Sez. 4,
Sentenza
n. 4107
del 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. CAMPANATO Graziana - Presidente - del 12/11/2008
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere - SENTENZA
Dott. MARESCA Mariafrancesca - Consigliere - N. 1987
Dott. MAISANO Giulio - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere - N. 22481/2008
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) CALABRÒ FORTUNATO nato a Reggio Calabria il 28 maggio 1963;
2) DIECI MASSIMILIANO nato a Milano il 6 novembre 1963;
avverso la sentenza 11 luglio 2007 della Corte d'Appello di Milano;
udita la relazione del Consigliere Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sost.
Procuratore Generale Dott. DI CASOLA Carlo, che ha concluso per il
rigetto dei ricorsi;
udito il difensore delle parti civili Avv. ROSSI GALANTE Franco che
ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
uditi gli avv.ti D'AGOSTINO Michele e RIPAMONTI Daniele per Calabrò
F. nonché gli avv.ti ISOLABELLA Lodovico e KROGH Massimo per Dieci
M. i quali hanno concluso per l'accoglimento dei ricorsi
rispettivamente proposti.
La Corte:
OSSERVA
1) I fatti oggetto del processo. Il 5 maggio 2003 CALDERINI
ANDREA si trovava nella sua abitazione sita al terzo piano
dell'edificio in Milano, via Carcano 19. Ad un certo punto, con
un'arma da fuoco di cui aveva la disponibilità, iniziava a
bersagliare i passanti colpendone alcuni (ZANIBONI DANIELA, TOSO
PIERO, LITTA MODIGLIONI GIOVANNI MAURIZIO) e provocando loro gravi
lesioni.
Le forze dell'ordine, prontamente intervenute, entravano
nell'edificio e rinvenivano, nell'appartamento sito al primo piano,
il corpo senza vita di una donna (VINASSA DE REGNY MARIA STEFANIA)
attinta da colpi d'arma da fuoco. Al terzo piano dell'edificio,
nell'appartamento occupato da CALDERINI, si trovavano i corpi senza
vita del medesimo CALDERINI e della sua convivente SCALORI
HELIETTA, anch'essi attinti da colpi d'arma da fuoco. Nella medesima
abitazione veniva rinvenuta anche una pistola semiautomatica marca
Kimber cal. 45.
Le indagini successivamente svolte consentivano di accertare che
tutti i colpi esplosi nei confronti dei passanti, delle due donne
trovate uccise e che avevano attinto anche CALDERINI erano stati
esplosi con la pistola semiautomatica indicata che lo sparatore
risultava detenere legalmente.
Emergeva anche che il predetto aveva manifestato da tempo una grave
sofferenza psichica; nel 1990, all'atto della visita medica per il
servizio militare, era stata formulata la diagnosi di "personalità
fragile e tratti schizoidi" mentre nel 1995 era stata diagnosticato
un "disturbo ossessivo compulsivo" (DOC). Era stato in cura presso
diversi medici psichiatrici con sottopossizione a terapie
farmacologiche di vario tipo senza effetti positivi tanto che, in tre
occasioni, aveva tentato il suicidio. In diverse occasioni era stato
anche ricoverato presso ospedali e cliniche private.
Dal 1997 era stato in cura presso il dott. MASSIMILIANO DIECI
che gli aveva somministrato un medicinale contenente un principio
attivo (sertralina) che inizialmente si era rivelato efficace;
successivamente la situazione del paziente si era però nuovamente
aggravata tanto che, nel periodo 1998 - 2000, CALDERINI si era
reso responsabile di fatti di violenza, di minacce, danneggiamenti ed
altri episodi che confermavano l'esistenza di una patologia
psichiatrica.
Nel dicembre 2002, dopo essersi informato presso un'agenzia
specializzata per l'ottenimento di documenti e licenze, CALDERINI
si recava dal proprio medico di fiducia (dott. REGGIANI)
chiedendogli di redigere (su apposito modulo) il certificato
anamnestico richiesto il rilascio di una licenza di porto di fucile
ad uso sportivo. Il dott. REGGIANI rifiutava di rilasciare il
certificato precisando di non essere in grado di valutare le
condizioni cliniche del suo assistito e CALDERINI si recava quindi
dal suo psichiatra, dott. DIECI M.. All'esito veniva in possesso,
oltre che di un certificato di sana e robusta costituzione fisica, di
un certificato redatto, nella parte espositiva, con grafia diversa da
quella con cui era stata redatta la firma (M. DIECI).
Questo certificato, secondo i giudici di merito, presentava varie
anomalie: oltre alla indicazione di un numero errato della asl di
appartenenza e alla correzione della data indicava
contraddittoriamente che l'interessato non faceva uso di sostanze
psicoattive e contemporaneamente indicava l'uso di ansiolitici. Il
certificato di sana e robusta costituzione fisica (peraltro non
richiesto per l'ottenimento della licenza) dava atto dell'assenza di
malattie incidenti sulla capacità di intendere e di volere.
Il dott. DIECI M. nell'interrogatorio reso al p.m. negava di aver
compilato e sottoscritto il certificato anamnestico mentre ammetteva
di aver compilato e sottoscritto l'altro certificato (quello di sana
e robusta costituzione fisica).
Ottenuti i due certificati CALDERINI A. si presentava al medico
militare dott. FORTUNATO CALABRÒ che, all'esito della visita e in
base alla documentazione prodotta, rilasciava il certificato di
idoneità per il rilascio o il rinnovo della licenza per il porto
d'armi che veniva successivamente rilasciata a CALDERINI A. dalla
Questura di Milano.
2) La sentenza di primo grado. Esercitata l'azione penale e disposto
il rinvio a giudizio nei confronti di CALABRÒ FORTUNATO e DIECI
MASSIMILIANO - per i delitti di omicidio colposo plurimo e lesioni
colpose plurime nei confronti di entrambi gli imputati e, nei
confronti del solo Dieci M., per il delitto di cui all'art. 481
c.p. - con sentenza 8 aprile 2005 il Tribunale di Milano riteneva
entrambi gli imputati responsabili di tutti i reati loro ascritti e
li condannava alle pene ritenute di giustizia.
Il giudice di primo grado esprimeva il convincimento che la firma in
calce al certificato anamnestico fosse stata apposta dal dott. Dieci
M. avvalorando questa valutazione in base ai risultati della perizia
collegiale grafica eseguita e a considerazioni di ordine logico e
ritenendo, in conclusione, che il certificato fosse stato rilasciato
a CALDERINI A. firmato e "in bianco".
Secondo il primo giudice entrambi gli imputati avevano contribuito a
cagionare gli eventi con la loro condotta gravemente colposa. Gli
imputati dovevano rispondere dell'evento non già a titolo di
concorso colposo nel delitto doloso di CALDERINI A. ma a titolo
proprio avendo posto in essere una condotta che aveva avuto influenza
decisiva nella determinazione degli eventi che dovevano inoltre
essere ritenuti prevedibili ed evitabili. Inoltre, secondo il primo
giudice, le eventuali condotte colpose di chi aveva poi rilasciato il
porto d'armi non avevano interrotto il rapporto di causalità tra la
condotta degli imputati e l'evento così come questa interruzione non
poteva ritenersi esistente in relazione alla posizione del dott.
Dieci M. per la successiva condotta colposa del dott. CALABRÒ
F..
3) La sentenza d'appello. La sentenza di secondo grado, dopo aver
ripercorso i fatti oggetto del processo, esamina la posizione del
dott. DIECI M. e precisa le ragioni, già indicate dai periti
nominati nel primo giudizio, che consentivano di ritenere vera la
firma apposta dal predetto sul certificato anamnestico del 9 dicembre
2002 mentre tutte le altre scritturazioni sul certificato risultano
sicuramente attribuibili a CALDERINI A.. La Corte si sofferma poi
sulle argomentazioni logiche che confermerebbero questa tesi.
La Corte trae conferma della tesi che il dott. Dieci M. abbia
sottoscritto il certificato dalla circostanza che certamente
l'imputato ha rilasciato nella medesima occasione il "certificato di
"sanità fisica e mentale" necessario per il rilascio del nulla osta
per il porto d'armi. Viene poi ritenuta irrilevante, dai secondi
giudici, la soluzione del problema se il certificato anamnestico sia
stato compilato da CALDERINI A. sotto dettatura del dott. DIECI
M. ovvero se il medesimo sia stato rilasciato "in bianco" ovvero
ancora se il paziente si sì a presentato con il certificato già
compilato perché in tutti i casi la condotta dell'imputato sarebbe
da ritenere colposa.
La Corte conferma poi l'idoneità del certificato a consentire la
realizzazione dell'evento; esclude che la successiva condotta del
dott. CALABRÒ F. e degli organi di polizia siano stati da soli
sufficienti a determinare l'evento; ravvisa sia la prevedibilità che
la evitabilità dell'evento; condivide la tesi del primo giudice
secondo cui l'evento sarebbe stato cagionato da condotte colpose
indipendenti e non si tratterebbe quindi di un concorso colposo nel
delitto doloso di un terzo; conferma infine sia le statuizioni civili
pronunziate dal primo giudice che il trattamento sanzionatorio.
Per quanto riguarda la posizione di CALABRÒ F. la sentenza
impugnata ribadisce che l'imputato, pur essendo la prima volta che
visitava CALDERINI A., era perfettamente in grado di rendersi conto
dello stato di sofferenza psichica di CALDERINI A. emergente dalla
documentazione sanitaria esibitagli e le cui anomalie erano del tutto
evidenti. Nè la Corte condivide la tesi dell'appellante secondo cui
il medico certificatore deve limitarsi a recepire la valutazione
contenuta nel certificato anamnestico ed afferma invece l'esistenza
di un obbligo di verificare l'esistenza di tutte le condizioni,
fisiche e psichiche, richieste per il rilascio della licenza.
Alla luce di queste considerazioni la Corte di merito afferma di
condividere le conclusioni del primo giudice laddove ha ravvisato
l'esistenza di una condotta gravemente negligente da parte del dott.
CALABRÒ F. e l'esistenza del rapporto di causalità tra questa
condotta e gli eventi verificatisi. La Corte spiega poi le ragioni
che dovevano indurre in allarme l'appellante sull'esistenza di una
situazione che doveva far dubitare della idoneità psico fisica di
CALDERINI A. - tanto più che si trattava di numerose anomalie
riguardanti la documentazione esibita - e sottolinea come,
trattandosi della prima volta che CALABRÒ F. visitava CALDERINI
A., maggiore avrebbe dovuto essere la sua attenzione nell'esame
della documentazione.
La sentenza ribadisce ancora che l'evento era prevedibile ed
evitabile, che non esiste interruzione del rapporto di causalità in
conseguenza della condotta dei funzionari di polizia che avevano
successivamente esaminato la domanda di CALDERINI A.; esclude che
possa ravvisarsi l'ipotesi di cui all'art. 48 c.p. per essere stato
l'agente indotto in errore dalla certificazione del dott. DIECI M.
proprio in considerazione dell'obbligo dell'appellante di valutare
autonomamente l'esistenza dei requisiti psico - fisici.
Infine la sentenza ribadisce la correttezza del trattamento
sanzionatorio applicato e delle statuizioni civili contenute nella
sentenza di primo grado.
4) Il ricorso proposto dal dott. MASSIMILIANO DIECI. Nel ricorso
proposto dal dott. DIECI M., a mezzo del suo difensore avv.
Lodovico Isolabella, si ripercorrono inizialmente le affermazioni
contenute nella sentenza impugnata e si sottolinea la contraddizione
tra i vari accertamenti indicati nella sentenza impugnata. In
particolare, secondo il ricorrente, appare del tutto contraddittorio
affermare che il dott. DIECI M. abbia omesso di segnalare le
patologie da cui era affetto CALDERINI A. e poi affermare, in
relazione alla posizione del dott. CALABRÒ F., che questi avrebbe
dovuto immediatamente percepire la necessità di ulteriori
accertamenti, in particolare per la segnalazione dell'uso giornaliero
di psicofarmaci.
Il ricorso sottolinea poi l'erroneità di alcune delle affermazioni
contenute nella sentenza impugnata. In particolare che il medico
psichiatra fosse quello competente a rilasciare il certificato
anamnestico dovendo invece ritenersi unico competente a rilasciarlo
il medico di fiducia. Quello firmato dal ricorrente non è un
certificato ma un "modulo" anche se firmato da un medico.
Il ricorrente sottolinea poi che, proprio per la natura e funzione
del certificato e per l'inesistenza della legittimazione in capo a
lui a firmarlo non sarebbe ipotizzabile l'esistenza degli elementi
costitutivi dell'art. 481 c.p. anche perché DIECI M. non era il
medico di fiducia (l'unico abilitato a redigere, si ribadisce ancora
una volta, il certificato) di CALDERINI A. e di ciò il dott.
CALABRÒ F. aveva la possibilità di rendersi conto perché il
tesserino sanitario a lui esibito dal paziente indicava il nome del
medico di fiducia (dott. REGGIANI).
Con specifico riferimento all'ipotesi di reato prevista dall'art. 481
c.p. il ricorrente ribadisce poi che quello da lui asseritamene
firmato non è un certificato finalizzato al rilascio del porto
d'armi posto che non competeva a lui la formazione del documento e
comunque non può essere considerato ideologicamente falso perché
attestava l'assunzione giornaliera di ansiolitici; nell'altro
certificato si limitata ad affermare cosa corrispondente al vero -
che non esistevano patologie che compromettevano la capacità di
intendere e di volere. Incomprensibile è dunque, secondo il
ricorrente, la conclusione del giudice di appello secondo cui i due
certificati erano finalizzati al rilascio del porto d'armi.
Tutto ciò premesso il ricorrente evidenzia poi che la condotta di
CALDERINI A., integrando un reato di natura dolosa, "creando un
determinismo causale psicologicamente ed oggettivo autonomo,
necessario e sufficiente alla determinazione dell'evento, escluda la
rilevanza di qualsiasi precedente vicenda, eziologicamente
estollendola".
Il ricorrente ricorda ancora che il dott. DIECI M. aveva contenuto
con le sue terapie le manifestazioni più gravi della patologia (DOP)
di CALDERINI A., che gli esperti avevano escluso che questa
patologia fosse idonea a limitare la capacità di intendere e di
volere - e la sentenza impugnata non pone in discussione questa
valutazione - e che quindi alcun elemento di colpa sia ravvisabile
nella sua condotta.
Quanto al certificato di sana e robusta costituzione fisica nel
ricorso si ribadisce che si trattava di una certificazione non
richiesta per i fini indicati e si sottolinea, nel ricorso, che la
medesima Corte d'Appello lo qualifica come "inutile"; si precisa
ancora che non era diretto al medico certificatore e che il
certificato anamnestico non esisteva giuridicamente come emergeva
pacificamente dal tesserino sanitario che la Corte di merito neppure
ha preso in considerazione.
Passando poi all'esame del problema relativo all'autenticità della
firma del dott. DIECI M. in calce al certificato anamnestico nel
ricorso si sottolinea che la Corte di merito - nel ritenere
irrilevante se il certificato sì a stato firmato "in bianco" ovvero
se CALDERINI A. l'aveva già compilato quando gli era stato
sottoposto ha inspiegabilmente omesso di considerare l'ipotesi più
ragionevole, che il predetto avesse "carpito" la firma del dott.
DIECI M..
Inoltre la Corte ha immotivatamente escluso che la compilazione del
certificato possa essere avvenuta ad opera di terzi tanto più che il
termine "ansiolitici" è palesemente attribuibile a persona diversa
da quella che ha vergato il resto del certificato; si sottolinea poi
nel ricorso che le conclusioni dei periti di ufficio erano state
confutate in modo argomentato dagli altri esperti del cui parere la
sentenza impugnata non ha tenuto alcun conto peraltro dando atto che
si trattava di conclusioni che presentavano ampi margini di
incertezza.
5) I motivi nuovi di DIECI MASSIMILIANO. In data 23 ottobre 2008 il
difensore di DIECI M. ha depositato motivi nuovi con i quali
riprende e sviluppa le argomentazioni contenute nei motivi originari.
In particolare si ribadisce che il certificato apparentemente
sottoscritto dal ricorrente non poteva essere considerato un
certificato anamnestico per il conseguimento del porto d'armi perché
questa certificazione può essere rilasciata soltanto da un medico
inquadrabile nel servizio sanitario nazionale e quindi dal medico di
fiducia.
Con la conseguenza che non poteva ritenersi violato l'art. 481 c.p.
perché il certificato non era riferibile ad un medico inserito in
tale servizio: la Corte ha confuso la figura del medico di fiducia
(che non ha di per sè un rapporto con la pubblica amministrazione)
con quella del medico di base che invece questo rapporto ha.
Si ribadisce poi che non risultava provata l'esistenza della colpa
sotto il profilo della prevedibilità dell'evento sia sotto il
profilo della condotta del dott. CALABRÒ F. in relazione alla
condotta posta in essere da CALDERINI A. il 5 maggio 2003.
La Corte avrebbe poi omesso di considerare, non avendo tenuto il
necessario conto dell'"alleanza terapeutica" che deve instaurarsi tra
medico e paziente, dell'esito disastroso che avrebbe avuto un rifiuto
del dott. DIECI M. alla richiesta di rilasciare al paziente una
certificazione dalla quale risultava che egli non era "pazzo", con il
rischio del suicidio. E peraltro il miglioramento delle condizioni di
salute verificatosi dopo che l'imputato aveva iniziato a seguire il
paziente dimostrava l'imprevedibilità della conclusione finale.
Il ricorrente sottolinea poi come la configurazione giuridica data
dai giudici di merito - che hanno escluso la cooperazione colposa nel
delitto doloso (peraltro neppure giuridicamente ipotizzabile) -
conferma che la condotta dolosa di CALDERINI A. si è posta come
una causa esclusiva dell'evento.
Nei motivi nuovi si riprendono poi le critiche contenute nei motivi
originari in merito alla prova grafologica (rectius grafica) con
l'esame specifico delle singole lettere così come considerate dai
periti e precisando come la Corte di merito non abbia dato alcuna
spiegazione della diversa inclinazione che le lettere mostravano
rispetto a quella riscontrabile nelle scritture di comparazione. Il
ricorrente sottolinea come i giudici di merito non abbiano
considerato le divergenze tra le risultanze della perizia d'ufficio e
il parere dei suoi consulenti ma neppure abbiano tenuto conto delle
conclusioni dei consulenti delle parti civili.
Il ricorrente ribadisce poi le critiche contenute nei motivi di
ricorso con riferimento alla tesi della firma "carpita"; tesi che non
è stata presa in considerazione dalla sentenza impugnata che neppure
ha tenuto conto di circostanze di fatto che confermavano questa
ipotesi (la "pieghettatura" del foglio contenente il certificato
anamnestico). Il ricorrente sì duole inoltre che sia stata pretesa
un'inammissibile inversione dell'onere della prova imponendosi a
DIECI M. di dimostrare di essere stato vittima dell'inganno da
parte di CALDERINI A..
Quanto infine alla prova (definita "grafologica" dal ricorrente) si
evidenzia (anche con la produzione dei motivi di appello) come la
sentenza impugnata non abbia preso in considerazione i motivi di
appello sul punto.
6) Il primo ricorso di CALABRÒ FORTUNATO. Il dott. CALABRÒ F.
ha proposto, a mezzo dei suoi difensori, due ricorsi contro la
sentenza della Corte d'Appello di Milano che ha confermato la sua
condanna nel giudizio di primo grado.
Con il primo ricorso, proposto a mezzo del difensore avv. Daniele
Ripamonti, si deduce anzitutto, come primo motivo, la violazione di
legge e il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta natura
colposa della condotta del dott. CALABRÒ F. perché i giudici di
merito avrebbero erroneamente attribuito al medico certificatore il
compito di verificare le condizioni psichiche della persona; compito
che è invece attribuito al medico che redige il certificato
anamnestico perché il medico certificatore vede per la prima volta
il richiedente e non è specializzato in psichiatria. Del resto il
certificato di idoneità non prevede alcuno spazio per l'annotazione
relativa all'esistenza dei requisiti psichici.
Si contesta poi che quelli indicati nella sentenza impugnata
potessero essere considerati, ex ante, segnali di allarme. In
particolare irrilevante era che il certificato fosse compilato con
grafie diverse perché ciò si verifica spesso; il numero della asl,
sia pure indicato in modo improprio, non era errato; l'apposizione
del timbro del medico non è prevista; la correzione della data è
del tutto normale. Per quanto riguarda l'uso degli ansiolitici il
ricorrente precisa che la provenienza del certificato da un medico
psichiatra, l'inesistenza delle altre cause ostative al rilascio e la
circostanza che il termine "ansiolitici" non è affatto improprio
erano circostanze che non potevano generare alcun allarme nel
ricorrente.
Del resto, secondo il ricorrente, palese è la contraddizione in cui
incorre la sentenza impugnata che per un verso afferma l'esistenza
dei una condotta colposa del ricorrente e per altro verso esclude che
i segnali ricordati, isolatamente considerati, fossero idonei a
mettere in allarme l'imputato; tanto più che la capacità di
intendere e di volere di CALDERINI A. era attestata dal coevo
certificato esibito dal paziente. D'altro canto è la stessa sentenza
impugnata che afferma la compatibilità tra le indicazioni contenute
nei due certificati rilasciati dal dott. Dieci M. il secondo dei
quali valeva a "sanare" eventuali dubbi che potessero sorgere dal
solo esame del certificato anamnestico.
Contraddittoria e manifestamente illogica sarebbe poi la sentenza
impugnata laddove per un verso afferma l'idoneità della
certificazione esibita a indurre in errore il medico certificatore e
sotto diverso profilo esclude invece l'efficacia esimente di questo
errore in cui il dott. CALABRÒ F. è stato indotto.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce il medesimo vizio con
riferimento all'esistenza del rapporto di causalità tra la condotta
asseritamene colposa del dott. CALABRÒ F. e l'evento. Secondo il
ricorrente - premesso che il solo uso di ansiolitici non consentiva
di prevedere i fatti poi verificatisi - l'evento può essere
addebitato oggettivamente all'agente solo se questi ha posto in
essere un antecedente che era in grado di dominare. Ma, nel caso in
esame, solo chi conosceva lo stato di salute di CALDERINI A. aveva
gli strumenti conoscitivi necessari al fine di prevedere un evento
omicidiario. E chi aveva questa conoscenza non era il ricorrente.
Quanto all'evitabilità dell'evento manifestamente illogica sarebbe
poi, secondo il ricorrente, la tesi della sentenza impugnata secondo
cui - ove non fosse stato rilasciato il porto d'armi - CALDERINI A.
non si sarebbe rivolto al mercato clandestino per procurarsi l'arma.
Questa è infatti una congettura non verificabile che non consente di
affermare che l'evento fosse evitabile anche in considerazione della
natura dolosa della condotta di CALDERINI A..
Ancora nel secondo motivo di ricorso il ricorrente evidenzia poi che
la sentenza impugnata avrebbe omesso di motivare sulla
riconducibilità dell'evento in concreto verificatosi alla malattia
psichica da cui era affetto CALDERINI A. e sottolinea come il
consulente del pubblico ministero abbia escluso che la manifestazione
di violenza verificatasi il 5 maggio 2003 sia riconducibile al
disturbo ossessivo compulsivo e al disturbo di personalità da cui il
paziente era affetto.
Inoltre la Corte di merito non avrebbe considerato che gli organi di
polizia non avrebbero potuto rilasciare il porto d'armi a CALDERINI
A. per svariate ragioni di ordine diverso (una precedente denunzia
di smarrimento era "palesemente fasulla"; il richiedente non aveva i
requisiti morali minimi per le numerose denunzie, querele e condanne;
dei fatti di violenza il commissariato era stato più volte
interessato). Si tratta di profili di colpa ascrivibili ai funzionari
di p.s. del tutto autonomi da quelli ascritti al ricorrente e quindi
idonei ad interrompere il rapporto di causalità tra la sua condotta
e l'evento.
Con il terzo motivo di ricorso si contesta invece la ricostruzione
compiuta dal giudice di merito sull'inquadramento giuridico dei fatti
accertati ricondotti ad un concorso di cause indipendenti che non
può essere ipotizzato perché la condotta dolosa di CALDERINI A.
è stata da sola sufficiente a cagionare l'evento mentre quella
asseritamente colposa non ha prodotto alcunché.
Secondo il ricorrente "se si ammettesse che il fatto colposo abbia
una relazione causale con l'altrui fatto doloso, non avrebbe più
alcun senso la verifica del nesso di causalità in punto di
prevedibilità ed evitabilità, così creandosi una forma di
responsabilità oggettiva". Sotto diverso profilo si osserva nel
ricorso che il fatto doloso del terzo è da solo sufficiente a
determinare l'evento essendo irrilevante che altri abbiano posto in
essere una condizione, meramente eventuale, per il verificarsi della
condotta dolosa.
Non trattandosi di cause indipendenti il ricorrente esclude poi che
nel nostro ordinamento possa configurarsi il concorso colposo nel
reato doloso sia perché l'art. 110 c.p. parla di concorso nel
medesimo reato mentre in questo caso ci si trova in presenza di reati
diversi; sia perché - quando il legislatore ha inteso consentire la
partecipazione a titolo diverso - lo ha espressamente previsto (art.
116 c.p.); sia perché l'art. 113 c.p. prevede la cooperazione solo
nel delitto colposo.
Infine con il quarto motivo di ricorso si deducono i medesimi vizi
attinenti alla motivazione, nonché la violazione di legge, con
riferimento alla quantificazione della pena.
7) Il secondo ricorso di CALABRÒ F.. Con il secondo ricorso,
proposto a mezzo del difensore avv. Michele D'Agostino, l'imputato
CALABRÒ F. deduce anzitutto, con il primo motivo, la violazione
degli artt. 42 e 43 cod. pen. nonché il vizio di motivazione in
riferimento all'affermazione della natura colposa della sua condotta.
Il ricorrente ripercorre la motivazione del giudice di merito e
illustra analiticamente le ragioni per le quali le presunte anomalie
che i giudici di merito hanno individuato nella certificazione
prodotta da CALDERINI A. in realtà non erano tali da far
sospettare alcuna irregolarità. Le argomentazioni sono analoghe a
quelle contenute nel primo ricorso così come analoga è la censura
che riguarda l'omessa valutazione, da parte della sentenza impugnata,
del motivo di appello concernente la circostanza che ogni dubbio sul
certificato anamnestico era stato eliminato con la presentazione del
secondo certificato redatto dal dott. DIECI M.. Si ribadisce
inoltre la contraddittorietà della sentenza impugnata laddove
riconosce l'inidoneità dei singoli elementi a generare una
situazione di allarme e poi invece ne afferma la rilevabilità se
complessivamente considerati.
Con il secondo motivo si censura invece la sentenza impugnata per
violazione degli artt. 40 e 41 c.p., nonché per il vizio di
motivazione, con riferimento all'esistenza del rapporto di causalità
tra condotta ed evento e alla ritenuta inesistenza di cause
sopravvenute da sole idonee a determinare l'evento. Sotto il primo
profilo il ricorrente sostiene che il ragionamento della Corte di
merito sul rapporto di causalità contrasta con il "diritto penale
del fatto, che stabilisce come ogni elemento costitutivo del reato
vada provato, in quanto instaura una presupposizione". Illogica
sarebbe poi la valutazione della Corte sulla probabilità e
prevedibilità dell'evento omicidiario.
Sotto il secondo profilo si sostiene nel ricorso come appaia evidente
l'illogicità della motivazione laddove ha escluso che la condotta di
CALDERINI A. abbia avuto caratteristiche di abnormità ed
eccezionalità. Solo il dott. DIECI M. - che aveva una conoscenza
precisa delle patologie di natura psichica che presentava il paziente
- avrebbe potuto prevedere il fatto omicidiario e quindi non è
possibile affermare la prevedibilità dell'evento in capo al
ricorrente. Palese è poi l'irragionevolezza di aver parificato le
condotte sotto il profilo sanzionatorio.
Infine con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione
dell'art. 110 c.p. per l'impossibilità di configurare, nel nostro
ordinamento, il concorso colposo nel delitto doloso. Le
argomentazioni sono analoghe a quelle contenute nel primo ricorso.
8) Le censure riguardanti la ricostruzione dei fatti da parte dei
giudici di merito. Premesso che saranno esaminate congiuntamente le
questioni comuni proposte da entrambi i ricorrenti va preliminarmente
precisato che la più parte delle censure dai medesimi formulate
sulla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, ed in
particolare dalla Corte d'Appello di Milano, sono inammissibili nel
giudizio di legittimità essendo dirette ad avvalorare una
ricostruzione diversa da quella compiuta dai giudici di merito e non
ad evidenziare mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà
della motivazione.
Ciò vale in particolare per quanto riguarda le censure che il dott.
DIECI M. rivolge, sia nel ricorso che nei motivi nuovi, sulla
riconducibilità alla sua condotta della firma apposta e del
contenuto del certificato anamnestico apparentemente da lui
rilasciato a CALDERINI A..
Si esamineranno più avanti le censure che riguardano la
configurabilità del delitto di cui all'art. 481 c.p.; per il momento
è sufficiente rilevare che la Corte di merito ha adeguatamente
motivato (richiamando il motivato parere dei periti grafici)
sull'autenticità della firma apposta dal dott. DIECI M. in calce
al certificato; e poiché il resto del certificato appare scritturato
da altra mano (che i periti hanno individuato in quella del medesimo
CALDERINI A.) del tutto logica è la conclusione dei giudici di
merito secondo cui il ricorrente ha posto in essere una condotta
tipica riferibile all'ipotesi di reato contestata o perché il
certificato non era scritturato o perché, se lo era, DIECI M. non
ne ha controllato il contenuto.
Nè muterebbero i termini del problema se la firma fosse stata
"carpita" al ricorrente, ipotesi congetturale che neppure viene
spiegata e che comunque condurrebbe comunque ad avere conferma che
l'imputato ha firmato un documento senza leggerlo con ciò
realizzando gli elementi costitutivi del reato contestato. Così come
irrilevante sarebbe la circostanza, pure prospettata dal ricorrente,
che il contenuto del certificato sarebbe stato vergato da due mani e
non da una sola.
Parimenti inammissibili sono le altre censure che riguardano
l'autenticità della firma del dott. Dieci M. e la riferibilità a
CALDERINI A. delle altre scritturazioni come anche le asserite
divergenze tra la perizia e le argomentazioni dei consulenti delle
parti avendo, i giudici di merito, recepito le conclusioni dei periti
dopo un motivato esame critico del loro elaborato.
Analoghe considerazioni vanno fatte per alcune delle censure
contenute nei ricorsi del dott. CALABRÒ F.. Ci si riferisce, in
particolare, alle critiche che vengono rivolte alla sentenza
impugnata laddove ha individuato i segnali "di allarme" contenuti nel
certificato anamnestico; segnali che, secondo i giudici di merito,
avrebbero dovuto indurre il medico certificatore ad approfondire la
situazione clinica del richiedente.
La diversità delle grafie nel certificato, l'erroneità del numero
della asl, la mancanza del timbro del medico (che non consente
neppure di decifrarne il nome e di accertarne l'eventuale
specializzazione o la qualità di medico di fiducia), la correzione
della data sono stati ritenuti, con argomentazioni certamente non
illogiche, segnali che avrebbero dovuto convincere CALABRÒ F.
della necessità degli opportuni approfondimenti e questa
valutazione, che involge un giudizio di merito, non può essere
contraddetta da una ricostruzione che isola i singoli elementi,
minimizza il significato di allarme di ciascuno di essi e opta per
una diversa valutazione di merito.
Prive di rilievo sono altresì le circostanze che il medico
certificatore vedeva il richiedente per la prima volta e non aveva la
specializzazione in psichiatria; anzi trattasi di circostanze che
avrebbero dovuto indurre semmai il medico ad una maggiore cautela
convincendolo ad approfondire ulteriormente l'esistenza di eventuali
situazioni ostative al rilascio della licenza.
Alcuna contraddittorietà (evidenziata da entrambi i ricorrenti, sia
pure con prospettazioni opposte) esiste poi tra la affermazione della
idoneità del certificato del dott. DIECI M. a trarre in inganno e
la ritenuta efficacia esimente di questo errore in cui il dott.
CALABRÒ F. è stato indotto; entrambe le condotte sono state
ritenute colpose e causalmente efficienti nel provocare l'evento e
poiché le irregolarità contenute nel certificato anamnestico erano
agevolmente rilevabili non esiste la contraddittorietà denunziata.
9) Cooperazione colposa o concorso di cause indipendenti. Entrambi i
ricorrenti formulano le critiche più vivaci nei confronti della
sentenza impugnata perché, ritenendo l'esistenza di cause
indipendenti, avrebbe eluso il problema della configurabilità della
cooperazione colposa nel caso di evento cagionato da una condotta
dolosa. Configurabilità che, secondo i ricorrenti, è da escludere
per le ragioni già indicate nella sintesi dei motivi di ricorso.
La soluzione di questo problema nel caso in esame si presenta con
aspetti di maggior complessità rispetto a quello, più frequente, di
una condotta colposa agevolativa di una condotta dolosa perché, in
questa tragica vicenda, si sono inserite più condotte (alcune delle
quali giudicate separatamente) che complicano il quadro d'insieme
fattuale e quindi il loro inquadramento giuridico.
Va intanto premesso che ciò che contraddistingue la forma di
concorso che il codice qualifica come cooperazione nel delitto
colposo (concorso che viene detto anche "improprio") è il legame
psicologico che si instaura tra gli agenti, ognuno dei quali è
conscio della condotta degli altri. Naturalmente la consapevolezza
riguarda esclusivamente la partecipazione di altri soggetti e non,
come è ovvio trattandosi di reati colposi, il verificarsi
dell'evento.
Non sembra però che per ritenere esistente la cooperazione colposa
sia richiesto un dippiù costituito dalla specifica coscienza o
conoscenza sia delle persone che cooperano sia delle specifiche
condotte da ciascuno poste in essere. Non ignora la Corte che una
corrente dottrinale sostiene che, per ipotizzare la cooperazione, sia
necessaria la consapevolezza anche della natura colposa dell'altrui
condotta ma questa tesi non è mai stata condivisa dalla dottrina
dominante che ha obiettato che, richiedendo questo requisito, la
cooperazione sarebbe configurabile solo nel caso di colpa cosciente.
Se, come è comunemente ritenuto, è invece sufficiente la coscienza
dell'altrui partecipazione e non è invece necessaria la conoscenza
delle specifiche condotte ne' dell'identità dei partecipi può
trarsi la conclusione che la cooperazione è ipotizzabile anche in
tutti quelle ipotesi nelle quali un soggetto è cosciente della
partecipazione di altri al contesto in cui si svolge la sua condotta
o, più specificamente (e con riguardo alla fattispecie in esame o a
casi consimili) interviene essendo a conoscenza che la trattazione
del caso non è a lui soltanto riservata perché anche altri soggetti
ne sono o ne saranno investiti.
Per esemplificare: se il medico di fiducia non è a conoscenza che il
paziente da lui assistito si rivolgerà anche ad altro medico e se
entrambi i sanitari errano colposamente nella terapia le eventuali
conseguenze dannose saranno a loro addebitate a titolo di condotte
colpose indipendenti. Il medico di reparto che ha seguito il
trattamento terapeutico è invece cosciente che, finito il suo turno,
altro medico subentrerà a lui anche se non conosce il nome di questi
e anche se non è a conoscenza se questi seguirà il medesimo
indirizzo terapeutico; ma se ciò avverrà - e la terapia errata
provocherà un evento dannoso - appare più corretto ipotizzare la
cooperazione perché ciascuno dei due medici (anche se non hanno
concordato la terapia e non hanno avuto alcun contatto tra di loro)
è consapevole dell'intervento dell'altro.
Queste conclusioni non riguardano soltanto l'organizzazione sanitaria
perché analoghi esempi potrebbero farsi in relazione ad altre
organizzazioni complesse quali le imprese e settori della pubblica
amministrazione (si pensi alla formazione di atti complessi nei quali
confluiscano atti adottati da persone diverse in tempi diversi senza
alcun rapporto tra i partecipi). Orbene in tutti questi casi esiste
il legame psicologico previsto per la cooperazione colposa perché
ciascuno degli agenti è conscio che altro soggetto (medico, pubblico
funzionario, dirigente ecc.) ha partecipato o parteciperà alla
trattazione del caso; in particolare, per quanto riguarda l'attività
medico chirurgica, l'agente è consapevole che, per quella specifica
patologia che ha condotto a sottoporre il paziente al trattamento
terapeutico, altri medici sono investiti del medesimo trattamento.
Nel caso in esame la cooperazione sarebbe quindi ipotizzabile perché
ciascuno degli agenti (il medico che ha redatto il certificato
anamnestico, il medico certificatore, il funzionario di polizia ove
ne venga accertata la responsabilità) - pur non avendo alcun
rapporto con gli altri - è purtuttavia consapevole che per la
medesima procedura, riguardante il rilascio del porto d'armi al
richiedente, sono intervenuti o interverranno altri soggetti.
È quindi possibile affermare che, in base agli accertamenti di fatto
incensurabilmente compiuti dai giudici di merito, la cooperazione
colposa era astrattamente configurabile e che quindi le norme che
disciplinano questa forma di concorso "improprio" non sono state
correttamente applicate essendo state ritenute condotte indipendenti.
Ma da ciò non derivano le conseguenze che i ricorrenti invocano
perché, come si spiegherà più avanti, anche nel caso di
cooperazione colposa è ipotizzabile il concorso colposo nel delitto
doloso e dunque l'errore di diritto può essere corretto da questa
Corte (art. 619 c.p.p., comma 1) senza che ne derivi l'annullamento
della sentenza impugnata. Sotto diverso profilo deve invece ritenersi
che l'impostazione dei giudici di merito sia corretta perché, pur
potendosi parlare di cooperazione colposa per quanto riguarda le
condotte degli agenti ritenuti (o che potranno essere ritenuti) in
colpa tutte queste condotte sono certamente indipendenti rispetto a
quella di CALDERINI A..
10) Il concorso colposo nel delitto doloso. Il tema
dell'ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso è stato
proposto nei ricorsi di entrambi i ricorrenti i quali contestano la
correttezza della soluzione adottata da entrambi i giudici di merito
che hanno risolto il problema collocandolo la fattispecie accertata
nella sfera delle cause indipendenti. Il tema deve essere affrontato
perché la sua soluzione nel senso voluto dai ricorrenti renderebbe
superfluo l'esame delle censure che riguardano la ricostruzione
teorica dei giudici di merito.
Non ignora la Corte che autorevoli orientamenti dottrinali si sono
espressi negativamente sulla possibilità che, nel nostro
ordinamento, possa configurarsi una forma di compartecipazione
colposa nel delitto doloso. I pilastri di questa posizione negativa
sono sostanzialmente due: l'art. 42 c.p., comma 2 - che prevede la
punibilità a titolo di colpa nei soli casi espressamente preveduti
dalla legge (e la legge non prevederebbe il concorso colposo nel
delitto doloso) - e l'art. 113 c.p. che prevede la compartecipazione
colposa solo nel caso di delitto colposo.
L'esame della giurisprudenza di legittimità consente di rilevare che
il più recente orientamento che abbia affrontato il problema è
orientata in senso favorevole a ritenere ammissibile il "concorso"
colposo nel reato doloso. Si vedano Cass., sez. 4^, 14 novembre 2007
n. 10795, Pozzi, rv. 238957 (relativa al caso di un omicidio
volontario commesso da un paziente psichico per il quale è stata
ritenuta la partecipazione colposa del medico curante) e Cass., sez.
4^, 9 ottobre 2002 n 39680, Capecchi, rv. 223214. Ma anche in
precedenza la Corte si è espressa nel medesimo senso (v. Cass., sez.
4^, 20 maggio 1987 n. 8891, De Angelis, rv. 176499 e 4 novembre 1987
n. 875, Montori, rv. 177472) che hanno ritenuto ammissibile il
concorso colposo in casi di incendio doloso sviluppatosi per la
negligente sistemazione del materiale infiammabile (lo stesso caso
della sentenza Capecchi).
Di contrario avviso erano stati altri precedenti, uno della medesima
sezione 4^ (sentenza 11 ottobre 1996 n. 9542, De Santis, rv. 206798),
uno della terza sezione (20 marzo 1991 n. 5017, Festa, rv. 187331) e
uno delle sezioni unite 3 febbraio 1990 n. 2720, Cancilleri, rv.
183495); questi ultimi due precedenti riguardano il caso del concorso
colposo del notaio nel reato di lottizzazione abusiva.
In realtà solo il primo precedente indicato può ritenersi contrario
all'ammissibilità della forma di partecipazione di cui stiamo
parlando perché il caso del concorso del notaio è caratterizzato
dalla circostanza che il reato di lottizzazione abusiva è ritenuto
(o almeno così era ritenuto all'epoca di questi precedenti) di
natura dolosa; e come sarebbe possibile configurare una
partecipazione colposa in un reato previsto solo nella forma dolosa
se non violando palesemente, in questo caso, il divieto dell'art. 42
c.p., comma 2? D'altro canto l'orientamento espresso dalle sezioni
unite si limita ad una mera enunciazione non motivata su questo
problema.
Ritiene la Corte, pur trattandosi di tema particolarmente complesso e
accidentato al quale sarebbe illusorio pretendere di dare risposte
definitive ed esenti da critiche che, pur con i limiti di seguito
indicati, possa darsi al quesito una risposta positiva.
Va premesso, pur non essendo questa la sede per addentrarsi in
ricostruzioni teoriche, che la premessa da cui questa Corte ritiene
di dover prendere le mosse è costituita dal riconosciuto superamento
delle teorie che si rifanno al concetto di unitarietà del fatto
reato di natura concorsuale (ritenuto un "dogma" da parte di un
illustre Autore pur contrario alla tesi dell'ammissibilità del
concorso colposo nel delitto doloso). Le difficoltà di inquadramento
teorico di queste forme di partecipazione soggettiva eterogenea (i
problemi si pongono anche per la partecipazione dolosa nel delitto
colposo) si attenuano riconoscendo la pluralità dei fatti reato nei
casi in cui l'evento sia unico.
Esaminando le obiezioni, già in precedenza indicate, alla tesi che
ritiene ammissibile il concorso è opinione di questa Corte che le
obiezioni (certamente serie) siano superabili.
È infatti proprio l'esame congiunto delle due norme già indicate
(art. 42 c.p., comma 2 e art. 113 c.p.) che consente di pervenire a
questa risposta; la compartecipazione è stata espressamente prevista
nel solo caso del delitto colposo perché, nel caso di reato doloso,
non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo
strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un
elemento ulteriore - potrebbe dirsi "in aggiunta" - rispetto a quelli
previsti per il fatto colposo, cioè l'aver previsto e voluto
l'evento (sia pure, nel caso del dolo eventuale, con la sola
accettazione del suo verificarsi). Insomma il dolo è qualche cosa di
più, non di diverso, rispetto alla colpa e questa concezione è
stata riassunta nella formula espressa da un illustre studioso della
colpa che l'ha così sintetizzata: "non c'è dolo senza colpa".
Se questa ricostruzione è plausibile la conseguenza è che non fosse
necessario prevedere espressamente l'applicabilità del concorso
colposo nel delitto doloso perché se è prevista la
compartecipazione nell'ipotesi più restrittiva non può essere
esclusa nell'ipotesi più ampia che la prima ricomprende e non è
caratterizzata da elementi tipici incompatibili. Questa rilettura
incrina anche il valore dell'obiezione che si fonda sulla previsione
dell'art. 42 c.p., comma 2: non si tratterebbe di una previsione
implicita di un reato colposo ma di una ricostruzione che ha
disciplinato espressamente un aspetto del problema sul presupposto
che la disciplina riguardasse anche il tema più generale.
È poi da rilevare che la già ricordata sentenza Capecchi ha
ritenuto superabile l'ostacolo della previsione dell'art. 40 c.p.,
comma 2, con un'ulteriore argomentazione che appare condivisibile:
questa disciplina, anche per la formulazione letterale usata dal
legislatore, non può che riguardare esclusivamente la previsione
delle singole norme incriminatici, che deve appunto essere espressa,
ma non la disciplina delle regole concorsuali che si deve trarre
dagli artt. 110 e 113 c.p.. Fermo restando, come si è già
accennato, che la partecipazione colposa può riguardare
esclusivamente un reato previsto anche nella forma colposa:
diversamente (lo si è già accennato) sarebbe palesemente violato il
disposto dell'art. 42 c.p., comma 2.
A questo punto si pone un ulteriore problema: che cosa avviene se ci
si trova in presenza di concorso di cause colpose indipendenti? Per
natura e per definizione in questo caso non ci troviamo in presenza
di un "concorso" di persone nel reato: tutte contribuiscono
causalmente al verificarsi dell'evento ma gli atteggiamenti
soggettivi non s'incontrano mai neppure sotto il profilo della
consapevolezza dell'altrui partecipazione come invece avviene nella
cooperazione colposa. In questi casi la concezione che si fonda
sull'unitarietà del reato non è solo un dogma ma è proprio da
ritenersi errata perché alcun legame esiste, sotto il profilo
soggettivo, tra le varie condotte anche se l'evento è unico.
Quando ci si trovi in presenza di cause colpose indipendenti
l'applicabilità delle regole sul concorso di cause è espressamente
prevista, sotto il profilo causale, dall'art. 41 c.p., comma 3,
prevede espressamente che questa disciplina si applichi anche quando
la causa preesistente, simultanea o sopravvenuta consista nel fatto
illecito altrui.
Ma proprio perché le condotte sono indipendenti le medesime andranno
autonomamente valutate e per ciascuna di esse andrà accertato se
abbia fornito un contributo causale al verificarsi dell'evento e se
la condotta causalmente efficiente sia caratterizzata dai requisiti
tipici della colpa. In questi casi, proprio per l'indipendenza delle
azioni, ogni condotta va separatamente individuata e, ciò che assume
particolare rilievo per la soluzione del nostro problema, diviene
irrilevante che uno o più dei contributi causali possa avere
carattere doloso perché la disciplina sulla causalità contenuta nel
citato art. 41 c.p. riguarda sia i reati colposi che quelli dolosi.
E allora se per il riconoscimento della partecipazione colposa
indipendente al reato doloso non esistono particolari ostacoli è
agevole concludere che sarebbe irragionevole, nel caso di
cooperazione, escludere la partecipazione colposa al delitto doloso
solo perché l'agente è consapevole della condotta colposa di altri
che con lui cooperano.
Il dippiù costituito da questa consapevolezza aggrava infatti, e non
attenua, il disvalore sociale della condotta: quale spiegazione
razionale potrebbe trovare una soluzione affermativa sulla
compartecipazione al reato doloso quando manca la consapevolezza di
questa condotta e non quando questa consapevolezza esista?
Deve dunque concludersi, sul tema esaminato, che è ammissibile il
"concorso" colposo nel delitto doloso sì a nel caso di cause colpose
indipendenti che nel caso di cooperazione colposa tra alcuni dei
compartecipi dei quali uno (o più) sia in dolo e purché, in
entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella
forma colposa e la sua condotta sia caratterizzata da colpa.
Riconosciuta l'astratta ammissibilità del concorso colposo nel
delitto doloso non è necessario addentrarsi nell'ulteriore aspetto
che presenta il caso in esame caratterizzato dalla circostanza che il
fatto "doloso" del terzo potrebbe essere stato compiuto da persona
non imputabile. Il riconoscimento della natura non dolosa della
condotta della persona non imputabile sarebbe infatti idoneo a
rafforzare la possibilità di riconoscere la compartecipazione
dell'estraneo.
Va però precisato che il riconoscimento dell'astratta possibilità
di concorso colposo nel reato doloso non significa che in ogni caso
questa compartecipazione vada riconosciuta perché, una volta
accertata l'influenza causale della condotta colposa dell'agente,
andrà verificata l'esistenza dei presupposti per il riconoscimento
di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell'evento.
Per la soluzione di questo complesso problema può intanto osservarsi
che, nel caso in cui l'evento dannoso si verifichi all'esito di una
sequenza di avvenimenti in cui si sia inserito il fatto doloso del
terzo è necessario verificare anzitutto, sotto il ricordato profilo
dell'elemento soggettivo, se la regola cautelare inosservata era
diretta ad evitare la condotta delittuosa del terzo: si pensi a chi,
preposto alla tutela di una persona, se ne disinteressi consentendo
all'assalitore di ledere l'integrità fisica della persona protetta.
È la posizione di garante rivestita dall'agente che fonda l'obbligo
di osservanza di determinate regole cautelari la cui violazione
integra la colpa.
Indipendentemente dall'esistenza di una posizione di garanzia
analoghi obblighi di tutela possono discendere dall'esistenza di un
potere di controllo di fonti di pericolo quali per es. armi, veleni,
esplosivi; per es. il farmacista non può vendere un farmaco
potenzialmente letale alla persona che sa aver già tentato di
avvelenare un familiare; chi possiede un'arma non può lasciarla
incustodita in un luogo frequentato da bambini. I casi già indicati
relativi alla creazione dei presupposti perché si sviluppi un
incendio doloso si inquadrano in questa categoria del controllo delle
fonti di pericolo.
Un utile strumento di verifica può poi essere quello che si rifà
allo scopo della regola cautelare violata dall'agente in colpa. Se la
regola cautelare è diretta anche alla tutela di terzi
dall'aggressione dolosa dei loro beni è la tutela finalizzata di
essi che rende configurabile la partecipazione dell'agente in colpa.
I casi più complessi sono ovviamente quelli nei quali la regola è
stata predisposta non tanto per altri fini ma in vista di decorsi
causali diversi: si pensi al lavoratore che opera in altezza e che
non sia stato munito delle cinture di sicurezza. Risponde il datore
di lavoro anche delle conseguenze di una caduta (che non si sarebbe
verificata con l'uso del mezzo di protezione) volontariamente
cagionata da un terzo?
È ragionevole ritenere, in questi casi, che ciò che rileva è
l'individuazione dell'evento dannoso che la regola cautelare mira ad
evitare: anche se questa regola è stata pensata in relazione a
percorsi causali diversi il rischio che la norma concretamente vuole
evitare è quello di caduta indipendentemente dalle cause che l'hanno
provocata. E così in tutte quelle situazioni nelle quali l'evento
volontariamente cagionato è della stessa natura di quello preso in
considerazione nella formazione della regola cautelare.
Diverso è ancora il caso in cui la condotta dell'agente costituisca
l'occasione perché il terzo compia l'atto doloso. In questo caso si
torna alle considerazioni iniziali: per ravvisare la responsabilità
colposa del primo agente occorrerà che questi sia titolare di una
posizione di garanzia o di un obbligo di tutela o di protezione e che
sia prevedibile l'atto doloso del terzo.
11) L'esistenza dell'elemento soggettivo. L'esame delle censure
riguardanti l'esistenza della colpa deve precedere quello riguardante
i motivi attinenti alla causalità perché, sotto il profilo del
nesso di condizionamento, le doglianze proposte con i ricorsi
attengono in modo del tutto prevalente alla c.d. "causalità della
colpa", cioè alla verifica se le violazioni di regole cautelari in
cui siano incorsi gli imputati abbiano causalmente influito sul
verificarsi degli eventi oggetto delle imputazioni.
Non è infatti in discussione, nel presente processo,
l'individuazione della causa materiale dei tragici eventi
verificatisi il 5 maggio 2003 e, tutto sommato, neppure è
contestata la "causalità della condotta" degli imputati (quanto meno
sotto il profilo del rilascio della licenza di porto d'armi; rilascio
al quale sicuramente la loro condotta ha contribuito) mentre oggetto
di vivaci censure da parte dei ricorrenti è l'affermazione
dell'esistenza della violazione di regole cautelari e la loro
influenza causale sugli eventi verificatisi.
Orbene sotto il profilo dell'accertamento della colpevolezza la
sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure proposte dai
ricorrenti. È infatti del tutto logico l'argomentare dei giudici di
secondo grado laddove hanno ritenuto gravemente negligente sia il
rilascio (nel senso di apposizione della firma) del certificato
anamnestico sia l'attestazione, contenuta nel separato certificato di
sana e robusta costituzione fisica (sicuramente opera del dott.
DIECI M.), che CALDERINI A. "non presenta patologie che possano
compromettere la capacità di intendere e volere".
L'esame unitario di questi due documenti era infatti idoneo a creare
una falsa apparenza di normalità psichica soprattutto a fronte della
possibilità, certamente non remota, di un esame superficiale da
parte del medico certificatore come puntualmente è poi avvenuto.
È dunque corretta la valutazione dei giudici di merito che hanno
ritenuto gravemente negligente la condotta del dott. DIECI M. che,
a fronte di un paziente con gravi problemi di natura psichica, firma
un certificato in bianco ben dovendo essere cosciente che chi lo
compilerà potrà occultare l'esistenza dei problemi più
significativi, in particolare "certificando" l'inesistenza di "turbe
pichiche". Nè la situazione muta - e l'agente va esente da colpa -
se il certificato era stato già compilato da CALDERINI A. al
momento della firma del dott. DIECI M. ovvero se la firma è stata
"carpita" perché in ogni caso la gravità della negligenza sarebbe
inequivoca.
Stiamo parlando infatti non di un certificato rilasciato per
giustificare un'assenza di un giorno dalla scuola o dal lavoro ma di
un documento propedeutico al rilascio del porto d'armi da parte di un
medico che conosceva tutti i seri problemi di natura psichiatrica che
il paziente presentava e che avevano già dato luogo ad episodi di
violenza e a tentativi di autosoppressione.
Va infatti rilevato che esistono casi in cui, per varie ragioni non
sempre riconducibili ad uno stato di necessità, vengono operate
scelte o consentite attività che possono indurre rischi nel loro
esercizio; attività che, per la loro utilità sociale o per altre
ragioni la legge permette di esercitare ma a determinate condizioni.
In questi casi si entra nel campo del c.d. "rischio consentito" (o si
accentua il rischio già presente in queste attività); e uno di
questi campi è, tipicamente, la detenzione o il porto delle armi.
In questi casi l'ordinamento consente di svolgere le attività
pericolose, o di svolgerle secondo modalità pericolose, ma richiede
ulteriori presidi cautelari idonei ad evitare (o a diminuire) il
rischio del verificarsi di eventi dannosi (per es. l'ordinamento può
consentire che vengano svolte gare di velocità automobilistiche ma,
ove le autorizzi, richiede ulteriori garanzie a tutela dei piloti,
degli addetti al circuito, degli spettatori; garanzie inimmaginabili
nell'ordinaria circolazione stradale che già costituisce
un'attività pericolosa).
E dunque "rischio consentito" (o aggravamento del "rischio
consentito") non significa esonero dall'obbligo di osservanza delle
regole di cautela ma semmai rafforzamento di tale obbligo soprattutto
in relazione alla gravità del rischio: solo in caso di rigorosa
osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi effettivamente
"consentito" per quella parte che non può essere eliminata.
Insomma l'osservanza delle regole cautelari esonera da
responsabilità per i rischi prevedibili, ma non prevenibili, solo se
l'agente abbia rigorosamente rispettato non solo le comuni regole
cautelari ma altresì quelle la cui osservanza è resa necessaria
dalle caratteristiche e dalle modalità che aggravano il rischio
richiedendo l'adozione di ulteriori e più rigorose regole cautelari.
Torniamo al nostro caso: il dott. DIECI M. conosce bene i problemi
di salute psichica di CALDERINI A. per averlo seguito ormai da
alcuni anni (in alcuni periodi anche con risultati positivi). È
ovvio che quando gli si prospetta che il paziente intende ottenere il
porto d'armi maggiore avrebbe dovuto essere la sua diligenza per
segnalare tutti i problemi di salute che lo riguardano ed
eventualmente rifiutare il rilascio del certificato anamnestico
(rilascio peraltro già rifiutato dal medico di fiducia di CALDERINI
A. che il dott. DIECI M. neppure si è preoccupato di contattare).
Nè lo scudo con il quale il dott. DIECI M. intende proteggersi -
quello dell'alleanza terapeutica con il paziente - può costituire il
via libera per mettere in discussione la sicurezza del paziente
medesimo e dei terzi.
Analoghe considerazioni vanno fatte in relazione alla pur diversa
condotta del dott. CALABRÒ F.; anche in questo caso risulta
argomentata e certamente non illogica la valutazione della Corte di
merito secondo cui un esame men che superficiale del certificato
anamnestico avrebbe dovuto indurre il medico certificatore ad un
approfondimento che invece il medico ha negligentemente omesso.
Sono già state indicate le ragioni che la Corte di merito ha
segnalato e che dovevano indurre il medico certificatore ad una
maggiore diligenza per le palesi irregolarità contenute nel
certificato rilasciato dal dott. DIECI M.. Tra l'altro il testo di
questo certificato non consente neppure di comprendere da chi
provenga in assenza di intestazione, di un timbro, della qualifica o
specializzazione del medico che risulta averlo firmato (firma neppure
comprensibile).
Ma ciò che avrebbe dovuto attirare l'attenzione del dott. CALABRÒ
F. è l'ulteriore circostanza che il certificato comunque
evidenziava un segnale di allarme sulla possibile esistenza di una
malattia di natura psichiatrica (l'uso quotidiano di ansiolitici).
Proprio per la genericità dell'attestazione era compito del medico
approfondire questo aspetto eventualmente ponendosi in contatto con
il medico che il certificato anamnestico aveva sottoscritto.
Anche per la condotta del dott. CALABRÒ F. vanno infatti ribadite
le considerazioni già svolte per il dott. DIECI M.: porre in
essere un atto che consente di svolgere un'attività pericolosa e
potenzialmente letale, come l'uso delle armi, richiede un dippiù di
diligenza, di attenzione, di prudenza che può non essere richiesto
quando le attività autorizzate non comportino rischi per le persone
e le cose.
Deve dunque conclusivamente ritenersi che le condotte colpose dei
ricorrenti abbiano "concorso" al verificarsi degli eventi pur
dolosamente cagionati da CALDERINI A..
12) La prevedibilità e l'evitabilità dell'evento. Strettamente
collegato all'accertamento dell'esistenza dell'elemento soggettivo
del reato è l'argomento, proposto nei ricorsi di entrambi gli
imputati, che riguarda la prevedibilità degli eventi poi
concretamente verificatisi. Secondo il ricorrente la sentenza
impugnata non avrebbe accertato la prevedibilità in concreto ma
l'avrebbe ricollegata alla sola esistenza della malattia psichica
senza neppure tener conto della circostanza che questa malattia era
in remissione da oltre quindici anni.
Su questo tema occorre fare qualche considerazione preliminare. La
prevedibilità dell'evento, riguarda l'elemento soggettivo e la sua
esistenza va accertata con criteri ex ante (a differenza della
causalità) e si fonda sul principio che non possa essere addebitato
all'agente di non aver previsto un evento che, in base alle
conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva
prevedere.
Sotto quest'ultimo profilo la prevedibilità dell'evento è
certamente riferibile all'elemento soggettivo, la colpa, perché
attiene al processo cognitivo dell'agente (ma non nel senso meramente
psicologico) che è tenuto a prendere in considerazione le
conseguenze della sua condotta. Naturalmente, da questo angolo
visuale, l'agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha tenuto conto
delle conseguenze della sua condotta che conosceva o era tenuto a
conoscere in base alla sua professione e alla sua condizione.
Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo
risiede nella necessità di evitare forme di responsabilità
oggettiva. Se il risultato della condotta non poteva neppure essere
immaginato dall'agente, pur con l'adozione delle necessarie cautele,
sembra evidente che il risultato non possa essergli addebitato sotto
il profilo della colpevolezza. Perché l'agente possa essere ritenuto
colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una
regola cautelare ma è necessario che non abbia previsto che quella
violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell'evento.
Se dunque quella conseguenza dell'azione non è stata prevista
perché non era prevedibile non v'è responsabilità per colpa.
Ma qual'è il parametro cui occorre rifarsi per valutare la
prevedibilità (o, come taluni si esprimono in dottrina, il dovere di
riconoscere)? Senza richiamare i termini del dibattito teorico che
tende ad escludere la natura esclusivamente psicologica della colpa
per ricollegarla al mero elemento oggettivo della violazione delle
regole cautelari (natura normativa della colpa) - è necessario
evitare di adottare un criterio che faccia riferimento all'agente
concreto per evitare di ricadere negli orientamenti che riferiscono
la colpa all'elemento psicologico; e infatti dottrina e
giurisprudenza seguono comunemente il criterio della prevedibilità
da parte dell'homo ejusdem professionis et condicionis non
diversamente da quanto avviene per l'individuazione dei criteri per
accertare il rispetto delle regole cautelari (c.d. "agente modello").
Il giudizio di prevedibilità vale a specificare il contenuto
dell'obbligo di diligenza altrimenti astratto. Si è affermato che
"basandosi sugli esiti del giudizio di prevedibilità, il contenuto
del dovere di diligenza otterrebbe una certa specificazione, con la
conseguenza di poter fornire delle note di concretezza a
quell'obbligo del neminem laedere altrimenti del tutto inafferrabile
nella sua astrattezza". Solo se il pericolo del verificarsi di un
evento dannoso è prevedibile o riconoscibile l'agente può essere
obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad
evitare il prodursi del fatto dannoso.
Alcuni Autori preferiscono parlare, piuttosto che di prevedibilità,
di "rappresentabilità" precisando che "questo termine possiede una
maggiore comprensività del primo, potendosi riferire non soltanto ad
accadimenti futuri, ma anche a quelli concomitanti o addirittura
antecedenti all'azione del soggetto". Altri ancora parlano di
"riconoscibilità" così esprimendosi: "la tipicità colposa risulta
configurabile allorché la situazione concreta sia stata
caratterizzata dalla presenza di elementi, giuridici e
fattuali...che, in correlazione con le stesse leggi scientifiche e
conoscenze empiriche utilizzate dal giudice ai fini dell'imputazione
dell'evento, avrebbero permesso di rappresentarsi la concreta
realizzazione del fatto previsto dalla legge come reato colposo").
La dottrina (e, in minor misura, la giurisprudenza che ha dedicato
una minore attenzione a questi temi) è quindi da tempo
sostanzialmente uniforme nel ritenere che il giudizio sulla colpa non
possa prescindere da una valutazione sulla prevedibilità che, non
essendo riferita all'agente concreto, ha caratteristiche di
oggettività pur essendo riferita alla colpevolezza.
Orbene nel nostro caso è sufficiente ripercorrere la storia clinica
del paziente per trovare conferma della correttezza della valutazione
sulla circostanza che la patologia psichiatrica che CALDERINI A.
presentava per ritenere ipotizzabile un episodio di violenza quale
quello verificatosi.
È infatti da sottolineare che la procedura prevista dalla normativa
vigente per il rilascio del porto d'armi è preordinata proprio ad
evitare che la licenza venga ottenuta da persone prive di equilibrio
psichico in considerazione dell'estrema pericolosità che la
disponibilità di armi può comportare.
E allora l'agente modello che DIECI M. e CALABRÒ F. nella
situazione accertata avrebbero dovuto esprimere è, per il primo,
quello del medico psichiatra che, ben conoscendo la grave sofferenza
psichica del suo paziente, gli rifiuta il rilascio del certificato
anamnestico oppure se ritiene (in base al principio dell'alleanza
terapeutica) di rilasciarlo segnala i problemi nel medesimo
certificato.
Questo obbligo, peraltro, deriva dal tenore del D.M. 28 aprile 1998,
art. 2 (requisiti psicofisici minimi per il rilascio ed il rinnovo
dell'autorizzazione al porto di fucile per uso di caccia e al porto
d'armi per uso difesa personale) che prevede espressamente, tra i
requisiti psicofisici minimi per il rilascio ed il rinnovo
dell'autorizzazione al porto d'armi per uso difesa personale (non
diversamente da quanto previsto dall'art. 1 per l'autorizzazione al
porto di fucile per uso di caccia), l'"assenza di disturbi mentali,
di personalità o comportamentali".
Per il dott. CALABRÒ F. - che è un medico militare incaricato di
individuare eventuali problemi di salute per evitare che ottengano il
porto d'armi persone che presentano seri problemi di salute non solo
di natura psichica - l'agente modello cui rifarsi è quello di un
medico diligente che, proprio per la pericolosità dell'attività che
la sua condotta consente di svolgere, opera con la massima diligenza
per individuare i segnali che possono emergere dalla documentazione
esaminata e ne individua le irregolarità che possono indurre dubbi
sulla provenienza.
Anche questi obblighi, del resto, sono espressamente indicati nel
già citato D.M. 28 aprile 1998, art. 3, comma 3, che prevede
espressamente che "il medico certificatore prescriverà tutti gli
ulteriori specifici accertamenti che riterrà necessari, da
effettuarsi presso strutture sanitarie pubbliche". Norma dalla quale
emerge altresì la palese infondatezza della tesi del ricorrente
secondo cui non spetta al medico certificatore l'accertamento delle
condizioni di salute mentale; tesi peraltro smentita dalla
circostanza che neppure il medico che redige il certificato
anamnestico è, nella normalità dei casi, uno psichiatra.
Dunque la valutazione di prevedibilità degli eventi formulata dai
giudici di merito appare condotta con criteri di logicità e si
sottrae a censure in questa sede come pure la valutazione se la
patologia da cui era affetto il paziente potesse far prevedere
l'improvviso accesso di follia; quesito cui la Corte di merito ha
dato convincente e argomentata risposta positiva considerando la
gravità delle manifestazioni di malessere psichiatrico che in
precedenza aveva dato CALDERINI A.. Nè, per quanto possa rilevare,
può essere presa in considerazione la censura di CALABRÒ F.
secondo cui la malattia del predetto non era di natura tale da far
ritenere prevedibile l'episodio di follia poi verificatosi
riguardando, questa critica, un accertamento di merito
incensurabilmente compiuto dai giudici di secondo grado.
Parimenti infondate sono altresì le censure che riguardano
l'evitabilità dell'evento. Se i due medici imputati avessero
improntato la loro condotta alle richieste regole di prudenza e
diligenza CALDERINI A. non avrebbe potuto acquistare legalmente
l'arma e portarla nella sua abitazione e quindi l'evento hic et nunc
verificatosi non si sarebbe realizzato.
È infatti irrilevante - pur prescindendo dalla valutazione della
Corte di merito che ha motivatamente escluso questa ipotesi sul
rilievo che CALDERINI A. era solito improntare la sua condotta ad
uno spirito "legalitario" - che il predetto avrebbe potuto rivolgersi
al mercato clandestino perché questa condotta avrebbe realizzato un
diverso percorso causale che non è quello che ha condotto all'evento
in concreto verificatosi e che, in tale situazione, assume il
carattere di una congettura non realizzatasi.
È ovvio, d'altro canto, che per ogni condotta agevolatrice è
ipotizzabile una diversa condotta idonea a realizzare il medesimo
evento ma ciò non toglie che, di fatto, quella condotta abbia
agevolato il verificarsi dell'evento (chi è tenuto a tutelare la
persona che abbia già tentato il suicidio e omette di porre in
essere tutte le misure atte a prevenire il tragico gesto non può
addurre a sua discolpa che il paziente avrebbe comunque, in altra
situazione, raggiunto il suo tragico scopo).
13) I motivi riguardanti l'esistenza del rapporto di causalità. È
necessario ora esaminare i motivi che si riferiscono all'esistenza
del rapporto di causalità incentrati, come si è già accennato,
sulla negata esistenza, da parte dei ricorrenti, di un'efficacia
causale della violazione delle regole cautelari sulla verificazione
dell'evento.
In fatto non è contestato che la condotta dei due imputati abbia
reso possibile il rilascio, a favore di CALDERINI A., della licenza
per il porto d'armi. Utilizzando il porto d'armi il predetto ha
acquistato varie armi (alcune delle quali poi rivendute su pressione
del padre) compresa la pistola marca "Kimber" poi utilizzata nei
tragici eventi del 5 maggio 2003. È opportuno sottolineare, sotto
il profilo causale, che in base al R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art.
35, comma 4 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) "è
vietato vendere o in qualsiasi altro modo cedere a privati che non
siano muniti di permesso di porto d'armi ovvero di nulla osta
all'acquisto rilasciato dal questore".
Ciò premesso, prima di esaminare i motivi di ricorso sul nesso di
condizionamento, occorre valutare se la causalità delle condotte
abbia natura omissiva o commissiva al fine di verificare la
fondatezza della censura del dott. DIECI M. che si riferisce ad una
sua incompetenza al rilascio del certificato anamnestico e quindi,
nella sostanza, all'esistenza di una posizione di garanzia in capo a
lui.
Anche sul tema della differenza tra causalità omissiva e commissiva
occorrono alcune riflessioni preliminari. Su questo problema va
premesso che, in astratto, la distinzione tra causalità commissiva e
causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima viene violato un
divieto; nella seconda è un comando ad essere violato. Non sempre
agevole è però la distinzione in concreto tra le due forme di
causalità.
In particolare nella responsabilità professionale medica (ma non
solo) viene frequentemente ritenuta omissiva una condotta che tale
non è anche perché sono ben pochi i casi nei quali la condotta cui
riferire l'evento dannoso è chiaramente attiva (il chirurgo ha
inavvertitamente tagliato un vaso durante l'intervento) o passiva (il
medico ha colposamente omesso di ricoverare il paziente). Nella
stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e
passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile
l'accertamento della natura della causalità.
È peraltro necessario evitare la confusione tra il reato omissivo e
le componenti omissive della colpa: i casi del medico che adotta una
terapia errata (e quindi omette di somministrare quella corretta) o
che dimette anticipatamente il paziente (e quindi omette di
continuare a curarlo in ambito ospedaliero) non rientrano nella
causalità omissiva ma in quella attiva.
Si è detto che i medici che hanno sbagliato diagnosi e terapia "non
hanno violato un comando penale, bensì solo un divieto di cagionare
(o contribuito a cagionare, si trattasse anche solo di accelerare)
lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza".
Causalità omissiva sarà dunque quella del medico che omette proprio
di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo. Al più potrebbe
ritenersi condivisibile il più recente orientamento secondo cui,
nell'ambito della responsabilità medica, avrebbe natura commissiva
la condotta del medico che ha introdotto nel quadro clinico del
paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi;
sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia
contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente.
Alla luce delle considerazioni svolte non possono esservi dubbi sulla
natura commissiva della causalità nel caso in esame.
Sia il dott. DIECI M. che il dott. CALABRÒ F. non hanno violato
un comando omettendo di intervenire in un caso che richiedeva la loro
attivazione ma hanno violato il divieto di porre in essere gli atti
propedeutici al rilascio del porto d'armi in presenza di una
situazione patologica che non lo consentiva o di una documentazione
irregolare. Per DIECI M. le condotte determinanti sono interamente
commissive ma anche per CALABRÒ F. la condotta è attiva (il
rilascio del certificato) anche se, in questo caso, sono certamente
presenti componenti omissive della colpa (i mancati approfondimenti
ai quali si è fatto ripetutamente cenno).
E, anche richiamando la più recente ricostruzione ricordata, può
affermarsi che entrambi i medici abbiano introdotto, con la loro
condotta inosservante delle regole cautelari che dovevano essere
adottate in una situazione quale quella descritta, un fattore di
rischio poi effettivamente concretizzatosi. Si badi, non si tratta di
un riferimento alla non condivisibile (e ormai ampiamente superata)
teoria dell'aumento del rischio ma di una ricostruzione che tiene
conto della introduzione di un fattore causale che ha certamente
cagionato, o contribuito a cagionare, l'evento.
Se dunque nel caso in esame la causalità ha natura commissiva e se
l'evento è da ritenere causalmente ricollegabile alla condotta degli
imputati in termini di sostanziale certezza è evidente che non è
necessario porsi la domanda, che si pone il ricorrente, su che cosa
sarebbe avvenuto se il certificato anamnestico (e, successivamente,
quello di idoneità) non fossero stati rilasciati e CALDERINI A.
non avesse potuto acquistare l'arma e portarla presso la sua
abitazione (come incensurabilmente accertato dai giudici di merito).
Certamente CALDERINI A. avrebbe potuto rivolgersi al mercato
clandestino e compiere i medesimi atti ma, come si è già accennato,
il giudizio controfattuale va compiuto in riferimento all'accadimento
hic et nunc verificatosi e non ad un diverso avvenimento ipotizzato
in via del tutto congetturale.
Se CALDERINI A. non avesse ottenuto la licenza per il porto d'armi
non avrebbe potuto acquistare quell'arma (e tutte le altre acquistate
regolarmente), portarla fino alla sua abitazione e quindi utilizzarla
per porre in essere la già descritta condotta omicidiaria. E,
trattandosi di causalità commissiva, neppure deve richiedersi se
DIECI M. e CALABRÒ F. erano investiti di una posizione di
garanzia: essi hanno posto in essere un antecedente causalmente
efficiente nella verificazione dell'evento e quindi, secondo la
regola dell'equivalenza delle cause, sono chiamati a rispondere del
verificarsi dell'evento.
D'altro canto non è dubbio che il dott. CALABRÒ F. fosse titolare
della posizione di garanzia mentre, per quanto riguarda la posizione
del dott. DIECI M. - e in relazione alle sue affermazioni che solo
il medico di fiducia può redigere il certificato anamnestico - va
detto che proprio la sua condotta positiva (avere firmato il
certificato anamnestico senza neppure l'indicazione della qualità
che rivestiva) rende causalmente efficiente la sua condotta. È vero
che la normativa applicabile (D.M. 28 aprile 1998, art. 3)
attribuisce al medico di fiducia il compito di compilare il
certificato anamnestico in questione; ma è altrettanto vero che di
fatto il dott. DIECI M. l'ha sottoscritto e, omettendo
l'apposizione del timbro o l'indicazione della sua qualità, ha reso
più difficile individuare la sua qualifica e quindi ostacolato
l'accertamento dell'eventuale incompetenza a firmarlo.
E, per quanto riguarda il rilascio del secondo certificato, pur
trattandosi di certificazione non richiesta, è evidente la sua
efficacia confermativa del contenuto dell'altro certificato e dunque
rafforzativa della ipotesi dell'inesistenza di ragioni ostative al
rilascio del porto d'armi.
E quindi possibile dare una risposta al quesito in precedenza
formulato: l'evento hic et nunc verificatosi è causalmente
ricollegabile alla condotta degli imputati in termini di certezza (e
non solo di elevata credibilità razionale) e l'ipotesi alternativa
formulata è fondata su una mera congettura che peraltro neppure
potrebbe essere presa in considerazione nel giudizio di legittimità.
Ed è ora possibile dare anche una risposta al quesito posto in
precedenza e relativo alla verifica dell'esistenza dei presupposti di
natura soggettiva per la verifica in concreto dell'ammissibilità del
concorso colposo nel delitto doloso: le regole cautelari violate
dagli imputati erano finalizzate anche ad evitare eventi del tipo di
quello in concreto verificatosi (c.d. "concretizzazione del
rischio"). Con la conseguenza che, anche sotto questo profilo, la
responsabilità degli agenti nella causazione dell'evento non può
essere esclusa.
14) I motivi comuni. L'interruzione del rapporto di causalità.
Entrambi gli imputati hanno, con varietà di argomentazioni,
sostenuto che le condotte di CALDERINI A. e quelle dei funzionari
di polizia che hanno rilasciato il porto d'armi, pur essendo a
conoscenza dei precedenti atti di violenza posti in essere dal
predetto, erano idonei, per la loro abnormità e imprevedibilità, ad
interrompere il nesso causale tra le loro condotte asseritamente
colpose e l'evento.
La censura comune ripropone uno dei temi di maggior complessità del
diritto penale che riguarda l'interpretazione dell'art. 41 c.p.,
comma 2, secondo cui "le cause sopravvenute escludono il rapporto di
causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare
l'evento".
Si tratta di una norma di fondamentale importanza all'interno
dell'assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema
della causalità e lo scopo della norma, secondo l'opinione
maggiormente seguita, è quello di temperare il rigore derivante
dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nel
primo comma dell'art. 41 c.p., in esame che si ritiene abbia accolto
il principio condizionalistico o dell'equivalenza delle cause
("condicio sine qua non"). Anzi, secondo taluni autori, questa norma
escluderebbe che il codice abbia voluto accogliere integralmente la
teoria condizionalistica essendo, il concetto di causa sopravvenuta,
estraneo a questa teoria così come è da ritenere estraneo alla
teoria della causalità adeguata.
È stato affermato in dottrina che se il secondo comma in esame
venisse interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse
ritenersi escluso solo nel caso di un processo causale del tutto
autonomo verosimilmente si tratterebbe di una disposizione inutile
perché, in questi casi, all'esclusione si perverrebbe con la mera
applicazione del principio condizionalistico previsto dall'art. 41,
comma 1.
Deve pertanto trattarsi, secondo questo condivisibile orientamento,
di un processo non completamente avulso dall'antecedente, di una
concausa che deve essere, appunto, "sufficiente" a determinare
l'evento. Ma questa sufficienza non può essere intesa come avulsa
dal precedente percorso causale perché, altrimenti, torneremmo al
caso del processo causale del tutto autonomo per il quale il problema
è risolto dall'art. 41 c.p., comma 1.
Su questa affermazione di principio deve ritenersi raggiunto un
sufficiente consenso in quanto gli orientamenti (peraltro, a quanto
risulta, quasi esclusivamente dottrinali) che sostenevano la tesi
della completa autonomia dei processi causali non sembrano essere
state più riproposte negli ultimi decenni.
In base alla ricostruzione che va sotto il nome della teoria della
causalità "umana" si parte dalla premessa che, oltre alle forze che
l'uomo è in grado di dominare, ve ne sono altre - che parimenti
influiscono sul verificarsi dell'evento - che invece si sottraggono
alla sua signoria. Può dunque essere oggettivamente attribuito
all'agente quanto è da lui dominabile ma non ciò che fuoriesce da
questa possibilità di controllo.
Quali sono gli elementi esterni controllabili? Innanzitutto quelli
dotati da carattere di normalità, cioè quelli che si verificano con
regolarità qualora venga posta in essere l'azione. Ma non solo
queste conseguenze si sottraggono al dominio dell'uomo ma altresì
quelle che si caratterizzano per essere non probabili o non frequenti
perché comunque possono essere prevedute dall'uomo.
Che cosa sfugge invece al dominio dell'uomo? Ciò che sfugge a questo
dominio - secondo l'illustre Autore che ha formulato la teoria - "è
il fatto che ha una probabilità minima, insignificante di
verificarsi: il fatto che si verifica soltanto in casi
rarissimi...nei giudizi sulla causalità umana si considerano propri
del soggetto tutti i fattori esterni che concorrono con la sua
azione, esclusi quelli che hanno una probabilità minima,
trascurabile di verificarsi; in altri termini esclusi i fattori che
presentano un carattere di eccezionalità".
Per concludere che per l'imputazione oggettiva dell'evento sono
necessari due elementi, uno positivo e uno negativo: quello positivo
"è che l'uomo con la sua condotta abbia posto in essere un fattore
causale del risultato, vale a dire un fattore senza il quale il
risultato medesimo nel caso concreto non si sarebbe avverato; il
negativo è che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori
eccezionali (rarissimi). Soltanto quando concorrono queste due
condizioni l'uomo può considerarsi "autore dell'evento".
Perché possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il
rapporto di causalità (o la sua interruzione come altrimenti si
dice) si deve dunque trattare, secondo questa ricostruzione, di un
percorso causale ricollegato all'azione (od omissione) dell'agente ma
completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed
eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del
tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta.
È noto l'esempio riportato nella relazione ministeriale al codice
penale: l'agente ha posto in essere un antecedente dell'evento (ha
ferito la persona offesa) ma la morte è stata determinata
dall'incendio dell'ospedale nel quale il ferito era stato ricoverato.
Il che, appunto, non solo non costituisce il percorso causale tipico
(come, per es., il decesso nel caso di gravi ferite riportate a
seguito dell'aggressione) ma realizza una linea di sviluppo della
condotta del tutto anomala, oggettivamente imprevedibile in astratto
e imprevedibile per l'agente che non può anticipatamente
rappresentarla come conseguente alla sua azione od omissione
(quest'ultimo versante riguarda l'elemento soggettivo ma il problema,
dal punto di vista dell'elemento oggettivo del reato, si pone in
termini analoghi).
Va infine rilevato che sia l'Autore che l'ha proposta che tutti
coloro che l'hanno condivisa - comprese la giurisprudenza di
legittimità e quella di merito - hanno affermato che la teoria della
causalità "umana" è applicabile anche ai reati omissivi impropri.
15) La condotta dei funzionar di polizia e quella di CALDERINI A..
Alla luce della ricostruzione che precede la tesi dei ricorrenti non
solo non appare condivisibile ma si evidenzia nella sua totale ed
evidente infondatezza.
Non è infatti possibile qualificare come inopinata, abnorme,
assolutamente imprevedibile la condotta di un soggetto, pur
negligente, la cui condotta inosservante trovi la sua origine e
spiegazione nella condotta di chi abbia creato colposamente le
premesse su cui si innesta il suo errore o la sua condotta
negligente.
Non è ovviamente questa la sede per valutare se i funzionari di
polizia abbiano colposamente trascurato i precedenti di polizia che
avevano a loro disposizione per decidere sulla richiesta di rilascio
del porto d'armi; ma se anche fosse vera questa ipotesi non merita
certo particolari argomentazione la constatazione che sicuramente
l'accertamento dell'esistenza dei requisiti psicofisici effettuato
dal medico militare (fondato sul certificato anamnestico e sull'altro
certificato) non possono che avere agevolato un esame superficiale
degli atti d'ufficio che consentivano di ricostruire i numerosi
episodi di violenza di cui CALDERINI A. era stato protagonista.
D'altro canto la redazione del certificato anamnestico e quello di
idoneità sono preordinati proprio ad evitare, tra l'altro, che
persone che soffrono di malattie psichiche possano disporre di armi a
tutela dell'incolumità propria e dei terzi.
Insomma nel caso in esame non può ipotizzarsi l'ipotesi prevista dal
dall'art. 41 c.p., comma 2, perché la causa sopravvenuta non solo
non costituisce uno sviluppo del tutto autonomo ed eccezionale della
prima condotta inosservante ma rientra nell'ambito delle conseguenze
prevedibili della primitiva condotta addebitabile ai ricorrenti
costituendone anzi una possibile, e quindi prevedibile, conseguenza.
16) Il reato di cui all'art. 481 c.p. ascritto a DIECI
MASSIMILIANO. Va premesso che la condotta tipica del reato in esame
deve ritenersi ormai incensurabilmente accertata: sia che il dott.
DIECI M. abbia firmato il certificato in bianco sia che l'abbia
firmato già compilato la falsità ideologica del documento deve
ritenersi realizzata perché il suo contenuto non corrisponde a
quanto l'imputato, nell'esercizio della sua professione sanitaria,
doveva attestare.
Che poi l'atto fosse destinato a provare la verità dei fatti
attestati ciò risulta dalla normativa già citata (D.M. 28 aprile
1998) che richiede obbligatoriamente la presentazione del certificato
anamnestico al medico certificatore all'evidente fine di porlo a
conoscenza degli elementi utili per la valutazione che quest'ultimo
deve compiere. Ciò che caratterizza l'atto fidefaciente è infatti
la funzione cui è diretto, cioè quella di provare fatti che chi lo
redige attesta essere stati da lui percepiti o conosciuti
nell'esercizio della sua attività (v. da ultimo, in questo senso,
Cass., sez. 5^, 16 gennaio 2007 n. 7921, Amoroso, rv. 236518).
Ciò premesso appare evidente l'infondatezza delle censure del
ricorrente che fonda le sue doglianze sulla circostanza che egli non
era competente a rilasciare il certificato anamnestico perché di
fatto ciò è avvenuto ed anzi il dott. DIECI M. si è reso
responsabile dell'equivoco perché ha firmato il certificato
apponendo la sua firma in calce al certificato (nel punto in cui il
modulo indica che la firma deve essere apposta) senza specificare la
sua qualità e facendo quindi intendere di essere il medico di
fiducia del richiedente e di attestare quel che risulta dal
certificato perché di sua diretta conoscenza.
Competente o meno che fosse il dott. DIECI M. a rilasciare il
certificato la condotta tipica del reato contestato si realizza con
la falsa attestazione compiuta sottoscrivendo il certificato.
17) Il trattamento sanzionatorio applicato a CALABRÒ FORTUNATO. Il
ricorrente si duole dell'eccessività della pena e della circostanza
che la Corte di merito abbia per un verso riconosciuto la maggior
gravità della colpa di DIECI M. rispetto a quella a lui
ascrivibile confermando poi la identica pena inflitta dal primo
giudice (quella di DIECI M. è superiore perché la condanna è
intervenuta anche per un secondo reato.
In merito a questa censura deve osservarsi che la motivazione sul
punto della sentenza impugnata si sottrae alle censure proposte. La
Corte di merito ha infatti richiamato l'oggettiva gravità dei fatti
e l'elevato grado della colpa che ha connotato la sua condotta; ha
poi operato una comparazione tra le condotte dei due imputati
pervenendo ad una valutazione di sostanziale equivalenza delle colpe
che non può formare oggetto di sindacato nel giudizio di
legittimità essendo esente da alcuna illogicità.
18) Conclusioni. Per le considerazioni svolte i ricorsi devono essere
rigettati.
Al rigetto dei ricorsi conseguono la condanna dei ricorrenti in
solido al pagamento delle spese processuali e delle spese in favore
della parti civili liquidate:
- in Euro 2.475,00 per PROZZO NICOLETTA;
- in Euro 1.743,75 per SCALORI LAVINIA e SCALORI GUIDO;
- in Euro 5.000,00 per ZANIBONI DANIELA, GUARALDI ILARIA,
GUARALDI GIUSEPPE, GUARALDI ALESSIA, GUARALDI OLIVIA e TOSO
PIERO. Oltre, per tutti, IVA e CPA come per legge.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, SEZIONE QUARTA PENALE
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento
delle spese processuali.
Li condanna inoltre in solido al pagamento delle spese in favore
delle parti civili che liquida in Euro 2.475,00 per PROZZO
NICOLETTA; per SCALORI LAVINIA e SCALORI GUIDO in Euro 1.745,00;
per DANIELA ZANIBONI, ILARIA GUARALDI, GIUSEPPE GUARALDI,
ALESSIA GUARALDI, OLIVIA GUARALDI e PIERO TOSO in Euro
5.000,00; - oltre IVA e CPA per tutte le predette parti civili.
Così deciso in Roma, il 12 novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2009