Sez. 4,
Sentenza
n. 10795
del 2008
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. MARINI Lionello - Presidente - del 14/11/2007
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere - SENTENZA
Dott. ZECCA Gaetanino - Consigliere - N. 1673
Dott. LICARI Carlo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere - N. 25585/2007
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
POZZI EURO, nato a Bologna il 28 marzo 1952;
avverso la sentenza in data 12 gennaio 2007 della Corte d'Appello di
Bologna;
Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr.
Brusco;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. SALZANO Francesco,
che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Uditi i difensori delle parti civili avv.ti IASONNI Massimo e MORACE
Domenico che hanno concluso per il rigetto del ricorso;
Uditi, per l'imputato, gli avv.ti GIAMPAOLO Giuseppe e MAGNISI Guido
i quali hanno concluso per l'accoglimento del ricorso.
La Corte:
OSSERVA
1) La sentenza di primo grado. Il Giudice dell'udienza preliminare
presso il Tribunale di Bologna, con sentenza 25 novembre 2005, ha
condannato POZZI EURO, all'esito del giudizio abbreviato, alla pena
ritenuta di giustizia (con le conseguenti statuizioni civili a favore
della parti civili) per il delitto di omicidio colposo in danno di
CARDELLI ATEO commesso in Imola il 24 maggio 2000. Il processo
trae origine da una tragica vicenda verificatasi, il giorno indicato,
all'interno della comunità "Albatros", sita in Imola, nella
quale era ricoverato un paziente psicotico, MUSIANI GIOVANNI, che
il giorno indicato aveva aggredito con un coltello CARDELLI -
educatore che prestava servizio presso la comunità - cagionandone la
morte.
Al dott. POZZI, medico psichiatra che svolgeva la sua attività
terapeutica presso la comunità, era stato addebitato di aver omesso
di valutare adeguatamente i sintomi di aggressività manifestati da
MUSIANI (anche specifici nei confronti di CARDELLI), di aver
ridotto - e poi sospeso - la somministrazione di una terapia
farmacologica di tipo neurolettico in modo tale da renderla inidonea
a contenere la pericolosità del paziente e di aver omesso di
richiedere il trattamento sanitario obbligatorio in presenza di
sintomi che rendevano necessaria tale iniziativa.
In particolare il primo giudice ha ritenuto che la condotta del
medico fosse caratterizzata da colpa per avere prima ridotto e poi
sospeso la somministrazione del farmaco (Moditen) di tipo Mepot" che
gli veniva somministrato senza un'adeguata anamnesi e senza una
corretta valutazione della situazione di recrudescenza dei sintomi di
aggressività che caratterizzavano il paziente; per non aver
commisurato la quantità e qualità delle visite alla situazione e
non aver accompagnato la riduzione della terapia con misure di
supporto; per aver omesso di richiedere il t.s.o..
Ha ritenuto inoltre che queste condotte colpose si ponessero in
rapporto di causalità con l'evento verificatosi; in particolare la
modifica del trattamento farmacologico aveva comportato un
aggravamento della patologia e una recrudescenza dell'aggressività
del paziente.
2) La sentenza d'appello. La Corte d'Appello di Bologna, con sentenza
12 gennaio 2007, ha confermato la sentenza di primo grado. Dopo aver
respinto la richiesta di acquisizione di una consulenza tecnica
d'ufficio svolta in un giudizio civile e ritenuto inutilizzabile un
parere pro veritate di cui la difesa aveva chiesto l'acquisizione la
Corte ha ripercorso i fatti che hanno dato luogo al presente processo
condividendo le valutazioni del primo giudice sulla natura colposa
della condotta dell'imputato per avere, il dott. POZZI, prima
ridotto e poi sospeso la terapia farmacologica che assumeva.
In particolare i giudici di secondo grado hanno condiviso il parere
dei periti nominati dal primo giudice i quali avevano rilevato che le
linee guida internazionali prevedono la riduzione della terapia solo
dopo cinque anni di mancanza di episodi psicotici.
Questi episodi si erano invece verificati in tempi recenti tanto che
il precedente primario, dott. VINCI, aveva raccomandato che non
venisse ridotta la terapia somministrata a MUSIANI.
Inoltre la riduzione era avvenuta in modo non conforme alle
prescrizioni delle linee guida conducendo così il paziente ad uno
scompenso conclamato come risultava da vari episodi: il paziente, in
più occasioni, aveva lamentato la sparizione del suo danaro in
banca, aveva manifestato il timore di essere avvelenato, aveva
affermato che il suo medico era morto, circostanza non vera); a
questo scompenso è stato ritenuto causalmente ricollegata la crisi
che aveva condotto all'aggressione dell'educatore da parte del
paziente.
In conclusione la Corte ha ritenuto che qualora, a scompenso
conclamato, il dott. POZZI avesse adottato adeguate misure
terapeutiche di pronta efficacia non vi sarebbe stata l'aggressione
nei confronti della persona offesa. Inoltre la Corte ha ritenuto che,
oltre a queste condotte di natura commissiva, ve ne fosse una di tipo
omissivo, in rapporto di causalità con l'evento, costituita
dall'omessa richiesta del t.s.o. in una situazione che rendeva
necessaria la richiesta medesima sia per l'esistenza di una
situazione di scompenso che per il rifiuto del paziente di assumere
la terapia iniettiva.
La Corte di merito ha concluso ribadendo gli elementi di colpa già
ricordati ed inoltre precisando, ad ulteriore conferma
dell'inadeguatezza della terapia, che il dott. POZZI, quando si era
reso conto della modifica peggiorativa della situazione patologica,
aveva introdotto nella terapia un farmaco antipsicotico di pronto
effetto ma in dose inadeguata rispetto alla gravità della
situazione.
3) I motivi di ricorso. Contro la sentenza della Corte bolognese
(nonché contro l'ordinanza 12 gennaio 2007 che ha rigettato le
richieste di cui ai primi due motivi di ricorso di cui infra) ha
proposto ricorso POZZI EURO il quale ha dedotto i seguenti motivi
d'impugnazione.
a) Con il primo motivo si deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. d) ed e), con riferimento alla mancata acquisizione di
una consulenza tecnica d'ufficio disposta nell'ambito del giudizio
civile avente il medesimo oggetto e come parti gli eredi di
CARDELLI, la coop. Albatros e l'AUSL di Imola. La richiesta è
stata respinta dalla Corte di merito che non ha però considerato che
si trattava in realtà di un rito "riaperto" d'ufficio perché il
giudice, dopo aver disposto l'integrazione probatoria prevista
dall'art. 438 c.p.p., comma 5, aveva poi d'ufficio disposto una
perizia.
Da ciò conseguiva, secondo il ricorrente, che doveva ritenersi
riaperta anche per le parti la possibilità di acquisire elementi di
prova necessari per il giudizio e ciò aveva formato oggetto di un
motivo d'appello. I giudici di secondo grado, respingendo la
richiesta ritenendola preclusa perché si era proceduto con il rito
abbreviato, non hanno considerato che il rito abbreviato ha perso le
caratteristiche originarie di processo allo stato degli atti e ciò
ha reso applicabile a tale rito l'intera disciplina prevista
dall'art. 603 c.p.p. ed in particolare le disposizioni previste dal
comma 2 nel caso di prove nuove sopravvenute dopo il giudizio di
primo grado.
La Corte di merito non avrebbe inoltre tenuto conto della circostanza
che il giudizio abbreviato era stato dall'imputato subordinato
all'integrazione probatoria; il che, secondo la giurisprudenza di
legittimità, consente la rinnovazione dell'istruzione in appello e
comunque non può escludere il diritto alla controprova a favore
dell'imputato anche nel giudizio di appello verificandosi, in caso
contrario, una grave lesione del diritto di difesa.
In ogni caso, secondo il ricorrente, è sempre consentito alla parte
di sollecitare al giudice d'appello l'esercizio dei poteri officiosi
ai sensi dell'art. 603 c.p.p. e la mancanza di motivazione sul
diniego di esercitare questi poteri è censurabile in Cassazione. Per
di più, secondo il ricorrente, la natura documentale del documento
di cui si era chiesta l'acquisizione non richiedeva neppure la
riapertura dell'istruzione dibattimentale per il combinato disposto
dell'art. 441 c.p.p., comma 1 e art. 421 c.p.p., comma 3.
b) Con il secondo motivo di ricorso si deduce il vizio di motivazione
e la violazione dell'art. 121 c.p.p., per il diniego di acquisire al
fascicolo un parere pro veritate espresso da un esperto in materia
psichiatrica che la Corte ha ritenuto non potersi acquisire
considerandola una consulenza tecnica di parte proveniente da persona
che non rivestiva la qualità di consulente tecnico.
Al di là della correttezza delle ragioni indicate dalla Corte nel
ricorso si sottolinea che i difensori - che avevano firmato il parere
- avevano chiesto espressamente che l'elaborato venisse considerato
come memoria difensiva e a questa richiesta la Corte non ha fornito
alcuna risposta.
c) Con il terzo motivo di ricorso si censura invece la sentenza
impugnata per aver affermato che esisteva un obbligo giuridico, per
il dott. POZZI, di richiedere il trattamento sanitario obbligatorio
nei confronti del paziente MUSIANI GIOVANNI.
Il ricorrente precisa al contrario che il t.s.o. può essere
richiesto solo in presenza di tre presupposti: alterazioni psichiche
tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; mancata
accettazione di tali interventi da parte dell'infermo; impossibilità
di adottare idonee misure sanitarie extraospedaliere. La proposta
deve essere convalidata da un medico psichiatra e ulteriormente
convalidata dal sindaco. Infine il giudice tutelare nelle 48 ore
successive deve verificare la correttezza del provvedimento e
decidere se confermarlo o farlo decadere.
Dall'esame di questa complessa procedura consegue, secondo il
ricorrente, che la procedura è finalizzata alla tutela del paziente
e quindi sarebbe contrario a queste finalità far prevalere le
esigenze di tutela della collettività rispetto al principio della
libertà di cura.
Nel caso di specie il dott. POZZI si è attenuto a questi principi
perché, nella visita del 18 maggio (l'omicidio è avvenuto il 24
maggio), avendo constatato il peggioramento delle condizioni del
paziente, aveva ripristinato il trattamento farmacologico in
precedenza ridotto e poi sospeso e, a fronte del rifiuto della cura
da parte del paziente, aveva raggiunto un accordo con il medesimo
perché l'iniezione venisse effettuata dal medico di base. Cosa che
era effettivamente avvenuta.
In definitiva: con l'assunzione volontaria della cura era venuto meno
il presupposto del rifiuto della cura. In ogni caso l'eventuale
obbligo di richiedere il t.s.o. sarebbe spettato al medico che aveva
visitato per ultimo il paziente, cioè la dott. D'ANGELO, medico di
base che aveva somministrato la terapia il 19 maggio.
D'altro canto la comunità Albatros era attrezzata per la
sorveglianza e l'osservazione dei pazienti avendo a sua disposizione
educatori ed assistenti oltre ad uno psichiatra di turno (diverso dal
dott. POZZI che era lo psichiatra curante di MUSIANI). Difettava
quindi, per l'adozione del t.s.o., l'impossibilità di adottare
tempestive e idonee misure sanitarie extra ospedaliere.
d) Con il quarto motivo di ricorso la sentenza della Corte bolognese
viene censurata sotto diversi profili riguardanti la causalità e la
colpa.
Sotto il primo profilo, ed in particolare relativamente all'esistenza
di una posizione di garanzia, il ricorrente evidenzia l'erroneità
dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, che ha
ritenuto irrilevante il titolo su cui si fondava l'esistenza di una
posizione di garanzia dell'imputato. MUSIANI risultava infatti
affidato ad una struttura dotata di operatori e medici psichiatri che
lo avevano avuto in carico e, all'interno della comunità, operava
anche un medico psichiatra con l'incarico di consulente diverso dal
dott. POZZI.
Nell'ambito di questa organizzazione - la cui struttura e i cui
compiti vengono descritti nel ricorso - un gruppo di lavoro di cui
faceva parte il dott. POZZI aveva il compito di migliorare le
procedure di lavoro e il rapporto con le strutture territoriali.
Un altro errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata è
costituito dall'affermazione che il ricorrente aveva l'obbligo di
informarsi degli episodi allarmanti che avevano caratterizzato la
condotta del paziente; con questa affermazione i giudici di merito
non hanno tenuto conto della circostanza già evidenziata che
MUSIANI era affidato ad una struttura autonoma e autosufficiente e
l'intervento del consulente esterno, dott. POZZI, rientrava
nell'autonoma discrezionalità dei componenti la struttura. In base
al principio di affidamento l'imputato aveva ragione di ritenere che
la condotta della struttura nella trattazione del caso era corretta.
Nel medesimo motivo il ricorrente affronta il tema della colpa anche
sotto il profilo della prevedibilità dell'evento. In particolare si
sottolinea nel ricorso che il paziente era in remissione da oltre 15
anni; che il dott. POZZI non aveva affatto eliminato la terapia
antipsicotica ma l'aveva soltanto ridotta in una prospettiva di
ridurre la sedazione cui MUSIANI era sottoposto da tempo. In
realtà la sentenza impugnata avrebbe tratto il giudizio di
prevedibilità dell'evento in concreto verificatosi dalla sola
esistenza della malattia psicotica.
e) Con il quinto ed ultimo motivo si denunziano invece il vizio di
motivazione e la violazione di legge con riferimento all'affermata
esistenza del rapporto di causalità tra la condotta dell'imputato e
il verificarsi dell'evento.
Secondo il ricorrente la Corte di merito, in contrasto con i principi
affermati dalla giurisprudenza di legittimità, si sarebbe ispirata a
criteri probabilistici non idonei a fondare il giudizio positivo
sulla causalità ed avrebbe omesso di accertare la concatenazione
causale in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici necessari per
ritenere esistente il nesso di condizionamento.
Non avrebbe poi considerato, la sentenza impugnata, che la riduzione
della terapia era avvenuta somministrando per un certo periodo la
metà del farmaco e che, nel periodo di sospensione, erano ancora
presenti gli effetti del farmaco, di tipo "depot" che ha tempi
lunghissimi di eliminazione; questo processo non si era certamente
esaurito quando era stata ripristinata la posologia originaria.
La Corte non avrebbe poi preso in considerazione che al paziente
veniva somministrato anche altro farmaco antipsicotico idoneo a
prolungare ulteriormente i tempi dell'eventuale scompenso da
sottodosaggio.
Se si tiene conto di queste circostanze e del fatto che anche la
condotta ritenuta esigibile non esclude il verificarsi di scompensi
psicotici è da escludere, secondo il ricorrente, che il rapporto di
causalità tra condotta ed evento possa essere ritenuto esistente al
di là di ogni ragionevole dubbio tanto più che, come riconosce la
sentenza impugnata, anche il trattamento antipsicotico ritenuto
corretto non esclude il rischio di ricadute ma lo riduce di due
terzi.
Infine, quanto all'efficienza causale della mancata adozione del
t.s.o., il ricorrente sottolinea che questa iniziativa sarebbe stata
illegittima e avrebbe potuto essere giustificata solo con la
consumazione di un falso costituito dall'attestazione di un fatto non
veritiero e cioè l'esistenza di un rifiuto del paziente di assumere
la terapia.
4) Le memorie delle parti e il motivo nuovo. Con memoria datata 16
ottobre 2007 e successivamente depositata il difensore del ricorrente
ha prodotto copia dei seguenti atti (contenuti nel fascicolo
processuale) dei quali il giudice di appello non avrebbe tenuto conto
nella sua decisione:
- il documento della presentazione della struttura del 22 gennaio
1999 e lo schema tipo di intervento nelle comunità del 30 aprile
1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di garanzia in
capo al dott. POZZI;
- il verbale di sommarie informazioni di D'ANGELO DANIELA e
stralcio delle dichiarazioni rese dal dott. POZZI sul punto del
t.s.o..
Il difensore della parte civile ha replicato con memoria depositata
presso questa Corte con la quale si ribadisce la correttezza della
soluzione adottata dal giudice d'appello ed in particolare, con
riferimento ai vari motivi di ricorso proposti dal ricorrente, si
afferma:
- che l'eccezione sul diniego di acquisizione della consulenza
tecnica disposta nel giudizio civile si fonderebbe sulla possibilità
di ipotizzare un terzo genere di rito abbreviato diverso sia da
quello ordinario che da quello condizionato mentre, sull'esercizio
dei poteri officiosi, il giudice di appello avrebbe motivato
logicamente e adeguatamente;
- che analogamente corretta deve ritenersi la decisione di non
ammettere la produzione del parere tecnico trattandosi di consulenza
tecnica svolta da chi non era stato nominato consulente tecnico.
Con ulteriore memoria, datata 30 ottobre 2007, i difensori
dell'imputato hanno richiamato ulteriormente - a fondamento della
tesi che la L. n. 180 del 1978 esclude una visione custodialistica a
tutela della sicurezza delle persone essendo finalizzata
esclusivamente alla tutela del malato - una sentenza del 1990 della
seconda sezione di questa Corte e un testo di dottrina sul reato
omissivo improprio che, secondo la tesi esposta nella memoria,
potrebbe avere per oggetto esclusivamente l'oggetto immediato
dell'obbligo e non anche gli obblighi riflessi o accessori.
Con la medesima memoria si propone poi un motivo nuovo di ricorso per
l'omessa valutazione, da parte della Corte di merito, delle
risultanze del registro della comunità che dimostrerebbe che le
manifestazioni di aggressività all'interno della comunità erano
gravi e frequenti (e quelle di MUSIANI non erano le più
significative) e che al personale non medico della struttura era
attribuito l'intero compito socioriabilitativo mentre il dott.
POZZI aveva solo compiti di consulenza.
La mancata completa informazione sulle manifestazioni dei pazienti,
ed in particolare del MUSIANI, non consentivano dunque di ritenere
prevedibile l'evento e di addebitarlo causalmente al ricorrente.
5) Le questioni processuali. L'acquisizione della consulenza tecnica
svolta nel giudizio civile e del parere pro veritate. Come si è già
accennato il ricorrente, con il primo motivo di ricorso, si duole
della mancata acquisizione di una consulenza tecnica svolta in un
giudizio civile instaurato tra le odierne parti civili, la comunità
Albatros e l'Ausl territoriale competente.
La Corte d'Appello di Bologna ha respinto la richiesta - con
ordinanza ritualmente impugnata unitamente alla sentenza - sia
perché l'acquisizione dell'atto sarebbe incompatibile con il rito
abbreviato sia perché si tratterebbe di atto non necessario per la
decisione; occorre quindi valutare la correttezza di questa
decisione.
Va premesso in generale, sulla disciplina della rinnovazione
dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello di cui
all'art. 603 c.p.p., che, se le nuove prove sono sopravvenute o sono
state scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice provvede
secondo le regole ordinarie (comma 2) ; nel caso di prove nuove o di
richiesta di riassunzione di prove già acquisite dispone la
rinnovazione solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo
stato degli atti (comma 1).
Al di fuori di questi due casi il giudice può disporre d'ufficio la
rinnovazione dell'istruzione dibattimentale - anche nel caso in cui
le parti siano rimaste inerti o siano decadute - solo se la ritiene
assolutamente necessaria (comma 3: norma corrispondente a quella
contenuta nell'art. 507 c.p.p., comma 1, per il giudizio di primo
grado).
La giurisprudenza di legittimità è uniforme nel ritenere che questa
iniziativa diretta al completamento del quadro probatorio -in
particolare per quanto attiene all'assoluta necessità (da ritenere
evenienza eccezionale: v. Cass., sez. 2, 1 dicembre 2005 n. 3458, Di
Gloria, rv. 233391) - sia fondata su una valutazione attribuita in
via esclusiva al giudice di merito e da ritenere insindacabile nel
giudizio di legittimità ove sia logicamente e adeguatamente motivata
la valutazione sulla possibilità di decidere allo stato degli atti
(in questo senso v. Cass., sez. 4, 19 febbraio 2004 n. 18660,
Montanari, rv. 228353; sez. 2, 4 novembre 2003 n. 45739, Marzullo,
rv. 226977; sez. 6, 2 dicembre 2002 n. 68, Raviolo, rv. 222977).
È anche orientamento uniforme di legittimità che, solo nel caso di
prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado, la
mancata assunzione possa costituire violazione dell'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. d). mentre, negli altri casi previsti dall'art. 603
c.p.p., il vizio deducibile è quello attinente alla motivazione
previsto dalla lett. e) del medesimo articolo (v. Cass., sez. 2, 11
novembre 2005 n. 44313, Picone, rv. 232772; sez. 5, 21 dicembre 2000
n. 6924, Delfino, rv. 218279).
Questa disciplina va vista, per quanto riguarda il giudizio di
appello nel rito abbreviato, in relazione alle peculiarità del rito
speciale.
È noto che sull'ammissibilità e sui limiti dell'integrazione
probatoria nel giudizio abbreviato in grado di appello si erano
formati orientamenti diversi nella giurisprudenza di legittimità:
per l'ammissibilità dell'integrazione si erano espresse Cass., sez.
5, 20 ottobre 1996 n. 2628, Camerano; sez. 6, 24 novembre 1993 n.
1944, De Carolis; in senso opposto sez. 1, 2 novembre 1995 n. 3661,
Abategiovanni; 24 febbraio 1994 n. 5168, Pepe; sez. 6, 28 ottobre
1992 n. 2987, Nappo; sez. 1, 24 marzo 1992 n. 5440, Vallerà.
Il contrasto è stato risolto dalla sentenza delle sezioni unite 13
dicembre 1995 n. 930, Clarke, che, pur escludendo ogni potere di
iniziativa delle parti, avendo esse rinunziato al diritto alla prova,
ha affermato che il giudice può disporre d'ufficio i mezzi di prova
ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti che
formano oggetto della sua decisione.
Il principio affermato dalle sezioni unite è da ritenere attuale
anche dopo la riforma del giudizio abbreviato intervenuta nel 1999.
È vero che, con questa riforma, è stato superato il precedente
principio dell'immutabilità del materiale probatorio ed è stata
quindi consentita la richiesta condizionata del rito speciale
subordinata all'ammissione delle prove richieste. Ma è rimasto fermo
il principio che la richiesta del rito speciale, pur condizionata,
comporta rinunzia all'assunzione di prove diverse da quelle alle
quali è stata subordinata la richiesta. Con la conseguenza che la
scelta del giudizio abbreviato comporta l'accettazione di ogni
elemento di valutazione (salvo, ovviamente, quelli affetti da
inutilizzabilità patologica) per cui deve ritenersi insindacabile,
secondo i criteri indicati dalla citata sentenza delle sezioni unite,
la valutazione del giudice d'appello che abbia motivatamente ritenuto
che il mezzo di prova richiesto non fosse assolutamente necessario ai
fini della decisione.
Non ignora la Corte che, secondo un orientamento della giurisprudenza
di legittimità (cfr. Cass., sez. 4, 20 dicembre 2005, Coniglio, rv.
233956; sez. 3, 2 marzo 2004 n. 15296, Simek, rv. 228535; contra
Cass., sez. 6, 26 giugno 2003 n. 37389, Crollo, rv. 226806; sez. 3,
13 febbraio 2003 n. 12853, Paccone, rv. 224865) la richiesta di
rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio abbreviato
d'appello è consentita soltanto all'imputato che abbia proposto la
richiesta del rito speciale subordinandola all'integrazione
probatoria - mentre chi abbia richiesto l'abbreviato allo stato degli
atti può limitari a sollecitare il giudice all'esercizio dei poteri
officiosi - ma, indipendentemente dalla soluzione sulla correttezza
di questo orientamento deve osservarsi che, nel caso in esame, la
richiesta del rito abbreviato era stata incondizionata ne' può
ritenersi, come ritiene il ricorrente, che l'integrazione probatoria
disposta d'ufficio dal giudice, valga a mutare la natura del giudizio
in quella di abbreviato condizionato. Di fatto l'imputato aveva
infatti rinunziato all'integrazione probatoria e il provvedimento del
giudice non consente di ritenere mutata la natura del giudizio per
quanto riguarda le condizioni cui il medesimo è subordinato.
Il ricorrente fonda però la sua censura anche sulla circostanza che
la prova di cui era stata chiesta l'ammissione era una prova nuova
sopravvenuta al giudizio di primo grado (la sentenza di primo grado
nel presente processo è stata pronunziata il 25 novembre 2006 mentre
la consulenza tecnica nel giudizio civile è stata depositata,
secondo quanto riferisce il ricorrente, il 1 marzo 2006).
Orbene ritiene la Corte che, nel caso di prova sopravvenuta dopo la
sentenza di primo grado pronunziata nel giudizio abbreviato, la
regola da applicare sia pur sempre quella di carattere generale per
l'ammissione delle prove nel giudizio abbreviato prevista dall'art.
441 c.p.p., comma 5; cioè un potere di ammissione della prova da
esercitarsi d'ufficio dal giudice quando ritenga di non poter
decidere allo stato degli atti e in relazione al quale la parte ha
soltanto un potere sollecitatorio (cfr. le già citate sentenze
Carollo e Paccone).
Nel nostro caso il giudice di appello, con l'ordinanza impugnata -
richiamando l'ampia discussione avvenuta in primo grado e
l'espletamento della perizia - ha, con motivazione incensurabile in
questa sede perché logicamente motivata, escluso di non poter
decidere il processo allo stato degli atti (cfr., per una soluzione
analoga nel caso di giudizio abbreviato e di prova sopravvenuta,
Cass., sez. 6, 18 dicembre 2006 n. 5782, Gagliano, rv. 236064; per
l'estensione al giudizio abbreviato in appello della regola prevista
dall'art. 441 c.p.p., comma 5, v. inoltre Cass., sez. 5, 9 maggio
2006 n. 19388, Biondo, rv. 234157).
Ma a non diversa conclusione dovrebbe pervenirsi ove volessero
ritenersi integralmente applicabili al giudizio abbreviato in appello
le regole relative alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale
indicate nell'art. 603 c.p.p., già ricordato e, in particolare, la
regola indicata nel comma 2. Il richiamo all'art. 495 c.p.p., comma 1
- e dunque all'art. 190 c.p.p., comma 1, cui fa riferimento l'art.
495 c.p.p., comma 1 - non fa venir meno la correttezza della
decisione perché fondata su un giudizio corrispondente a quello di
manifesta superfluità della prova di cui era stata chiesta
l'ammissione.
Ad analoga soluzione deve pervenirsi in relazione al diniego di
acquisizione del parere pro veritate. Al di là della valutazione sul
carattere di inammissibilità della nuova prova dedotta appare nella
sostanza corretta la decisione dei giudici d'appello. La possibilità
per la parte di nominare consulenti tecnici anche fuori dei casi di
perizia (art. 233 c.p.p.) va infatti incontro alle medesime
preclusioni previste per le altre prove quando l'imputato abbia
chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato, condizionato o
meno.
In questo caso non si tratta poi di prova sopravvenuta e dunque -
nell'ipotesi maggiormente favorevole al ricorrente - i criteri di
valutazione non possono che essere quelli previsti dall'art. 441
c.p.p., comma 5, in relazione ai quali la Corte di merito ha espresso
un giudizio di completezza del materiale probatorio nell'esame della
censura precedentemente esaminata.
Va infine rilevato che la natura di consulenza tecnica del parere -
che ne determina la preclusione all'acquisizione - non può essere
modificata con la semplice sottoscrizione dei difensori evidentemente
volta ad eludere il divieto di ulteriore integrazione del materiale
probatorio.
6) Il concorso colposo nel delitto doloso. Malgrado il tema non sia
stato sollevato con i motivi di ricorso la sua rilevabilità
d'ufficio (in quanto la risposta negativa sull'ammissibilità del
concorso colposo nel delitto doloso renderebbe immediatamente
applicabile l'art. 129 c.p.p., comma 1) rende necessario l'esame di
questo aspetto della responsabilità sul quale esistono opinioni
divergenti in dottrina e in giurisprudenza.
In particolare non ignora la Corte che autorevoli orientamenti
dottrinali si sono espressi negativamente sulla possibilità che, nel
nostro ordinamento, possa configurarsi una simile forma di
compartecipazione. I pilastri di questa posizione negativa sono
sostanzialmente due: l'art. 42 c.p., comma 2 - che prevede la
punibilità a titolo di colpa nei soli casi espressamente preveduti
dalla legge (e la legge non prevederebbe il concorso colposo nel
delitto doloso) - e l'art. 113 c.p., che prevede la compartecipazione
colposa solo nel caso di delitto colposo.
L'esame della giurisprudenza di legittimità consente di rilevare che
la decisione più recente che abbia affrontato il problema è
orientata in senso favorevole a ritenere ammissibile il "concorso"
colposo nel reato doloso. Ci si riferisce a Cass., sez. 4, 9 ottobre
2002 n. 39680, Capecchi, rv. 223214, che si rifà a più risalenti
precedenti (Cass., sez. 4, 20 maggio 1987 n. 8891, De Angelis, rv.
176499 e 4 novembre 1987 n. 875, Montori, rv. 177472) che hanno
ritenuto ammissibile il concorso colposo in casi di incendio doloso
sviluppatosi per la negligente sistemazione del materiale
infiammabile (lo stesso caso della sentenza Capecchi).
Di contrario avviso erano stati altri precedenti, uno della medesima
sezione 4 (sentenza 11 ottobre 1996 n. 9542, De Santis, rv. 206798),
uno della terza sezione (20 marzo 1991 n. 5017, Festa, rv. 187331) e
uno delle sezioni unite 3 febbraio 1990 n. 2720, Cancilleri, rv.
183495); questi ultimi due precedenti riguardano il caso del concorso
colposo del notaio nel reato di lottizzazione abusiva.
In realtà solo il primo precedente indicato può ritenersi contrario
all'ammissibilità della forma di partecipazione di cui stiamo
parlando perché il caso del concorso del notaio è caratterizzato
dalla circostanza che il reato di lottizzazione abusiva è ritenuto
di natura dolosa; e come sarebbe possibile configurare una
partecipazione colposa in un reato previsto solo nella forma dolosa ?
D'altro canto l'orientamento espresso dalle sezioni unite si limita
ad una mera enunciazione non motivata su questo problema.
Ritiene la Corte, pur trattandosi di tema particolarmente complesso e
accidentato al quale sarebbe illusorio pretendere di dare risposte
definitive ed esenti da critiche che, pur con i limiti di seguito
indicati, possa darsi al quesito una risposta positiva.
Va premesso, pur non essendo questa la sede per addentrarsi in
ricostruzioni teoriche, che la premessa da cui questa Corte ritiene
di dover partire è costituita dal riconosciuto superamento delle
teorie che si rifanno al concetto di unitarietà del fatto reato di
natura concorsuale (ritenuto un "dogma" da parte di un illustre
Autore pur contrario alla tesi dell'ammissibilità del concorso
colposo nel delitto doloso). Le difficoltà di inquadramento teorico
di queste forme di partecipazione soggettiva eterogenea (i problemi
si pongono anche per la partecipazione dolosa nel delitto colposo) si
attenuano riconoscendo la pluralità dei fatti reato nei casi in cui
l'evento sia unico.
Esaminando le obiezioni alla tesi che ritiene ammissibile il concorso
in precedenza indicate ritiene invece la Corte che queste obiezioni
(certamente serie) siano superabili. È infatti proprio l'esame
congiunto delle due norme indicate (art. 42 c.p., comma 2 e art. 113
c.p.) che consente questa risposta; la compartecipazione è stata
espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perché, nel
caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento
soggettivo strutturalmente diverso ma di una costruzione che
comprende un elemento ulteriore - potrebbe dirsi "in aggiunta" -
rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l'aver
previsto e voluto l'evento (sia pure con la sola accettazione del suo
verificarsi, nel caso di dolo eventuale). Insomma il dolo è qualche
cosa di più, non di diverso, rispetto alla colpa e questa concezione
è stata riassunta nella formula espressa da un illustre studioso
della colpa che l'ha così sintetizzata: "non c'è dolo senza colpa".
Se questa ricostruzione è plausibile la conseguenza è che non fosse
necessario prevedere espressamente l'applicabilità del concorso
colposo nel delitto doloso perché se è prevista la
compartecipazione nell'ipotesi più restrittiva non può essere
esclusa nell'ipotesi più ampia che la prima ricomprende e non è
caratterizzata da elementi tipici incompatibili. Questa rilettura
incrina anche il valore dell'obiezione che si fonda sulla previsione
dell'art. 42 c.p., comma 2: non si tratterebbe di una previsione
implicita di un reato colposo ma di una ricostruzione che ha
disciplinato espressamente un aspetto del problema sul presupposto
che la disciplina riguardasse anche il tema più generale.
È poi da rilevare che la già ricordata sentenza Capecchi ha
ritenuto superabile l'ostacolo della previsione dell'art. 40 c.p.,
comma 2, con un'ulteriore argomentazione che appare condivisibile:
questa disciplina, anche per la formulazione letterale usata dal
legislatore, non può che riguardare esclusivamente la previsione
delle singole norme incriminatici, che deve appunto essere espressa,
ma non la disciplina delle regole concorsuali che si deve trarre
dagli artt. 110 e 113 c.p..
Fermo restando, come si è già accennato, che la partecipazione
colposa può riguardare esclusivamente un reato previsto anche nella
forma colposa: diversamente sarebbe palesemente violato il disposto
dell'art. 42 c.p., comma 2.
A questo punto si pone un ulteriore problema: che cosa avviene se ci
si trova in presenza di concorso di cause colpose indipendenti ? Per
natura e per definizione in questo caso non ci troviamo in presenza
di un "concorso" di persone nel reato: tutte contribuiscono
causalmente al verificarsi dell'evento ma gli atteggiamenti
soggettivi non s'incontrano mai neppure sotto il profilo della
consapevolezza dell'altrui partecipazione come invece avviene nella
cooperazione colposa. In questi casi la concezione che si fonda
sull'unitarietà del reato non è solo un dogma ma è proprio da
ritenersi errata perché alcun legame esiste, sotto il profilo
soggettivo, tra le varie condotte anche se l'evento è unico.
Quando ci si trovi in presenza di cause colpose indipendenti
l'applicabilità delle regole sul concorso di cause è espressamente
prevista, sotto il profilo causale, dall'art. 41 c.p., il cui comma
3, prevede espressamente che questa disciplina si applichi anche
quando la causa preesistente, simultanea o sopravvenuta consista nel
fatto illecito altrui.
Ma proprio perché le condotte sono indipendenti le medesime andranno
autonomamente valutate e per ciascuna di esse andrà accertato se
abbia fornito un contributo causale al verificarsi dell'evento e se
la condotta causalmente efficiente sia caratterizzata dai requisiti
tipici della colpa. In questi casi, proprio per l'indipendenza delle
azioni, ogni condotta va separatamente individuata e, ciò che assume
particolare rilievo per la soluzione del nostro problema, diviene
irrilevante che uno o più dei contributi causali possa avere
carattere doloso perché la disciplina sulla causalità contenuta nel
citato art. 41 c.p., riguarda sia i reati colposi che quelli dolosi.
E allora se per il riconoscimento della partecipazione colposa
indipendente al reato doloso non esistono ostacoli insuperabili è
agevole concludere che sarebbe irragionevole, nel caso di
cooperazione, escludere la partecipazione colposa al delitto doloso
solo perché l'agente è consapevole dell'altrui condotta dolosa.
Il dippiù costituito da questa consapevolezza aggrava infatti, e non
attenua, il disvalore sociale della condotta: quale spiegazione
razionale potrebbe trovare una soluzione affermativa sulla
compartecipazione al reato doloso quando manca la consapevolezza di
questa condotta e non quando questa consapevolezza esista ?
Deve dunque concludersi, sul tema esaminato, che è ammissibile il
"concorso" colposo nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose
indipendenti che nel caso di cooperazione colposa e purché, in
entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella
forma colposa e la sua condotta sia caratterizzata da colpa.
Riconosciuta l'astratta ammissibilità del concorso colposo nel
delitto doloso non è necessario addentrarsi nell'ulteriore aspetto
che presenta il caso in esame caratterizzato dalla circostanza che il
fatto "doloso" del terzo è stato compiuto da persona non imputabile.
Il riconoscimento della natura non dolosa della condotta della
persona non imputabile sarebbe infatti idoneo a rafforzare la
possibilità di riconoscere la compartecipazione dell'estraneo.
Va però precisato che il riconoscimento dell'astratta possibilità
di concorso colposo nel reato doloso non significa che in ogni caso
questa compartecipazione vada riconosciuta perché, una volta
accertata l'influenza causale della condotta colposa dell'agente,
andrà verificata l'esistenza dei presupposti per il riconoscimento
di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell'evento.
Per la soluzione di questo complesso problema può intanto osservarsi
che, nel caso in cui l'evento dannoso si verifichi all'esito di una
sequenza di avvenimenti in cui si sia inserito il fatto doloso del
terzo è necessario verificare anzitutto, sotto il ricordato profilo
dell'elemento soggettivo, se la regola cautelare inosservata era
diretta ad evitare la condotta delittuosa del terzo: si pensi a chi,
preposto alla tutela di una persona, se ne disinteressi consentendo
all'assalitore di ledere l'integrità fisica della persona protetta.
È la posizione di garante rivestita dall'agente che fonda l'obbligo
di osservanza di determinate regole cautelari la cui violazione
integra la colpa.
Indipendentemente dall'esistenza di una posizione di garanzia
analoghi obblighi di tutela possono discendere dall'esistenza di un
potere di controllo di fonti di pericolo quali per es. armi, veleni,
esplosivi; per es. il farmacista non può vendere un farmaco
potenzialmente letale alla persona che sa aver già tentato di
avvelenare un familiare; chi possiede un'arma non può lasciarla
incustodita in un luogo frequentato da bambini. I casi già indicati
relativi alla creazione dei presupposti perché si sviluppi un
incendio doloso si inquadra in questa categoria del controllo delle
fonti di pericolo.
Un utile strumento di verifica può poi essere quello che si rifà
allo scopo della regola cautelare violata dall'agente in colpa. Se la
regola cautelare è diretta anche alla tutela di terzi
dall'aggressione dolosa dei loro beni è la tutela finalizzata di
essi che rende configurabile la partecipazione dell'agente in colpa.
I casi più complessi sono ovviamente quelli nei quali la regola è
stata predisposta non tanto per altri fini ma in vista di decorsi
causali diversi: si pensi al lavoratore che opera in altezza e che
non sia stato munito delle cinture di sicurezza. Risponde il datore
di lavoro anche delle conseguenze di una caduta (che non si sarebbe
verificata con l'uso del mezzo di protezione) volontariamente
cagionata da un terzo ?
È ragionevole ritenere, in questi casi, che ciò che rileva è
l'individuazione dell'evento dannoso che la regola cautelare mira ad
evitare : anche se questa regola è stata pensata in relazione a
percorsi causali diversi il rischio che la norma concretamente vuole
evitare è quello di caduta indipendentemente dalle cause che l'hanno
provocata. E così in tutte quelle situazioni nelle quali l'evento
volontariamente cagionato è della stessa natura di quello preso in
considerazione nella formazione della regola cautelare.
Diverso è ancora il caso in cui la condotta dell'agente costituisca
l'occasione perché il terzo compia l'atto doloso. In questo caso si
torna alle considerazioni iniziali: per ravvisare la responsabilità
colposa del primo agente occorrerà che questi sia titolare di una
posizione di garanzia o di un obbligo di tutela o di protezione e che
sia prevedibile l'atto doloso del terzo.
Il nostro caso può dunque essere risolto solo dopo che si accerti
l'esistenza di una posizione di garanzia del dott. POZZI in favore
del paziente e l'ambito di questa posizione (se sia cioè prevista
non tanto per la tutela dei terzi quanto per evitare l'aggressione da
parte del paziente anche ai beni di terzi) oltre che della
prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso. Queste risposte
potranno quindi essere date solo dopo l'esame dei motivi di ricorso.
L'intreccio che presenta questo processo tra i temi della causalità
e quelli della colpa rende necessaria una trattazione dei medesimi
per così dire "asimmetrica". Fermo restando che non è in
discussione la causalità "materiale" dell'evento e che all'imputato
sono state contestate condotte colpose omissive e commissive sembra
opportuno procedere preliminarmente alla verifica dell'esistenza di
una posizione di garanzia in capo al dott. POZZI al fine di
verificare se su di lui incombesse l'obbligo giuridico di impedire
l'evento. Successivamente, essendo in discussione la c.d. "causalità
della condotta" e la ed, "causalità della colpa", si procederà alla
verifica della correttezza logico giuridica della motivazione della
sentenza impugnata sull'esistenza di una condotta causalmente
efficiente dell'imputato sul verificarsi dell'evento e sull'esistenza
della violazione, da parte sua, di regole cautelari che abbia avuto
analoga efficacia su queste conseguenze della condotta inosservante.
7) L'esistenza della posizione di garanzia. Si è già accennato che,
all'interno del quarto motivo dedicato ai temi della colpa il
ricorrente contesta l'esistenza di una posizione di garanzia a lui
riferibile. Secondo il motivo di ricorso, infatti, sarebbe erronea
l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, sull'irrilevanza
del titolo su cui si fondava l'esistenza di una posizione di garanzia
dell'imputato perché il paziente risultava affidato ad una struttura
dotata di operatori e medici psichiatri che lo avevano avuto in
carico e, all'interno della comunità, operava anche un diverso
medico psichiatra con l'incarico di consulente e il dott. POZZI
aveva il solo compito, all'interno del gruppo di lavoro di cui faceva
parte, di migliorare le procedure di lavoro e il rapporto con le
strutture territoriali.
A conferma della sua tesi il ricorrente, con la memoria 16 ottobre
2007, ha prodotto il documento della presentazione della struttura
del 22 gennaio 1999 e lo schema tipo di intervento nelle comunità
del 30 aprile 1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di
garanzia in capo al dott. POZZI.
All'esame di queste censure vanno premesse alcune considerazioni.
Com'è noto l'obbligo di garanzia si fonda sul disposto del capoverso
dell'art. 40 c.p., secondo cui non impedire un evento che si ha
l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, laddove si fa
riferimento all'obbligo giuridico di impedire l'evento.
Il fondamento di questa disposizione è da ricercare nei principi
solidaristici che impongono (oggi anche in base alle norme contenute
negli artt. 2 e 32 Cost. e art. 41 Cost., comma 2) una tutela
rafforzata e privilegiata di determinati beni - non essendo i
titolari di essi in grado di proteggerli adeguatamente - con
l'attribuzione, a determinati soggetti, della qualità di "garanti"
della salvaguardia dell'integrità di questi beni ritenuti di
primaria importanza per la persona; a questa qualità, naturalmente,
devono contestualmente accompagnarsi poteri impeditivi dell'evento.
Diversamente, sotto il profilo soggettivo, difetterebbe
l'esigibilità della condotta (la madre risponde di non aver nutrito
l'infante non di aver omesso di salvarlo dall'annegamento se non
sapeva nuotare).
Sull'origine e sull'ambito di applicazione della posizione di
garanzia v'è contrasto tra le teorie che ritengono che gli obblighi
del terzo possano derivare soltanto da una fonte formale (e infatti
si parla di teoria "formale" della posizione di garanzia) e le teorie
che fanno riferimento piuttosto a criteri sostanzialistici (ma
esistono anche teorie c.d. "miste").
La prima teoria, che sembra accolta dal cpv. dell'art. 40 c.p., (che
parla infatti di obbligo "giuridico"), individua, quali fonti
dell'obbligo in questione, la legge e il contratto (e su queste fonti
sostanzialmente non esistono divergenze; l'unica difformità di
orientamento riguarda forse il caso del contratto cui non partecipi
il titolare del ben protetto) nonché la precedente condotta illecita
o pericolosa, la negotiorum gestio e la consuetudine (e su queste
fonti invece le opinioni sono divergenti anche perché, più in
generale, la soluzione del problema della fonte è strettamente
connessa al rispetto del principio di determinatezza della
fattispecie).
Naturalmente, anche se venga accolta la teoria sostanzialistica, il
rispetto dei principi di tassatività e determinatezza richiede che
la cerchia dei titolari dell'obbligo di garanzia sia determinata
soggettivamente e che gli obblighi siano oggettivamente determinati
con esclusione quindi di doveri esclusivamente morali. E naturalmente
i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei
necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non
significa che dei poteri impeditivi debba essere direttamente fornito
il garante purché gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare
(anche giudizialmente) che l'evento dannoso venga cagionato (per es.
i poteri dei sindaci delle società su cui peraltro esiste dissenso
in dottrina).
La giurisprudenza di legittimità ha più volte riaffermato che la
posizione di garanzia può avere una fonte normativa non
necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica,
anche non scritta e che addirittura possa trarre origine da una
situazione di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una
precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di
intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che
consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l'evento (cfr.
Cass., sez. 4, 12 ottobre 2000 n. 12781, Avallone; 1 ottobre 1993 n.
11356, Cocco; 21 maggio 1998 n. 8217, Fornari; 5 novembre 1983 n.
9176, Bruno).
Passando ad esaminare più specificamente il tema della
responsabilità medica va osservato che una posizione di garanzia del
medico può sorgere esclusivamente con l'instaurazione della
relazione terapeutica tra il paziente e il professionista. Questa
relazione si può instaurare su base contrattuale - come avviene nel
caso di paziente che si affidi al medico di fiducia - ma anche in
base alla normativa pubblicistica di tutela della salute come avviene
nel caso di ricovero ospedaliero o in strutture protette; casi nei
quali per il medico, indipendentemente dal consenso del paziente,
sorge un obbligo giuridico di impedire l'evento. È invece stato
escluso in dottrina che sorga una posizione di garanzia "in capo al
medico che sia stato soltanto occasionalmente richiesto di un parere,
nel quadro di una relazione di amicizia, convivialità, familiarità
o convivenza, ma al di fuori di uno specifico conferimento di
incarico professionale".
Naturalmente l'esistenza di una posizione di garanzia non si pone in
contraddizione con una causazione attiva dell'evento da parte del
garante; in particolare con il mancato esercizio dei poteri
impeditivi che è obbligato ad esercitare (il medico che somministra
erroneamente un medicinale al quale il paziente a lui affidato è
allergico - causalità attiva - è tenuto ai necessari interventi per
escludere o ridurre le conseguenze della somministrazione).
V'è ancora da osservare che la posizione di garanzia è riferibile,
sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui tradizionalmente
si inquadrano gli obblighi in questione.
La prima categoria concerne la posizione di garanzia c.d. di
protezione che impone di preservare il bene protetto da tutti i
rischi che possano lederne l'integrità: tipici gli obblighi che
gravano sui genitori, sui medici ecc. in relazione ai beni della vita
e dell'incolumità personale ma anche di altri beni (per es., per i
genitori, l'integrità sessuale dei minori).
Come è evidente l'ambito elettivo di questi obblighi è quello
familiare ma l'obbligo di protezione può derivare anche
dall'assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base
contrattuale (per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare
uno scalatore inesperto) sia unilateralmente (il medico che prende in
carico il paziente in stato di incoscienza).
La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia c.d. di
controllo che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo
che possano minacciare il bene protetto: questa categoria riguarda
tutti i casi di esercizio di attività pericolose - che trova il
fondamento normativo nell'art. 2050 c.c., - il dovere di prevenzione
incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di
infortuni sul lavoro o di malattie professionali, le regole che
disciplinano la circolazione stradale ecc..
Il più delle volte questi obblighi di controllo sono ricollegati
all'esistenza di un "potere di organizzazione o di disposizione
relativo a cose o situazioni potenzialmente pericolose", come nel
caso indicato del datore di lavoro o come nel caso degli appartenenti
ad amministrazioni pubbliche cui sono attribuiti compiti di
prevenzione e soccorso in relazione ad eventi riguardanti la pubblica
incolumità.
Da quanto in precedenza esposto non si comprende come si possa negare
che al dott. POZZI fosse attribuita una posizione di garanzia in
relazione alla tutela della salute psichica del paziente MUSIANI.
Diversamente non si comprendono le ragioni per cui siano stati a lui
attribuiti il trattamento del caso di MUSIANI sotto il profilo
psichiatrico, l'adeguamento e la modifica della terapia farmacologia,
i colloqui terapeutici con il paziente, la richiesta di intervento
quando si manifestarono i sintomi di scompenso. Quale che fosse
l'incarico formalmente attribuito al dott. POZZI all'interno della
comunità Albatros egli ha di fatto svolto la funzione di tutelare
la salute psichica del paziente ed ha accettato di svolgere questo
incarico che dunque trova la sua origine in un vincolo contrattuale
che la struttura (pubblica o privata che sia) gli ha conferito
l'incarico e in un vincolo normativo conseguente all'instaurazione di
una relazione terapeutica con il paziente.
Non può dunque negarsi che il dott. POZZI fosse gravato di una
posizione di garanzia in favore del paziente MUSIANI sotto il
profilo dell'instaurazione di un obbligo di protezione. Ciò che, del
resto, è ammesso nel ricorso nel quale (a p. 23) si ammette che in
base all'organizzazione descritta il medico psichiatra (il dott.
POZZI) "era incaricato prevalentemente della gestione della terapia
psicofarmacologica dei casi"; e ciò vale ad istituire la posizione
di garanzia indipendentemente dalla circostanza, pure sottolineata
nel ricorso, che gli aspetti sociali, relazionali, riabilitativi e
comunicativi erano appannaggio degli operatori non medici e non
sanitari".
8) La cura del paziente psichiatrico e il trattamento sanitario
obbligatorio. Se dunque i giudici di merito hanno logicamente
accertato l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott.
POZZI, finalizzata alla protezione della salute psichica del
paziente MUSIANI, va ora verificato se sia corretta la motivazione
la motivazione della sentenza impugnata in relazione ad una delle
ipotesi di colpa contestate all'imputato: quella, di natura omissiva,
concernente la mancata richiesta del trattamento sanitario
obbligatorio. Su questo punto va preliminarmente osservato che la
più parte delle considerazioni svolte nel ricorso è da ritenere
largamente condivisibile.
In particolare sono condivisibili le osservazioni che si riferiscono
al grande valore innovativo della L. 13 maggio 1978, n. 180
(accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori) nel
trattamento delle "malattie mentali" (così la legge definisce le
malattie di origine psichica).
A fronte di una disciplina previgente che prendeva in considerazione
essenzialmente l'aspetto custodiale per la tutela dei terzi da atti
aggressivi (ma anche per una sorta di "discredito" socialmente
diffuso nei confronti del malato psichico da cui si sentivano colpite
anche le famiglie dei pazienti) la L. n. 180 del 1978, ha finalmente
conferito a questa categoria di pazienti la stessa dignità che hanno
le persone affette da altre patologie e ha limitato il contenimento
personale ai soli casi di necessità in una prospettiva di cura e di
superamento, ove possibile, del disagio e della malattia.
Queste finalità non potevano dunque che essere perseguite abolendo
lo strumento principale espressione della visione pressoché
esclusivamente custodiale (il manicomio) per cercare di inserire il
malato in un ambiente sociale e familiare più adeguato alla tutela
della sua persona con un trattamento terapeutico che si è
frequentemente dimostrato ben più efficace per il miglioramento
delle condizioni di salute. Uno degli strumenti di questa
lodevolissima opera di reinserimento sociale, che ha raggiunto in
generale risultati molto apprezzabili, è proprio quello
dell'inserimento in comunità terapeutiche come quella in cui si è
verificato il tragico episodio nella quale - come risulta dalle
sentenze di merito - anche MOSIANI sembrava avere raggiunto un
accettabile equilibrio, disponeva di spazi di autonomia (usciva
regolarmente, utilizzava disponibilità di spesa ecc.).
Naturalmente il legislatore del 1978 non è stato così ingenuo da
ritenere che bastasse abolire i manicomi per eliminare la malattia
mentale (visione che ancor oggi una lettura un po' caricaturale della
L. n. 180 del 1978, tende ad accreditare) e ha previsto la
possibilità che nei confronti del malato psichico potessero essere
disposti accertamenti e trattamenti sanitari "obbligatori" ma nel
rispetto "della dignità della persona e dei diritti civili e
politici garantiti dalla costituzione, compreso per quanto possibile
il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura" (art.
1, comma 2).
Per venire al trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di
degenza ospedaliera di cui si discute nel presente processo si rileva
che il medesimo può essere disposto "nei confronti delle persone
affette da malattie mentali (art. 2, comma 1) in presenza di questi
presupposti: 1) che esistano "alterazioni psichiche tali da
richiedere urgenti interventi terapeutici"; 2) che "gli stessi non
vengano accettati dall'infermo"; 3) che non sia possibile "adottare
tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere".
Vano sarebbe però trovare nella L. n. 180 del 1978, una norma che
confermi la tesi del ricorrente secondo cui la tutela sanitaria
obbligatoria prevista dal ricordato art. 2, sarebbe preordinata
esclusivamente alla tutela del malato e non anche dei terzi. È vero
che lo scopo primario delle cure psichiatriche è quello di eliminare
o contenere la sofferenza psichica del paziente; ma quando la
situazione di questi sia idonea a degenerare - anche con atti di auto
o etero aggressività - il trattamento obbligatorio presso strutture
ospedaliere è diretto ad evitare tutte le conseguenze negative che
la sofferenza psichica cagiona.
È del resto illusorio separare le conseguenze personali (che sole
giustificherebbero il trattamento secondo il ricorrente) da quelle
verso terzi: la manifestazione di violenza ed aggressività non reca
danno solo al terzo aggredito ma anche all'aggressore. Emblematico è
il caso che stiamo trattando: a MUSIANI (vittima anche lui del suo
disturbo psichico) nel processo conseguente all'uccisione
dell'operatore è stata applicata, a seguito del proscioglimento per
mancanza di imputabilità, la misura di sicurezza del ricovero in un
ospedale psichiatrico giudiziario; e in questa struttura contenitiva
MUSIANI, qualche anno dopo, è deceduto. Anche nei confronti di se
stesso il suo gesto omicida ha quindi avuto conseguenze personali
gravissime.
Insomma il trattamento sanitario obbligatorio deve essere disposto
anche nel caso in cui la malattia si manifesti con atteggiamenti di
aggressività verso terzi non diversamente contenibili. Del resto non
si comprende quali possano essere le alterazioni psichiche tali da
richiedere urgenti interventi terapeutici se non le manifestazioni di
aggressività nei confronti di se stessi o di terzi. Se non esistono
queste manifestazioni, ma altre espressioni della sofferenza
psichica, è ben difficile ipotizzare situazioni nelle quali sia
necessario un contenimento anche fisico in ambito ospedaliere.
Ciò premesso si osserva peraltro che il motivo di ricorso che stiamo
esaminando è da ritenere fondato sotto un diverso profilo. Abbiamo
visto che uno dei tre presupposti perché possa essere disposto il
trattamento sanitario obbligatorio è costituito dal rifiuto (mancata
accettazione) delle cure da parte del paziente. Ebbene, nel caso in
esame questo requisito - in base alla ricostruzione incensurabile dei
fatti operata dai giudici di merito - non può ritenersi pienamente
realizzato.
È vero che tutto l'ultimo periodo della tragica vita di MUSIANI è
stato costellato da continui atteggiamenti di rifiuto delle terapie e
da ripensamenti e assunzioni delle medesime ma è pur vero che,
quanto meno fino al 22 maggio 2000, il paziente risulta aver assunto
la terapia sia pure accompagnando la sua condotta con minacce di
morte all'operatrice, rifiutando che gli venisse somministrata da
altri medici ma, alla fine, accettando la somministrazione da parte
del suo medico personale.
Da tale ricostruzione operata dai giudici di merito non appare dunque
realizzato il requisito della mancata accettazione delle terapie da
parte del paziente che avrebbe giustificato la richiesta di t.s.o. e
quindi questo elemento di colpa di natura omissiva non può essere
addebitato all'imputato. Nè questo ostacolo può essere superato,
come ha fatto il giudice di primo grado, con il rilievo che esisteva
il forte dubbio che MUSIANI assumesse la terapia orale essendo,
questa circostanza, comunque rimasta a livello di congettura perché
indimostrata.
9) Gli elementi di colpa consistenti nella riduzione e sospensione
della terapia. Sono invece infondate le censure che si riferiscono
agli altri elementi di colpa ravvisati dai giudici di merito nella
condotta del dott. POZZI; condotta da sola sufficiente a fondare
l'affermazione di responsabilità perché ad essa è causalmente
ricollegabile l'evento verificatosi.
In sintesi l'elemento fondamentale di violazione delle leggi
dell'arte medica psichiatrica è costituito dalla drastica riduzione
(alla metà) e, successivamente, dalla eliminazione della terapia
farmacologia in precedenza assunta da MUSIANI. Dalla sentenza
impugnata emerge che il dott. POZZI prese in carico il paziente
negli ultimi mesi del 1999 (la data precisa non è stata accertata) e
il primo intervento documentato è del 1 ottobre 1999. Dopo alcuni
mesi - il 16 marzo 2000 - il dott. POZZI riduceva della metà il
farmaco neurolettico (Moditen) di tipo "depot" (ad assorbimento
graduale del principio attivo, la flufenazina); avendo ritenuto che
la riduzione non avesse avuto effetti negativi l'imputato decideva
quindi, il 24 aprile 2000, di sospendere la somministrazione del
farmaco.
È da sottolineare che la sentenza impugnata descrive vari episodi di
scompenso psicotico verificatisi dall'ottobre 1999 fino alla data di
sospensione del trattamento farmacologico per cui esente da alcuna
illogicità deve ritenersi la valutazione dei giudici di merito che
hanno ritenuto incongrua la scelta terapeutica del dott. POZZI
peraltro sconsigliata dai precedenti medici che avevano seguito il
paziente proprio per l'elevato rischio di scompenso che la riduzione
o sospensione avrebbe comportato.
Ancor più grave è stata ritenuta la scelta di sospendere il
trattamento il 24 aprile anche perché due degli episodi di scompenso
(MUSIANI aveva denunziato per due volte la sparizione dei suoi
soldi in banca) erano avvenuti dopo la riduzione e prima della
sospensione della somministrazione del farmaco (il 3 e l'11 aprile) e
la Corte di merito riferisce che gli episodi erano stati portati a
conoscenza dell'imputato.
Dopo la sospensione del trattamento le condizioni del paziente
peggioravano e, dopo vari episodi significativi dello scompenso in
atto, il dott. POZZI era costretto a ripristinare la terapia con la
somministrazione del farmaco neurolettico nella posologia originaria
(peraltro con efficacia immediata assai ridotta per le modalità di
rilascio del principio attivo), introducendo anche un altro farmaco
ad efficacia più immediata, da assumere per via orale, nella specie
risultato privo di efficacia.
Il primo problema che si pone è quello di valutare l'adeguatezza
della motivazione con cui i giudici di merito hanno ritenuto imperita
e imprudente (oltre che negligente per l'inadempimento degli obblighi
conoscitivi, come si dirà più avanti) la scelta dell'imputato di
operare prima una riduzione così drastica e successivamente
l'eliminazione della terapia farmacologia in un paziente affetto da
una grave forma di "schizofrenia paranoide cronica in fase di
parziale remissione" (è la diagnosi postuma formulata dai consulenti
tecnici dell'imputato).
A questo fine va premesso che non è (ovviamente) in discussione la
libertà delle scelte terapeutiche del medico che - in ciò appare
corretto quanto si afferma nel ricorso - deve indirizzarle anzitutto
al miglioramento del benessere del paziente e alla riduzione degli
effetti collaterali della somministrazione dei farmaci (nel caso di
specie particolarmente pesanti in termini di sedazione e di effetti
parkinsoniani); ma questa condivisibile finalità deve essere
perseguita con la gradualità e l'attenzione richieste in relazione
alla gravità della situazione patologica del paziente. E tenendo
conto che la richiesta del paziente può essere ricollegata, come nel
caso di specie (così riferiscono le sentenze di merito), ad un
mancato riconoscimento della malattia da parte sua.
È quindi del tutto logico il percorso motivazionale dei giudici di
merito che hanno ricostruito (soprattutto la sentenza di primo grado)
gli episodi della patologia di MUSIANI la cui prima manifestazione
di malattia risale addirittura al 1963 e la cui storia di sofferenza
psichica comprende vari e lunghi ricoveri in ospedale psichiatrico
giudiziario e in ospedali psichiatrici con numerosissimi episodi di
delirio nonché continue e gravi manifestazioni di aggressività nei
confronti di terzi, di intolleranza e di episodi a sfondo
persecutorio.
Legittima poteva quindi essere ritenuta la scelta di una progressiva
riduzione della terapia farmacologia ma altrettanto logica la
valutazione dei giudici di merito i quali hanno motivatamente
condiviso il giudizio dei periti di ufficio i quali hanno sostenuto
che, in un paziente affetto da una patologia di così elevata
gravità (che si caratterizza altresì, rispetto ad altre patologie
di natura psichica, per la maggior frequenza di episodi di
aggressività) , non cosciente della sua patologia e quindi con un
atteggiamento di limitata accettazione (se non rifiuto) della terapia
e con una forte carica aggressiva la scelta della riduzione e
soprattutto quella della eliminazione dei farmaci neurolettici
avrebbe potuto essere adottata in un paziente in remissione da almeno
cinque anni.
Già di questa remissione era assai dubbia l'esistenza anche perché,
riferiscono i giudici di merito, inspiegabilmente dall'epoca del
ricovero del paziente nella comunità Albatros (avvenuto nel
1995) e fino al 1999 - non risulta alcuna annotazione nella
cartella clinica di MUSIANI. E comunque i periti d'ufficio hanno al
contrario affermato che la situazione clinica di MUSIANI, al
momento della modifica della terapia, non era quella di un soggetto
in "remissione" sintomatologia ma, al contrario, era da tempo un
paziente sull'orlo dello scompenso, e quindi ad alto rischio di
scompenso, con persistenza di forti componenti di aggressività
nonché di sintomi "positivi"".
Ma, anche ammesso che si fosse realizzata una certa stabilizzazione e
che la patologia fosse attualmente in fase di parziale remissione, la
sentenza impugnata richiama, condividendola, la valutazione dei
periti i quali hanno ritenuto che - anche in presenza di una
remissione duratura delle manifestazioni più eclatanti della
malattia - la modificazione della terapia avrebbe dovuto essere
attuata con una ben diversa gradualità. Tanto più che un
significativo miglioramento delle condizioni psichiche di MUSIANI
era iniziato nel 1984 proprio quando era iniziata la terapia con la
somministrazione del farmaco Moditen depot.
In particolare, secondo il parere dei periti condiviso da entrambi i
giudici di merito e fondato su autorevoli studi svolti anche a
livello internazionale (nella sentenza di primo grado vengono
riportate le linee guida dell'American Psychiatric Association che si
esprimono in questo senso), la riduzione del farmaco neurolettico non
si deve effettuare per percentuali superiore al venti per cento ogni
volta e gli intervalli tra queste progressive riduzioni dovrebbero
durare tra i tre e i sei mesi. Regole di cautela macroscopicamente
violate dal dott. POZZI che ha ridotto già inizialmente la terapia
della metà e l'ha poi sospesa integralmente dopo poco più di un
mese senza quindi verificare gli effetti per un periodo di tempo
adeguato (anche in considerazione delle caratteristiche del farmaco a
lento rilascio che richiederebbe un periodo di osservazione
particolarmente prolungato per verificare gli effetti quando il
farmaco ha ridotto i suoi effetti) e senza intensificare le visite
come richiesto dalle linee guida cui si è già accennato.
In conclusione, sull'esistenza della colpa costituita dalla
grossolana violazione delle regole dell'arte medica psichiatrica, la
motivazione della sentenza impugnata deve ritenersi adeguata ed
esente da vizi logici e giuridici e si sottrae conseguentemente alle
censure del ricorrente.
9) La prevedibilità dell'evento. Strettamente collegato
all'accertamento dell'esistenza dell'elemento soggettivo del reato è
l'argomento, proposto con il quarto motivo di ricorso, che riguarda
la prevedibilità dell'evento poi concretamente verificatosi. Secondo
il ricorrente la sentenza impugnata non avrebbe accertato la
prevedibilità in concreto ma l'avrebbe ricollegata alla sola
esistenza della malattia psichica senza neppure tener conto della
circostanza che questa malattia era in remissione da oltre quindici
anni.
Sul tema della prevedibilità dell'evento occorre fare qualche
considerazione preliminare. La prevedibilità dell'evento,
riguardando l'elemento soggettivo e la sua esistenza, va accertata
con criteri ex ante (a differenza della causalità) e si fonda sul
principio che non possa essere addebitato all'agente di non aver
previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che
avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere.
Sotto quest'ultimo profilo la prevedibilità dell'evento è
certamente riferibile all'elemento soggettivo, la colpa, perché
attiene al processo cognitivo dell'agente (ma non nel senso meramente
psicologico) che è tenuto a prendere in considerazione le
conseguenze della sua condotta. Naturalmente, da questo angolo
visuale, l'agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha tenuto conto
delle conseguenze della sua condotta che conosceva o era tenuto a
conoscere in base alla sua professione e alla sua condizione.
Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo
risiede nella necessità di evitare forme di responsabilità
oggettiva. Se il risultato della condotta non poteva neppure essere
immaginato dall'agente, pur con l'adozione delle necessarie cautele,
sembra evidente che il risultato non possa essergli addebitato sotto
il profilo della colpevolezza. Perché l'agente possa essere ritenuto
colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una
regola cautelare ma è necessario che non abbia previsto che quella
violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell'evento.
Se dunque quella conseguenza dell'azione non è stata prevista
perché non era prevedibile non v'è responsabilità per colpa.
Ma qual'è il parametro cui occorre rifarsi per valutare la
prevedibilità (o, come taluni si esprimono in dottrina, il dovere di
riconoscere) ? Senza richiamare i termini del dibattito teorico che
tende ad escludere la natura esclusivamente psicologica della colpa
per ricollegarla al mero elemento oggettivo della violazione delle
regole cautelari (natura normativa della colpa) - è necessario
evitare di adottare un criterio che faccia riferimento all'agente
concreto per evitare di ricadere negli orientamenti che riferiscono
la colpa all'elemento psicologico; e infatti dottrina e
giurisprudenza seguono comunemente il criterio della prevedibilità
da parte dell'homo ejusdem professionis et condicionis non
diversamente da quanto avviene per l'individuazione dei criteri per
accertare il rispetto delle regole cautelari.
Il giudizio di prevedibilità vale a specificare il contenuto
dell'obbligo di diligenza altrimenti astratto. Si è affermato che
"basandosi sugli esiti del giudizio di prevedibilità, il contenuto
del dovere di diligenza otterrebbe una certa specificazione, con la
conseguenza di poter fornire delle note di concretezza a
quell'obbligo del neminem laedere altrimenti del tutto inafferrabile
nella sua astrattezza". Solo se il pericolo del verificarsi di un
evento dannoso è prevedibile o riconoscibile l'agente può essere
obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad
evitare il prodursi del fatto dannoso.
Alcuni Autori preferiscono parlare, piuttosto che di prevedibilità,
di "rappresentabilità" precisando che "questo termine possiede una
maggiore comprensività del primo, potendosi riferire non soltanto ad
accadimenti futuri, ma anche a quelli concomitanti o addirittura
antecedenti all'azione del soggetto". Altri ancora parlano di
"riconoscibilità" così esprimendosi: "la tipicità colposa risulta
configurabile allorché la situazione concreta sia stata
caratterizzata dalla presenza di elementi, giuridici e
fattuali.......che, in correlazione con le stesse leggi scientifiche
e conoscenze empiriche utilizzate dal giudice ai fini
dell'imputazione dell'evento, avrebbero permesso di rappresentarsi la
concreta realizzazione del fatto previsto dalla legge come reato
colposo").
La dottrina (e, in minor misura, la giurisprudenza che ha dedicato
una minore attenzione a questi temi) è quindi da tempo
sostanzialmente uniforme nel ritenere che il giudizio sulla colpa non
possa prescindere da una valutazione sulla prevedibilità che, non
essendo riferita all'agente concreto, ha caratteristiche di
oggettività pur essendo riferita alla colpevolezza.
Orbene nel nostro caso è sufficiente ripercorrere la storia clinica
del paziente per trovare conferma della correttezza della valutazione
sulla circostanza che lo sfondo delirante e persecutorio che
caratterizzava la patologia di MUSIANI rendeva del tutto
prevedibili manifestazioni eteroaggressive tanto più in quanto,
prima del fatto che ha dato origine al presente processo, numerose
altre e in varie epoche se ne erano verificate.
Anche perché, dal momento in cui il ricorrente ha preso in carico il
paziente e fino al momento della riduzione della posologia del
neurolettico sono almeno tre gli episodi sintomatici di una
situazione di possibile scompenso (tra questi uno in cui MUSIANI,
dopo un diverbio con un altro paziente, tentò di nascondere un
coltello temendo di essere aggredito). E si è già accennato ai due
episodi di natura delirante (la denunzia della sparizione dei soldi
in banca) verificatisi tra la riduzione e la sospensione della
terapia neurolettica.
Se dunque è stato accertato nel giudizio di merito che la patologia
da cui era affetto MUSIANI era idonea, se incongruamente trattata -
ed in particolare con una diminuzione e sospensione del trattamento
farmacologico in atto senza la gradualità richiesta - ad esasperare
le manifestazioni di aggressività nei confronti di terzi ne consegue
che la prevedibilità dell'evento sia stata logicamente affermata
(seppur implicitamente dai giudici di appello i quali hanno peraltro
richiamato la sentenza di primo grado che ne tratta adeguatamente e
qualifica come addirittura "imminente" la reazione violenta).
10) Il principio di affidamento e l'obbligo informativo del medico.
All'interno del quarto motivo il ricorrente propone poi una censura
che si riferisce all'addebito dei giudici di merito che hanno
affermato l'obbligo per il medico psichiatra di documentarsi
adeguatamente prima di modificare il trattamento farmacologico
facendosi esibire il diario tenuto dagli operatori nonché, dopo la
modifica della terapia, di pretendere di essere informato di
qualunque evenienza negativa.
Il ricorrente afferma invece che questa concezione risponde ad una
concezione gerarchica del rapporto tra consulente e struttura e ad
una logica custodialistica del trattamento della malattia psichica
non più ipotizzabile dopo la riforma del 1978. E proprio la
struttura complessa della comunità e la presenza di operatori
attrezzati professionalmente non poteva che indurre il medico
psichiatra a fare affidamento sulla corretta condotta di coloro che
operavano all'interno della struttura.
In merito al richiamato principio di affidamento può intanto
osservarsi che, in linea di massima, ciascuno risponde per le
conseguenze della propria condotta, commissiva od omissiva, e
nell'ambito delle proprie conoscenze e specializzazioni; non risponde
invece dell'eventuale violazione delle regole cautelari da parte di
altri partecipi della medesima attività o che agiscano nello stesso
ambito di attività (a meno che non gli sia attribuita una funzione
di controllo dell'opera altrui); sul rispetto delle regole da parte
di queste persone l'agente deve poter confidare ("principio di
affidamento") .
Sono da ritenere superate quelle posizioni che tendevano a far
ritenere prevedibili le altrui inosservanze delle regole cautelari;
oggi prevalgono le opinioni dirette a ritenere prevedibili le
violazioni solo nei casi in cui esistano elementi sintomatici
dell'esistenza o della probabile violazione della regola cautelare da
parte del terzo.
Solo se l'agente viene a conoscenza della violazione delle regole da
parte di altri partecipi nella medesima attività (per es.
un'operazione chirurgica svolta in equipe) - o comunque si trova in
una situazione in cui diviene prevedibile l'altrui inosservanza della
regola cautelare (che deve avere caratteristiche di riconoscibilità)
- ha l'obbligo di attivarsi per evitare eventi dannosi. Come è stato
affermato "le violazioni della diligenza altrui non sono oggetto del
dovere di rappresentazione gravante sul soggetto, purché la
situazione concreta non desse "occasione" per sospettare del
contrario".
Il principio di affidamento ha trovato una particolare elaborazione
nell'ambito della circolazione stradale nella quale ogni conducente
può, e deve, fare affidamento sul rispetto delle regole da parte
degli altri conducenti; non esiste infatti un obbligo di prevedere le
altrui imprudenze. Solo quando percepisca (o divenga percepibile) la
mancata osservanza delle regole da parte del terzo il conducente ha
l'obbligo a sua volta di porre in essere manovre di emergenza per
evitare danni (per es. chi si accorge per tempo che un veicolo marcia
contro mano ha l'obbligo di fermarsi; il titolare del diritto di
precedenza ha l'obbligo di eseguire le manovre idonee ad evitare
incidenti se percepisce tempestivamente che altro conducente
sfavorito non gli concede la precedenza).
Di maggior complessità è la soluzione di questi problemi nel caso
di obblighi "divisi", cioè nei casi nei quali una medesima attività
è svolta in equipe da più soggetti. È evidente che il concetto di
affidamento assume carattere diverso a seconda del tipo di attività
svolta, delle specializzazioni, competenze e capacità degli altri
partecipi, delle modalità e difficoltà dell'attività intrapresa.
I componenti di una equipe chirurgica avranno un ben diverso livello
di affidamento rispetto agli automobilisti che si trovino a
percorrere la medesima strada. Così ben diversa considerazione
dovrà avere l'eventuale condotta colposa da parte del capo equipe
rispetto a quella dei chirurghi che si trovino in posizione
subordinata e l'attività dei partecipi ad un intervento chirurgico
rispetto all'attività degli specialisti (problema che si pone
analogamente nel trattamento medico di patologie che richiedono
l'intervento di più specialisti). Ma non diverso sarà il criterio
cui dovrà ispirarsi il componente dell'equipe chirurgica che dovrà
attivarsi nel caso in cui concretamente appaia, o sia prevedibile, il
comportamento scorretto, o comunque inosservante, di altro titolare
dell'obbligo diviso tanto più se rivesta una posizione di
sovraordinazione gerarchica.
La semplice enunciazione dei principi che governano il principio di
affidamento mostra come, nel caso in esame, ci si trovi al di fuori
di questa problematica relativa al principio di affidamento che
sarebbe invocabile solo se gli operatori della comunità Albatros
avessero tenuto nascosti all'imputato gli episodi di scompenso, o
comunque significativi dell'aggravamento della patologia,
verificatisi.
Non solo questo "occultamento" delle informazioni non è stato
accertato dai giudici di merito ma va invece riaffermato il principio
che il medico ha l'obbligo di assumere (dal paziente o, se ciò non
è possibile, da altre fonti informative affidabili) tutte le
informazioni necessarie al fine di garantire la correttezza del
trattamento medico chirurgico praticato al paziente. Obbligo che
diviene ancor più pregnante nel caso di una iniziativa terapeutica
così delicata come la modifica del trattamento farmacologico di un
malato psichico grave che richiede necessariamente una conoscenza
delle fasi pregresse della malattia che il medico (soprattutto
perché da poco tempo incaricato di seguire il paziente) ha l'obbligo
di acquisire; tanto più nei casi di malattie nei quali si verifica
una scarsa o nulla collaborazione del paziente.
Nel nostro caso i giudici di merito hanno invece accertato che il
dott. POZZI aveva omesso completamente di acquisire le conoscenze
disponibili sul percorso patologico del paziente e di sollecitare
l'acquisizione delle informazioni necessarie (tra l'altro l'anamnesi
pregressa competeva proprio al dott. POZZI per cui è incongruo
parlare di principio di affidamento). Questa mancata acquisizione
delle informazioni è stata peraltro ammessa dal medesimo imputato
che ha dichiarato che ignorava addirittura che il paziente fosse
stato in passato ricoverato in ospedale psichiatrico giudiziario.
A maggior ragione, dopo la modifica del trattamento, proprio per i
rilevanti effetti negativi che tale modifica era idonea a provocare,
costituiva un obbligo del medico informarsi in modo continuativo
sull'evoluzione della malattia per verificare l'esistenza di questi
effetti in conseguenza della modificazione del trattamento. Certo,
anche gli operatori della comunità avevano l'obbligo di segnalare le
manifestazioni anomale del paziente ma ciò non fa venir meno
l'obbligo informativo che grava primariamente sul medico.
Si aggiunga che, nel giudizio di merito (v. sentenza di 1 grado a p.
27 e 32), è stato accertato che il dott. POZZI non provvedeva, nei
rari incontri con gli operatori, all'acquisizione delle informazioni
e delle notizie utili per la valutazione dello stato della malattia
nè risulta aver sollecitato le periodiche verifiche che l'equipe
avrebbe dovuto effettuare; e risulta anzi che le visite del dott.
POZZI nei confronti del MUSIANI sono sempre state "oltre che
contenute nel numero, improntate ad eccessiva fretta e
superficialità". Nè questa diligenza risulta essere aumentata nel
periodo più delicato, quello successivo alla diminuzione della
posologia.
Insomma è da ritenere del tutto adeguata, con riferimento ai fatti
incensurabilmente accertati nel corso del giudizio di merito, la
conclusione tratta dai giudici dall'esame di questa tragica vicenda
che non è quella, sostenuta nel ricorso, di una "concezione
gerarchica del rapporto fra consulente e struttura cui era affidato
il paziente" ma di un rapporto terapeutico instaurato e condotto in
modo gravemente negligente (oltre che imperito e imprudente nella
affrettata diminuzione e sospensione della terapia) in particolare
per la mancata assunzione di tutte le informazioni necessarie per
trattare il caso secondo le regole dell'arte medica psichiatrica
anche se riduttivamente vista in un'ottica di protezione esclusiva
del paziente.
È ovvio che se gli operatori della struttura - peraltro
separatamente giudicati - hanno omesso di trasmettere al medico
psichiatra informazioni utili e necessarie per il trattamento della
patologia potranno rispondere per aver posto in essere concause
dell'evento. Ma ciò potrebbe valere, al più, a far ritenere che la
condotta dell'imputato ha avuto efficacia concausale e non esclusiva
sul verificarsi dell'evento (che certamente - ma neppure il
ricorrente lo sostiene - non è ricollegabile ad una causa
sopravvenuta da sola idonea a determinare l'evento).
11) Il rapporto di causalità. La descrizione dell'intero meccanismo
causale. È adesso possibile riprendere il discorso sull'efficienza
causale della condotta colposa dell'imputato sul verificarsi
dell'evento (c.d. "causalità della colpa"). È evidente che la
censura relativa all'esistenza della posizione di garanzia in capo al
dott. POZZI in precedenza esaminata ha un significato determinante
in relazione all'elemento di colpa riferito all'omessa richiesta di
trattamento sanitario obbligatorio configurabile come una condotta
omissiva peraltro escluso come si è detto in precedenza.
Ma il ricorrente imposta in termini di causalità omissiva anche il
problema dell'efficienza causale del mutamento della terapia
farmacologia e deduce, nel quinto motivo di ricorso, la violazione
dell'art. 40 c.p., e il vizio di motivazione perché la sentenza
impugnata, in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza
di legittimità, si sarebbe ispirata a criteri probabilistici non
idonei a fondare il giudizio positivo sulla causalità ed avrebbe
omesso di accertare la concatenazione causale in tutti i suoi aspetti
fattuali e scientifici necessari per ritenere esistente il nesso di
condizionamento.
In merito a queste censure va preliminarmente esaminata la doglianza
che si riferisce alla mancata individuazione dell'intero e complesso
meccanismo causale che ha condotto all'evento inseritosi nella
tragica vicenda dell'accoltellamento dell'operatore (in particolare
difetterebbe, nel caso in esame, secondo il ricorrente,
l'accertamento che riguarda la concentrazione del principio attivo
del farmaco antipsicotico nel periodo immediatamente precedente il
tragico fatto) perché, da parte di alcuni autori e in alcune
decisioni, anche di legittimità, si afferma che, in questo caso, non
potrebbe ritenersi accertato il rapporto di causalità.
Si osserva, in contrario, che a questo dubbio aveva già dato una
precisa risposta la giurisprudenza di legittimità che, già con la
sentenza Cass., sez. 4, 6 dicembre 1990, Bonetti e altri, aveva
affrontato il problema in questi termini confermando il ragionamento
della Corte d'appello: "Come si vede, il discorso della Corte è di
esemplare linearità: è impossibile che il giudice, nell'accertare
il rapporto causale, venga a capo di tutti, conosca tutti i passaggi
causali, tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa
produce il suo effetto, che proceda ad una spiegazione fondata su una
serie continua di eventi; è sufficiente che il giudice, adottando il
modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, universali o
statistiche, "restando, cioè, vincolato a parametri oggettivi e
impersonali forniti dalla scienza" e, quindi, ripudiando il modello
individualizzante, colga, metta in luce, uno o più antecedenti che,
secondo quelle leggi scientifiche, universali o statistiche, siano
tali che senza lo stesso o gli stessi l'evento, con alto grado di
probabilità, con probabilità, cioè, logica o credibilità
razionale, non si sarebbe verificato;".
Più recentemente si è ancora affermato che il nesso di
condizionamento deve ritenersi provato non solo quando (caso
improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale
che ha dato luogo all'evento ma, altresì, in tutti quei casi nei
quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il
complessivo succedersi di tale meccanismo, l'evento sia comunque
riconducibile alla condotta colposa dell'agente sia pure con condotte
alternative; e purché sia possibile escludere l'efficienza causale
di diversi meccanismi eziologici (in questo senso v. Cass. , sez. 4,
15 marzo 1995 n. 2650, Trotta, in Giust. pen., 1996, 11, 445, che ha
ritenuto irrilevante l'indicazione di una delle cause alternative
dell'evento qualora le conseguenze dell'una o dell'altra soluzione
siano identiche. Nello stesso senso, più di recente, si è espressa
Cass., sez. 4, 17 aprile 2007 n. 21602, Ventola, rv. 237588; contra
Cass., sez. 4, 25 maggio 2005 n. 25233, Lucarelli, rv. 232013).
Una parola definitiva su questo punto è stata pronunziata dalla
sentenza Franzese delle sezioni unite che così si esprime: "poiché
il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le
quali la causa produce il suo effetto, ne' procedere ad una
spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l'ipotesi
ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra
condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata
soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia
ragionevolmente da escludere l'intervento di un diverso ed
alternativo decorso causale".
Ciò che rileva, quindi, è che siano individuati tutti i possibili
meccanismi eziologici e verificare se queste alternative
ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose)
di indagati e imputati; oppure che si possa comunque escludere che ne
esistano di ragionevolmente ipotizzabili che possano condurre
all'esclusione del contributo causale da parte dell'agente.
Queste conclusioni sono condivise anche dalla prevalente dottrina. Si
è detto che "non si può pretendere che il giudice spieghi l'intero
meccanismo di produzione dell'evento, e non lo si può pretendere
perché non è possibile conoscere esattamente tutte le "fasi
intermedie" attraverso le quali la causa "produce" l'effetto finale".
Ciò che rileva, lo si ribadisce, è che siano individuati tutti i
possibili meccanismi eziologici e verificare se queste alternative
ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose)
dell'agente.
Ma, prima di trarre le necessarie conclusioni da queste premesse,
occorre affrontare il tema della natura della causalità cui è stato
ricondotto l'evento.
12) Causalità commissiva e causalità omissiva. Si è già accennato
che il ricorrente imposta il tema della causalità in termini di
causalità omissiva: espressamente per quanto riguarda la mancata
richiesta del t.s.o.; implicitamente, come risulta dall'impostazione
delle censure, per quanto riguarda le condotte colpose riferibili al
mutamento della terapia cui il paziente era sottoposto.
Anche su questo tema occorrono alcune riflessioni preliminari sulla
distinzione tra causalità attiva ed omissiva. Su questo problema va
premesso che, in astratto, la distinzione tra causalità commissiva e
causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima viene violato un
divieto nella seconda è un comando ad essere violato. Non sempre
agevole è però la distinzione in concreto tra le due forme di
causalità.
In particolare nella responsabilità professionale medica (ma non
solo) viene frequentemente ritenuta omissiva una condotta che tale
non è anche perché sono ben pochi i casi nei quali la condotta cui
riferire l'evento dannoso è chiaramente attiva (il chirurgo ha
inavvertitamente tagliato un vaso durante l'intervento) o passiva (il
medico ha colposamente omesso di ricoverare il paziente). Nella
stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e
passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile
l'accertamento della natura della causalità.
È peraltro necessario evitare la confusione tra il reato omissivo e
le componenti emissive della colpa: i casi del medico che adotta una
terapia errata (e quindi omette di somministrare quella corretta) o
che dimette anticipatamente il paziente (e quindi omette di
continuare a curarlo in ambito ospedaliero) non rientrano nella
causalità omissiva ma in quella attiva.
Si è detto che i medici che hanno sbagliato diagnosi e terapia "non
hanno violato un comando penale, bensì solo un divieto di cagionare
(o contribuito a cagionare, si trattasse anche solo di accelerare)
lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza".
Causalità omissiva sarà dunque quella del medico che omette proprio
di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo. Al più potrebbe
ritenersi condivisibile il più recente orientamento secondo cui,
nell'ambito della responsabilità medica, avrebbe natura commissiva
la condotta del medico che ha introdotto nel quadro clinico del
paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi;
sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia
contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente.
Alla luce delle considerazioni svolte non possono esservi dubbi sulla
natura commissiva della causalità nel caso in esame.
Il dott. POZZI non ha violato un comando omettendo di intervenire
in un caso che richiedeva la sua attivazione ma ha violato il divieto
di somministrare le terapie farmacologiche in modo incongruo prima
con una immotivata riduzione alla metà del farmaco neurolettico e
poi addirittura sospendendo, senza un adeguato periodo di
osservazione, la terapia in tempi troppo ravvicinati e senza un
approfondito esame delle conseguenze della modifica terapeutica.
E, anche richiamando la più recente ricostruzione ricordata, può
affermarsi che il medico abbia introdotto nel quadro clinico del
paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi. Si
badi, non si tratta di un riferimento alla non condivisibile (e ormai
ampiamente superata) teoria dell'aumento del rischio ma di una
ricostruzione che tiene conto della introduzione di un fattore
causale che ha certamente cagionato, o contribuito a cagionare,
l'evento.
Se dunque nel caso in esame la causalità ha natura commissiva e se
l'evento è da ritenere causalmente ricollegabile alla condotta
dell'imputato in termini di sostanziale certezza è evidente che non
è necessario porsi la domanda, che si pone il ricorrente, su che
cosa sarebbe avvenuto se la modifica terapeutica non fosse avvenuta;
domanda che trova la sua ragione nella circostanza che è
statisticamente accertato che una certa percentuale di scompensi nei
pazienti psicotici avviene anche con il mantenimento della terapia.
Questa domanda sarebbe legittima se si trattasse di causalità
omissiva: il medico che non ha somministrato il farmaco salvifico
risponde della morte del paziente se, in base al giudizio
controfattuale, può ritenersi, in termini di elevata credibilità
razionale, che l'evento non si sarebbe verificato se il medico avesse
compiuto l'azione richiesta.
Ma, nel nostro caso, i giudici di merito hanno motivatamente ritenuto
accertato, in termini di sostanziale certezza, che la crisi si è
scatenata a seguito del mutamento incongruo della terapia
farmacologia; dunque l'ipotesi formulata dal ricorrente costituisce
una congettura priva di alcuna conferma ed estranea all'evidenza
probatoria del processo che anzi mostra l'esistenza di una situazione
di sostanziale compenso durata circa quindici anni pur con periodici
episodi di rottura di questa situazione di equilibrio.
Il giudizio controfattuale non va dunque compiuto, come
implicitamente richiede il ricorrente, dando per avvenuta una
condotta impeditiva che non c'è stata e chiedendosi se, posta in
essere la medesima, l'evento sarebbe ugualmente avvenuto in termini
di elevata credibilità razionale. Ma chiedendosi se, ipotizzando non
avvenuto il mutamento del trattamento farmacologico, si sarebbe
ugualmente verificato il processo patologico che ha condotto il
paziente allo scompenso conclamato cui è riconducibile l'aggressione
a CARDELLI.
E su quale debba essere la risposta a questo quesito la Corte di
merito ha fornito la motivata e non illogica risposta cui si è più
volte fatto cenno. È infatti possibile che, se la terapia non fosse
mutata, si sarebbero potuti verificare in futuro altri episodi di
scompenso; ma lo scompenso che si è in concreto verificato è stato
eziologicamente ricollegato - in base all'evidenza disponibile ed in
particolare agli accertamenti peritali - al mutamento terapeutico, si
è manifestato come conseguenza prevista e prevedibile di questo
mutamento e non costituisce quindi uno degli episodi statisticamente
possibili di inefficacia del farmaco.
E quindi possibile dare una risposta al quesito formulato nel
capitolo precedente: l'evento hic et nunc verificatosi è causalmente
ricollegabile alla condotta dell'imputato in termini di elevata
credibilità razionale e l'ipotesi alternativa formulata è fondata
su una mera congettura che peraltro neppure potrebbe essere presa in
considerazione nel giudizio di legittimità.
Ed è ora possibile dare anche una risposta al quesito posto in
precedenza e relativo alla verifica dell'esistenza dei presupposti di
natura soggettiva per la verifica in concreto dell'ammissibilità del
concorso colposo nel delitto doloso: sull'imputato gravava una
posizione di garanzia di protezione a tutela del paziente e la regola
cautelare violata dal dott. POZZI era finalizzata anche ad evitare
eventi del tipo di quello in concreto verificatosi. Con la
conseguenza che, anche sotto questo profilo, la responsabilità
dell'agente nella causazione dell'evento non può essere esclusa.
14) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del
ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali oltre alle pronunzie sull'azione civile di cui al
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, rigetta il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
La condanna altresì a rifondere alle parti civili le spese sostenute
dalle medesime per il presente grado di giudizio; spese che liquida
in complessivi Euro 3.000,00 per la parte civile Bendini Ivana e in
complessivi Euro 3.600,00 per le parti civili Bertolasi Monica e
Cardelli Alessandro; oltre, per tutte le medesime parti civili,
I.V.A. e C.P.A. e spese generali come per legge.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2008