, nel caso di specie, sindacabile, avendo il giudicante fornito
una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una
considerazione fattuale incontrovertibile: l'autorizzazione
all'uscita dal reparto aveva rappresentato la premessa
imprescindibile per la realizzazione delle condizioni che avevano
reso possibile il gesto suicidario.
Se, dunque, gli imputati avessero tenuto il comportamento alternativo
lecito (si fossero, in altre parole, comportati in maniera osservante
della regola cautelare) l'evento non si sarebbe verificato. In altre
parole, il comportamento alternativo corretto (imporre, e comunicare
al personale infermieristico in servizio, il divieto di uscire dal
reparto senza accompagnamento) sarebbe stato in concreto idoneo ad
evitare l'evento dannoso.
Si aggiunga che l'evento ha rappresentato proprio la concretizzazione
del rischio che la regola stessa (il divieto, durante il periodo di
latenza della terapia farmacologica, di uscire dal reparto senza
accompagnamento) mirava a prevenire.
Nè vi era ragione di chiedersi - come sostengono i ricorrenti - se
l'evento (suicidio) si sarebbe verificato anche qualora gli imputati
avessero tenuto la condotta doverosa.
Come le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 10 luglio 2002,
Franzese) hanno avuto modo di precisare, il rapporto di causalità
tra la condotta omissiva e l'evento va accertato alla stregua del cd.
giudizio controfattuale che deve rispondere al quesito, mediante un
enunciato esplicativo "coperto" dal sapere scientifico del tempo, se,
mentalmente eliminato "il mancato compimento dell'azione doverosa, il
singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non,
venuto meno.
7.8. Sostiene la difesa che illogicamente la Corte di merito aveva
affermato che DESANA si fosse volontariamente assunto un compito
attivo nella gestione del caso.
La doglianza è manifestamente infondata, oltre che genericamente
formulata.
Era risultato, invero, che proprio il DESANA avesse condotto i
primi due colloqui con il BORELLO e con la moglie, procedendo
all'impostazione della terapia.
Altro dato rilevante era che l'imputato avesse discusso con le
colleghe dell'episodio del 13 marzo, approvando l'aumento della
terapia farmacologica (il che confermava che l'episodio era stato
interpretato come gesto di particolare gravita determinato da un
impulso autolesivo).
Anche al DESANA dovevano, pertanto, attribuirsi le gravi negligenze
che avevano contrassegnato il periodo successivo e, in particolare,
le circostanze riferibili al sabato ed alla domenica (assenza di
medici in reparto dalle ore 12 del sabato alle ore 8 della domenica;
mancanza della prevista riunione medici - infermieri; mancanza di
istruzioni all'infermiera di guardia alla porta di uscita).
Irrilevante appare, dunque, il richiamo, contenuto in ricorso, al
principio di affidamento.
Ugualmente inconsistenti sono le doglianze prospettate nell'interesse
della Dottoressa PESSOT, essendosi accertato che la stessa avrebbe
dovuto, il pomeriggio del giorno 13, sottoporre ad osservazione il
paziente, ma non lo aveva fatto, affermando di avere avuto altre cose
più urgenti (salvo, poi, non saper dire quali).
8. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti in
solido al pagamento delle spese processuali.
I ricorrenti vanno, inoltre, condannati alla rifusione in solido
delle spese in favore della parte civile che si liquidano in
complessivi Euro 5.000,00 (cinquemila), oltre accessori come per
legge.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento
delle spese processuali, oltre alla rifusione in solido delle spese
sostenute dalla parte civile nel presente giudizio che liquida in
complessivi Euro 5.000,00, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 27 novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2008