Sez. U,
Sentenza
n. 36747
del 2003
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dai signori:
Dr. Nicola MARVULLI Presidente Udienza pubblica
Dr. Renato TERESI Componente del 28/5/2003
Dr. Mariano BATTISTI " SENTENZA
Dr. Giorgio LATTANZI " N. 11
Dr. Aldo GRASSI " REGISTRO GENERALE
Dr. Pietro A. SIRENA " N. 18922/02
Dr. Renato L. CALABRESE "
Dr. Nicola MILO (rel.) "
Dr. Giovanni CANZIO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da:
1) Torcasio Ugo, nato a Lamezia Terme il 12/7/1957;
2) Cerra Genni, nato a Milano l'11/1/1973;
avverso la sentenza 6/12/2001 della Corte d'Appello di Catanzaro;
visti gli atti, la sentenza denunciata e i ricorsi;
sentita la relazione fatta dal consigliere dr. Nicola Milo;
udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale dr. Giovanni
Palombarini, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
uditi i difensori: Avv. Siggia (per Torcasio) e avv. Cersosimo (per
Cerra), che hanno concluso per l'accoglimento dei rispettivi
ricorsi.
Svolgimento del processo
1 - La Corte d'Appello di Catanzaro, con sentenza 6/12/2001,
confermava il giudizio di colpevolezza espresso dal Tribunale di
Lamezia Terme nei confronti di Ugo Torcasio e Genni Cerra in ordine
ai delitti, commessi fino al luglio 1999 in continuazione tra loro,
di detenzione a fine di spaccio e di cessione a terzi di sostanze
stupefacenti di tipo "pesante" (capi A e B, per il primo; capo F,
con l'attenuante ex comma cinque dell'art. 73 d.p.r. n. 309/90, per
il secondo), ma riduceva la pena inflitta ad entrambi i prevenuti,
previa concessione al solo Torcasio delle circostanze attenuanti
generiche, entro limiti ritenuti di giustizia.
Rilevava, preliminarmente, il giudice di merito l'inutilizzabilità,
per violazione degli art. 63 e 65 in relazione agli art. 191 e
350/7° c.p.p., delle prime dichiarazioni, significative per
l'accusa, rese alla Guardia di Finanza (e da questa registrate) da
tale Notarianni -indagato sentito senza l'assistenza del difensore -
e dagli "informatori" Gigliotti, Caparello e Ionadi, i quali, pur
non essendo, all'epoca, formalmente indagati, versavano
sostanzialmente in tale condizione, che avrebbe dovuto imporre
l'osservanza delle prescritte garanzie anche per l'eventuale
esercizio dello ius tacendi; da ciò derivava, sempre secondo il
giudice a quo, pure l'inammissibilità della testimonianza de relato
sul contenuto dei detti atti viziati.
Valorizzava, tuttavia, ulteriori emergenze e in particolare: 1) le
registrazioni di altri colloqui intercorsi tra i finanzieri e i loro
informatori (con esclusione dei casi prima citati) "operate
all'insaputa di questi ultimi e in assenza di specifica
autorizzazione dell'autorità giudiziaria", precisando che la
mancata verbalizzazione di tale attività, in quanto non
espressamente sanzionata, non determinava l'inutilizzabilità dei
relativi esiti narrativi; 2) alcune deposizioni testimoniali; 3) le
dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Di Stefano e
D'Elia, imputati di reato connesso; 4) il contenuto delle sommarie
informazioni rilasciate, in sede di indagini il 13/10/1999 e il
3/5/2000, da Ionadi Domenico, regolarmente verbalizzate dalla p.g. e
lette in dibattimento ex art. 512 c.p.p..
Riteneva provate, sulla base di tali acquisizioni, per il Torcasio,
le cessioni di droga a Francesco Cittadino, Vincenzo Gigliotti e
Domenico Ionadi e, per il Cerra, quelle a Michele Di Matteo e al
predetto Ionadi.
2 - Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione,
tramite i rispettivi difensori, gli imputati.
Il Torcasio, in particolare, ha lamentato: 1) manifesta illogicità
della motivazione, nella parte relativa alla cessione di droga al
Gigliotti, essendosi fatto leva sulle dichiarazioni accusatorie di
costui, ritenute, in altra parte della sentenza, inutilizzabili; 2)
violazione di norme processuali e connesso vizio di motivazione in
relazione all'illecita cessione in favore del Cittadino: illegittima
l'utilizzazione della registrazione del colloquio tra costui e la
polizia giudiziaria, perché si era violato il dovere di
verbalizzazione ex art. 357 c.p.p., il che rendeva inammissibile, ex
art. 195/4° c.p.p., anche la testimonianza de relato sul punto, e
perché tale attività, violando il diritto alla segretezza delle
comunicazioni (art. 15 Cost.), doveva qualificarsi vera e propria
intercettazione ambientale, che avrebbe richiesto il rispetto della
disciplina di cui agli art. 266 e ss. c.p.p.; 3) violazione della
legge processuale e vizio di motivazione, per essere stata data
lettura, ai sensi dell'art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni
accusatorie in data 13/10/99 e 3/5/00 rilasciate, durante la fase
delle indagini, dallo Ionadi, che si era sottratto all'esame
dibattimentale, rendendosi volontariamente irreperibile, non essendo
risultato provato che fosse stato fatto oggetto di minacce.
Il Cerra, anche con precisazioni contenute in motivi aggiunti, ha
dedotto: 1) violazione della legge processuale, con riferimento agli
art. 526/1bis c.p.p. e 111 Cost. e per le stesse ragioni enunciate
dal Torcasio, circa l'utilizzazione delle dichiarazioni
procedimentali dello Ionadi; 2) manifesta illogicità della
motivazione nel punto relativo all'illecita cessione al Di Matteo,
le cui dichiarazioni non avevano trovato alcun altro riscontro,
nonché nella parte in cui aveva comunque utilizzato le
dichiarazioni dello Ionadi, pur ritenute, in altro passaggio, non
utilizzabili.
3 - La sesta Sezione, alla quale il ricorso era stato assegnato,
rilevato che la questione giuridica - prospettata con uno dei motivi
di ricorso - concernente l'utilizzazione delle registrazioni dei
colloqui intercorsi tra personale della p.g. e suoi informatori,
effettuate all'insaputa di questi ultimi e in assenza di
autorizzazione dell'autorità giudiziaria, presentasse profili di
"delicatezza" e di "opinabilità" e fosse oggetto di orientamenti
difformi nella giurisprudenza di legittimità, con ordinanza
6/2-7/3/2003, rimetteva la soluzione del contrasto alle Sezioni
Unite.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite,
fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.
Motivi della decisione
1 - Il ricorso del Torcasio è in parte fondato, va accolto nei
limiti di seguito precisati e, nel resto, va rigettato; quello del
Cerra, invece, è privo di qualunque pregio.
La questione sottoposta all'esame delle Sezioni Unite è "se la
registrazione fonografica di colloqui intercorsi tra operatori di
polizia giudiziaria e loro informatori, effettuata ad iniziativa dei
primi e all'insaputa dei secondi, richieda, ai fini
dell'utilizzabilità probatoria dei contenuti, l'autorizzazione
dell'autorità giudiziaria nelle forme e nei termini previsti per le
intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni tra presenti",
essendosi delineati sul tema contrastanti indirizzi interpretativi
nella giurisprudenza di legittimità.
Tali contrasti, per la verità, non si evidenziano in maniera
massiccia e radicale, forse perché le soluzioni di volta in volta
fornite non sempre sono riconducibili ad un medesimo principio, ma
risentono piuttosto del condizionamento riveniente dalla contingenza
del singolo caso concreto.
Sta di fatto che, secondo l'orientamento assolutamente
maggioritario, pur nella variegata gamma di situazioni esaminate, le
registrazioni di conversazioni o di comunicazioni ad opera di uno
degli interlocutori (a nulla rilevando se costui appartenga alla
polizia giudiziaria o agisca d'intesa con questa) non sono
riconducibili nel novero delle intercettazioni e non soggiacciono
alla disciplina per queste ultime prevista, considerato che difetta,
in tali casi, l'occulta percezione del contenuto dichiarativo da
parte di soggetti estranei alla cerchia degli interlocutori e che si
realizza soltanto la memorizzazione fonica di notizie liberamente
fornite e lecitamente apprese, con l'effetto che le relative bobine
possono essere legittimamente acquisite al processo come documenti
(cfr. Cass. Sez. I 22/4/92, Artuso; Sez. VI 6/6/93, De Tomasi; Sez.
VI 8/4/94, Giannola; Sez. VI 10/4/96, Bordon; Sez. I 6/5/96, Scali;
Sez. IV 9/7/96, Cannella; Sez. VI 15/5/97, Mariniello; Sez. IV
11/6/98, Cabrini; Sez. V 10/11/98, Poli; Sez. I 2/3/99, Cavinato;
Sez. VI 8/4/99, Sacco; Sez. VI 18/10/00, Paviglianiti; Sez. I
14/4/99, Iacovone; Sez. I 21/3/01, La Rosa; Sez. III 12/7/01,
Vanacore; Sez. I 23/1/02, Aquino; Sez. II 5/11/02, Madelfino).
A fronte di tale indirizzo, ve n'è altro minoritario che, con
riferimento alla registrazione di colloqui o di comunicazioni da
parte della polizia o di suoi incaricati, ritiene trattarsi di una
vera e propria intercettazione, le cui regole, che impongono
strumenti tipici, non possono surrettiziamente essere aggirate, e
ciò perché "l'intervento della polizia giudiziaria
procedimentalizza in modo atipico" la captazione telefonica o
ambientale, "deprivandola del necessario intervento del giudice"
(cfr., nel vigore del codice del '30, Cass. Sez. II 5/7/88,
Belfiore; Sez. II 18/5/89, Calabro'; nel regime del nuovo codice,
Sez. V 11/5/00, Caputo; Sez. VI 20/11/00, Finini).
Ritiene il Collegio che la scelta ermeneutica della giurisprudenza
maggioritaria sia sostanzialmente corretta, anche se va approfondita
nelle sue premesse concettuali e logico-giuridiche, nei postulati
del ragionamento che devono sorreggerla e negli effetti che da essa,
in casi particolari, conseguono sul piano processuale.
2 - Primario punto di riferimento normativo dal quale partire
nell'analisi del problema non può che essere l'art. 15 della
Costituzione, che sancisce l'inviolabilità della libertà e della
segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di
comunicazione, disponendo che la loro limitazione è eccezionalmente
consentita "soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria
con le garanzie stabilite dalla legge".
Tale norma ha indubbia natura precettiva e mira a proteggere due
distinti interessi: "... quello inerente alla libertà e alla
segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai
diritti della personalità definiti inviolabili dall'art. 2 Cost., e
quello connesso all'esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale
a dire ad un bene anch'esso oggetto di protezione costituzionale"
(cfr. C. Cost. sentenza n. 34/73). Affida, poi, il bilanciamento di
tali interessi e, quindi, la loro concreta tutela ad una duplice
riserva, di legge e di giurisdizione, demandando cioè al
legislatore ordinario l'individuazione delle "garanzie" che
consentono limitazioni dei valori indicati dal dettato
costituzionale e al provvedimento motivato dell'autorità
giudiziaria la legittimazione delle predette restrizioni.
"La stretta attinenza della libertà e della segretezza della
comunicazione al nucleo essenziale dei valori della personalità -
attinenza che induce a qualificare il corrispondente diritto come
parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e
senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con
i postulati della dignità umana (sent. C. Cost. n. 366/91) -
comporta un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire
a quella libertà, per quanto possibile, un significato espansivo",
nel senso di ricomprendervi tutto ciò che coessenzialmente vi è
legato e che contribuisce a non vanificare il contenuto del diritto
che il citato art. 15 intende assicurare al patrimonio inviolabile
di ogni persona (cfr. sent. C. Cost. 81/93; 281/98 in tema di
accesso investigativo ai c.d. tabulati, che evidenziano i "dati
esteriori" delle conversazioni telefoniche).
Il presidio costituzionale del diritto alla segretezza delle
comunicazioni non si estende anche ad un autonomo diritto alla
riservatezza. Quest'ultima è tutelata costituzionalmente soltanto
in via mediata, quale componente della libertà personale, vista nel
suo aspetto di libertà morale, della libertà di domicilio, nel suo
aspetto di diritto dell'individuo ad avere una propria sfera privata
spazialmente delimitata, e della libertà e segretezza della
corrispondenza e di ogni forma di comunicazione. In sostanza, la
riservatezza è costituzionalmente garantita nei limiti in cui la
stessa va ad incidere su alcuni diritti di libertà.
Immaginare che il Costituente abbia voluto imporre il silenzio
indiscriminato su ogni comunicazione interpersonale è cosa
contraria alla logica oltre che alla natura stessa degli uomini e
tale realtà non poteva sfuggire al Costituente. La riservatezza
può essere una virtù, ma non è sicuramente un obbligo assoluto,
imposto addirittura da una norma costituzionale, immediatamente
precettiva.
Basti, per altro, considerare che è lo stesso ordinamento ad
escludere una tutela generalizzata del diritto alla riservatezza
delle comunicazioni, posto che sono le leggi ordinarie che
assicurano, in casi specifici e determinati, in armonia con la
previsione "mediata" della Carta dei valori, tale tutela:
esemplificativamente, in tema di organizzazione dell'impresa (art.
2105 c.c.), di segreto d'ufficio (artt. 15 T.U. n.3/57 e 28 legge n.
240/90), di lavoro domestico (art. 6 legge 2/4/58 n. 339), di
segreto professionale, scientifico e industriale ( artt. 622 e 623
c.p.).
La tutela del diritto alla riservatezza, intesa nel senso innanzi
precisato, è in linea con l'interpretazione che ne è stata data
dal Giudice delle leggi (C. Cost. n. 81/93) e da queste stesse
Sezioni Unite (cfr. sent. 23/2/00, D'Amuri) in relazione alla
diffusione da parte di terzi dei dati "esteriori" delle
comunicazioni telefoniche che, in via di principio, devono rimanere
nell'esclusiva disponibilità dei soggetti interessati.
La normativa in tema di intercettazioni dà attuazione all'esigenza
costituzionale di cui all'art. 15 della Carta fondamentale, che, pur
non sottovalutando, ma tenendo nel debito conto, l'inderogabile
dovere dello Stato di prevenire e reprimere i reati, prevede
l'attuazione di tale dovere nell'assoluto rispetto di particolari
cautele dirette a tutelare l'inviolabilità della libertà e della
segretezza delle comunicazioni, bene questo intimamente connesso
alla protezione del nucleo essenziale della dignità umana e al
pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali.
Gli art. 266 e ss. c.p.p., infatti, fissano i limiti in cui è
ammessa la ricerca della prova per mezzo dello strumento captativo,
che ha notevole capacità intrusiva, stabiliscono i presupposti e le
forme dei provvedimenti autorizzativi delle intercettazioni,
disciplinano lo svolgimento delle operazioni, i modi di acquisizione
e conservazione della relativa documentazione, l'utilizzabilità dei
risultati in altri procedimenti e prevedono, infine, sanzioni
processuali per la violazione delle regole.
È necessario, quindi, individuare i contenuti della nozione di
intercettazione, allo scopo di delimitare l'ambito operativo della
normativa in questione e verificare, poi, se possano essere
introdotti nel processo, con modalità di acquisizione diverse,
elementi probatori comunque inerenti a conversazioni o
comunicazioni.
3 - Il codice non offre una definizione dell'intercettazione, ma dal
complesso normativo, che ne prevede l'autorizzazione e ne regola i
presupposti, lo svolgimento delle operazioni e l'utilizzabilità dei
risultati, si evince che l'intercettazione "rituale" consiste
nell'apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una
conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone
da parte di altri soggetti, estranei al colloquio. Questa
caratterizzazione in senso restrittivo del concetto
d'intercettazione, astrattamente suscettibile di interpretazioni
più estensive, è l'unica in sintonia con la disciplina legale di
cui al capo IV, titolo III, libro III del c.p.p. (cfr., nello stesso
senso, C. Cost. sent. n. 81/93; SS.UU. 23/2/00, D'Amuri).
L'intercettazione di comunicazioni interprivate richiede, quindi,
perché sia qualificata tale, una serie di requisiti: a) i soggetti
devono comunicare tra loro col preciso intento di escludere estranei
dal contenuto della comunicazione e secondo modalità tali da tenere
quest'ultima segreta: una espressione del pensiero che, pur rivolta
ad un soggetto determinato, venga effettuata in modo poco discreto
sì da renderla percepibile a terzi (ad esempio, parlando ad alta
voce in pubblico, servendosi di onde radio liberamente captabili),
non integra il concetto di "corrispondenza" o di "comunicazione",
bensì quello di "manifestazione", con l'effetto che si rimane al di
fuori del fenomeno in esame e viene in considerazione l'art. 21 e
non l'art. 15 della Costituzione; d'altra parte, la volontaria
scelta di modalità comunicative che rendano accessibili a terzi i
corrispondenti dati di conoscenza pone la cognizione di questi
ultimi fuori della garanzia assicurata dall'art. 15 Cost.; b) è
necessario l'uso di strumenti tecnici di percezione
(elettro-meccanici o elettronici) particolarmente invasivi ed
insidiosi, idonei a superare le cautele elementari che dovrebbero
garantire la libertà e segretezza del colloquio e a captarne i
contenuti: tanto è desumibile dalla lettera della norma (art. 268
c.p.p.) che impone di effettuare - di regola - le operazioni di
intercettazione "per mezzo degli impianti installati nella Procura
della Repubblica" ed, eccezionalmente, "mediante impianti di
pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria"; non
v'è, pertanto, intercettazione "rituale" se l'operatore non si
avvale dei detti strumenti e se la cognizione non avviene mediante
la predisposizione di un apparato tecnico capace di captare la
comunicazione mentre si svolge (particolare è il caso,
riconducibile anche nel concetto d'intercettazione, pur
discostandosene dallo schema tipico, del terzo che provveda a
nascondere - per poi ovviamente recuperarlo - un apparecchio
magnetofonico in funzione nella stanza destinata ad ospitare una
conversazione tra altre persone, con ascolto "in differita" della
riproduzione); c) l'assoluta estraneità al colloquio del soggetto
captante che, in modo clandestino, consenta la violazione della
segretezza della conversazione.
3a - Ciò posto, deve escludersi che possa essere ricondotta nel
concetto d'intercettazione la registrazione di un colloquio,
svoltosi a viva voce o per mezzo di uno strumento di trasmissione,
ad opera di una delle persone che vi partecipi attivamente o che sia
comunque ammessa ad assistervi. Difettano, in questa ipotesi, la
compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il
cui contenuto viene legittimamente appreso soltanto da chi
palesemente vi partecipa o vi assiste, e la "terzietà" del
captante. La comunicazione, una volta che si è liberamente e
legittimamente esaurita, senza alcuna intrusione da parte di
soggetti ad essa estranei, entra a fare parte del patrimonio di
conoscenza degli interlocutori e di chi vi ha non occultamente
assistito, con l'effetto che ognuno di essi ne può disporre, a meno
che, per la particolare qualità rivestita o per lo specifico
oggetto della conversazione, non vi siano specifici divieti alla
divulgazione (es.: segreto d'ufficio).
Ciascuno di tali soggetti è pienamente libero di adottare cautele
ed accorgimenti, e tale può essere considerata la registrazione,
per acquisire, nella forma più opportuna, documentazione e quindi
prova di ciò che, nel corso di una conversazione, direttamente pone
in essere o che è posto in essere nei suoi confronti; in altre
parole, con la registrazione, il soggetto interessato non fa altro
che memorizzare fonicamente le notizie lecitamente apprese
dall'altro o dagli altri interlocutori.
L'acquisizione al processo della registrazione del colloquio può
legittimamente avvenire attraverso il meccanismo di cui all'art.
234/1° c.p.p., che qualifica "documento" tutto ciò che rappresenta
"fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la
fonografia o qualsiasi altro mezzo"; il nastro contenente la
registrazione non è altro che la documentazione fonografica del
colloquio, la quale può integrare quella prova che diversamente
potrebbe non essere raggiunta e può rappresentare (si pensi alla
vittima di un'estorsione) una forma di autotutela e garanzia per la
propria difesa, con l'effetto che una simile pratica finisce col
ricevere una legittimazione costituzionale.
Una parte della dottrina ha negato il carattere di prova documentale
al nastro registrato e ha, pertanto, escluso che lo stesso, in
quanto rappresentativo di dichiarazioni e non di "fatti, persone o
cose", possa essere introdotto nel processo.
È agevole replicare che il codice identifica e definisce il
documento "in ragione della sua attitudine a rappresentare"
(relazione al prog. prel. del nuovo codice), senza discriminare tra
i differenti mezzi di rappresentazione e le differenti realtà
rappresentate e senza operare alcuna distinzione tra
rappresentazione di fatti e rappresentazione di dichiarazioni (cfr:
C. Cost: sent. n. 142/92). La dichiarazione, per altro, considerata
nella sua globalità, integra un "fatto" e la relativa registrazione
documenta non soltanto la circostanza che un determinato soggetto ha
parlato in un certo contesto spazio-temporale, ma anche che ha
pronunciato quelle parole che risultano incise sul nastro, salva
ovviamente ogni valutazione circa la genuinità del documento, la
fedeltà della riproduzione e la veridicità delle dichiarazioni di
scienza così come registrate.
D'altra parte, la legittimità - in tesi - di una tale prova
documentale non può essere posta seriamente in dubbio, ove si
consideri che essa ha per oggetto fatti in ordine ai quali nessuno
dubita della praticabilità della testimonianza de relato,
espressamente disciplinata dall'art. 195 c.p.p.. Alla testimonianza
dell'ascoltatore, quindi, si affianca, come tipico mezzo di prova
del fatto "dichiarazione stragiudiziale", la riproduzione
fonografica dell'atto dichiarativo. Se quest'ultima viene offerta al
giudice come prova anziché il resoconto testimoniale, la vox mortua
proveniente dall'incisione fonografica finisce con l'assolvere
"l'identica funzione della vox viva del teste", considerato che
"riferisce, come riferirebbe un testimone, le parole di chi ha
emesso la dichiarazione".
Sulla generica ammissibilità della c.d. "prova magnetofonica", sia
pure intesa come "prova innominata", si concordava in dottrina e
giurisprudenza già nel vigore del codice di rito abrogato, che pure
nulla disponeva al riguardo. Il nuovo codice rende superflua ogni
discussione in argomento, considerato che l'art. 234 non soltanto
fuga ogni possibile dubbio circa l'ammissibilità della prova
fonografica, ma offre una definizione normativa di prova documentale
che, nel suo più ampio significato, ricomprende anche quella in
discussione.
È ovvio che non deve trattarsi della riproduzione meccanica di atti
processuali e, pertanto, vanno escluse dal novero di prove
documentali le riproduzioni fonografiche di cui agli art. 134/3°-4°,
139, 141 bis, 214/3°, 219/2°, 398/5° bis c.p.p..
La prova documentale in senso stretto è caratterizzata da una
genesi "strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto alla
vicenda processuale" e si forma fuori dell'ambito processuale, nel
quale deve essere introdotta per acquistare rilevanza.
Al nastro magnetico, dunque, non va negata, in linea generale,
un'autonoma efficacia rappresentativa, che prescinde dalla
testimonianza dell'autore della registrazione.
3b - Nè può fondatamente sostenersi che la divulgazione del
contenuto del colloquio da parte di chi lo ha registrato sarebbe
inibita dall'art. 15 Cost., posto che il diritto alla riservatezza,
non atteggiandosi, in questo caso, come componente essenziale del
diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni, non si pone
come valore costituzionalmente protetto e, ove non risulti neppure
assicurato da specifiche previsioni della legge ordinaria, cede di
fronte all'esigenza di formazione e di conservazione di un mezzo di
prova. Il diritto alla riservatezza - come si è detto - non vive
nell'ordinamento sulla base di una previsione generalizzata, ma è
il legislatore che di volta in volta ne dispone la genesi e la
tutela. Il Costituente si è semplicemente preoccupato di garantire
gli interlocutori dalla arbitraria e fraudolenta intrusione di
terzi. Esauritosi il rapporto tra il comunicante ed il destinatario,
residua solo un fenomeno di diffusione della notizia da parte di chi
legittimamente l'ha acquisita, il quale potrà, salvo che una
specifica norma dell'ordinamento gliene faccia divieto, comunicare a
terzi la notizia ricevuta e, più specificamente, nell'ambito del
processo, potrà deporre come testimone su quanto gli è stato
riferito e/o consegnare il nastro registrato.
Il divieto di divulgazione di notizie legittimamente apprese, quale
espressione del diritto di riservatezza del comunicante, non ha
carattere assoluto neppure alla luce della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo (C.E.D.U.), resa esecutiva in Italia con legge n.
848/55.
È vero che, nella genericità della formula normativa adottata dal
legislatore pattizio nell'art. 8 della Convenzione, è ricompressa
la salvaguardia dell'interesse alla riservatezza, anche nel suo
aspetto più "evoluto" di interesse al controllo sulla gestione
delle informazioni fornite a terzi, ma non può sottacersi che il 2°
comma del richiamato articolo pone l'accento, in particolare, su
condotte di "introduzione, intromissione, interferenza" e non anche
su condotte divulgative e che il successivo art. 10, al comma 1°,
riconosce il diritto alla "libertà di espressione" e quindi alla
"... libertà di ricevere o di comunicare informazioni" di cui si è
venuti legittimamente in possesso e, al secondo comma, prevede che
l'esercizio di tale diritto può "essere subordinato a determinate
formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", anche "per impedire
la diffusione di informazioni riservate", il che significa che la
concreta tutela della riservatezza rimane affidata ad espresse
previsioni della legge ordinaria di ogni singolo Stato aderente alla
Convenzione.
4 - Ritenuta, pertanto, l'ammissibilità della prova documentale,
integrata dalla registrazione fonografica di una comunicazione tra
presenti (o anche tra persone che si servono di uno strumento di
trasmissione) ad opera di uno degli interlocutori o di persona
ammessa ad assistervi, va affrontato il tema della concreta
utilizzabilità, nel processo, di una simile prova.
4a - Non pone problemi particolari il caso in cui la registrazione
sia effettuata da un privato e il documento fonografico venga,
quindi, ad esistenza al di fuori dell'ambito processuale e di ogni
attività investigativa e assuma una propria autonomia strutturale
rispetto a questi. Non v'è dubbio che, in tale ipotesi, la prova
rappresentativa, formatasi presumibilmente in maniera spontanea e
libera, essendo "precostituita", ben può essere acquisita al
processo ed utilizzata dal giudice ai fini della decisione, perché,
data la sua genesi, è insensibile a qualunque verifica circa il
rispetto delle regole in materia di assunzione della prova, regole
di cui il privato non è destinatario e che non operano oltre i
confini processuali o, quanto alle indagini, oltre quelli
procedimentali.
4b - Ben più delicato è il caso in cui il documento fonografico
sia formato per iniziativa di un operatore della polizia
giudiziaria, che occultamente registra il contenuto di una
conversazione alla quale partecipa.
Emerge immediatamente, in questa ipotesi, una problematica che,
prescindendo dalla "teorica" ammissibilità delle registrazioni
clandestine a cura del partecipe al colloquio, si focalizza
specificamente sulla particolare qualità del medesimo partecipe;
non assumono cioè rilevanza il tema della registrazione quale prova
documentale e quello connesso della disciplina costituzionale e
processuale sulla riservatezza delle comunicazioni; l'attenzione,
invece, va concentrata sulla legittimità dell'atto compiuto dalla
polizia giudiziaria: assume, in sostanza, importanza secondaria il
fatto che le informazioni siano state stabilmente impresse su nastro
magnetico; il documento fonico, di per sè, per la sola ragione che
è - in tesi - legittimato dall'art. 234 c.p.p., non rende valida ed
utilizzabile un'acquisizione invalida, perché in violazione di
altri divieti stabiliti, nel caso specifico, dalla legge.
La pratica investigativa di ricorrere alla registrazione occulta di
colloqui che la polizia giudiziaria intrattiene con confidenti,
persone informate dei fatti, indagati o indagabili va decisamente
scoraggiata, perché, stenta, innanzi tutto, a conciliarsi con il
disposto degli art. 188 e 189 c.p.p., per il naturale sospetto della
presenza di insidie di natura fraudolenta che possono incidere sulla
libertà morale della persona interessata, e perché soprattutto
deve rapportarsi, per ricevere legittimazione, alle altre regole che
presidiano determinati mezzi di prova.
La "deformalizzazione" del contesto nel quale determinate
dichiarazioni vengono percepite dal funzionario di polizia non deve
costituire un espediente per assicurare comunque al processo
contributi informativi che non "sarebbe stato possibile ottenere
ricorrendo alle forme ortodosse di sondaggio delle conoscenze del
dichiarante".
Non può legittimarsi, sulla scia di una cultura inquisitoria che,
in quanto estranea al vigente codice, deve essere definitivamente
abbandonata, l'apertura di varchi preoccupanti nella tassatività e
nella legalità del sistema probatorio, proponendosi "veicoli di
convincimento...affidati interamente alle scelte
dell'investigatore". Va superata ogni forma di distonia tra prassi
delle indagini, condizionata ancora da atteggiamenti inquisitori, e
concezione codificata della prova, qual è strutturata nel vigente
sistema accusatorio. Va vinta qualunque tentazione di forzare le
regole processuali in nome di astratte esigenze di ricerca della
verità reale, considerato che le dette regole non incorporano
soltanto una neutra disciplina della sequenza procedimentale, ma
costituiscono una garanzia per i diritti delle parti e per la
"stessa affidabilità della conoscenza acquisita".
5 - In sostanza, il problema delle violazioni eventualmente commesse
nell'uso investigativo del registratore va risolto alla luce
dell'art.191 c.p.p., che rappresenta la consacrazione e l'estensione
delle affermazioni contenute nella nota sentenza n. 34/'73 della
Corte Costituzionale (tanto che nella relazione ministeriale alla
detta norma si evoca proprio tale importante pronuncia). Il
richiamato articolo, infatti, ancora, in via generale, la sanzione
dell'inutilizzabilità alla violazione dei divieti stabiliti dalla
"legge", superando così l'antica tesi che si basava su di una sorta
di "autonomia" del diritto processuale penale in relazione ai vizi
della prova, che quindi possono trovare la loro fonte in tutto il
corpus normativo a livello di legge ordinaria o superiore ( già
queste Sezioni Unite hanno ritenuto l'inutilizzabilità di prove
c.d. incostituzionali: 25/3/98, Manno; 13/7/98, Gallieri; 23/2/2000,
D'Amuri).
Di fronte ad una previsione normativa così perentoria e radicale,
è evidente che la palese violazione dello schema legale rende
l'atto investigativo, che si pone al di fuori di tale schema,
infruttuoso sul piano probatorio, per violazione della legge
processuale.
Nè vanno sottaciute specifiche norme processuali, correlate alla
detta prescrizione generale, che prevedono divieti probatori
sanzionati dall'inutilizzabilità (artt. 62, 63, 141 bis, 195, 203
c.p.p).
L'atto documentato in forma differente da quella prescritta, sebbene
non possa ritenersi, come pure si è affermato (cfr. Cass. Sez. I
12.10.94, Savignano), inesistente o nullo in sè (patologia
statica), sintetizza certamente un'attività di indagine
illegittimamente svolta e non può assumere, pertanto, valore di
prova (c.d. patologia dinamica).
5a - Ciò posto, la registrazione effettuata dalla p.g. di
dichiarazioni, conversazioni, colloqui non è utilizzabile
processualmente tutte le volte che viola il divieto di testimonianza
posto dagli artt. 62 e 195/4° c.p.p., quello della ricezione di
dichiarazioni indizianti rese, senza il rispetto delle garanzie
difensive, dalla persona sottoposta ad indagini o dall'imputato
(art. 63 c.p.p.), nonché quello concernente le dichiarazioni dei
c.d."confidenti" della polizia e dei servizi di sicurezza (art. 203
c.p.p.).
Come si è sopra accennato, la spendibilità processuale delle
registrazioni clandestine si gioca sulla pertinenza del documento
fonico alla rappresentazione di notizie (aventi ad oggetto il
contenuto del colloquio) che ben possono essere introdotte nel
processo attraverso la testimonianza del partecipe implicato nella
registrazione.
Il regime di ammissibilità della particolare prova documentale
costituita dalla registrazione ad opera della p.g. non può che
essere conformato proprio alle regole di preclusione della
testimonianza sulle dichiarazioni di terzi.
Il riferimento immediato va al divieto di deposizione de relato per
gli organi di polizia che abbiano acquisito, nell'espletamento della
propria funzione investigativa, atti dichiarativi.
Va, inoltre, sottolineata la diversità di regolamentazione prevista
per la deposizione indiretta di fonte "comune", che non è deputata
ad attività investigative, rispetto a quella "qualificata"
proveniente dalla polizia giudiziaria, e ciò proprio al fine di
evitare che abbiano ingresso nel processo atti investigativi non
ammissibili e non utilizzabili.
L'art. 195/4° c.p.p., nella vigente formulazione, vieta la
testimonianza del funzionario di polizia "sul contenuto delle
dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli
art. 351 e 357/2° lett. a e b". Il divieto, quindi, ha per oggetto:
a) le sommarie informazioni assunte dalle persone che possono
riferire circostanze utili ai fini delle indagini, per le quali
l'art. 357/2° lett. c) c.p.p. prescrive la redazione di apposito
verbale; b) le informazioni assunte, anch'esse da verbalizzare,
dalle persone imputate in un procedimento connesso o collegato; c)
Le sommarie informazioni rese e le spontanee dichiarazioni ricevute
da soggetti indagati, per le quali pure è prescritta la redazione
del verbale (art. 357/2° lett. b), anche se la superfluità di tale
specifica previsione è insita nella preclusione testimoniale già
perentoriamente espressa dall'art. 62 c.p.p. per le dichiarazioni
comunque rese dall'imputato o dall'indagato nel corso del
procedimento; d) il contenuto narrativo delle denunce, querele e
istanze presentate oralmente e soggette a verbalizzazione, atti che
comunque, ove contengano sommarie informazioni testimoniali, sono
riconducibili nella previsione degli art. 351 e 357/2° lett. c)
c.p.p..
Si è voluto così circoscrivere il ripristinato divieto della
testimonianza indiretta, in attuazione della nuova formulazione
dell'art. 111 Cost. e a superamento della sentenza n. 24/'92 della
Corte Costituzionale (che lo aveva dichiarato costituzionalmente
illegittimo), soltanto agli atti tipici di contenuto dichiarativo
compiuti dalla p.g., i quali devono essere documentati mediante la
redazione di un apposito verbale.
Il riferimento alle "modalità di cui agli art. 351 e 357" contenuto
nell'art. 195/4° c.p.p. non può essere interpretato nel senso di
rendere legittima la testimonianza di secondo grado del funzionario
di polizia in caso di mancata verbalizzazione (pur sussistendone
l'obbligo) dell'atto di acquisizione delle informazioni ricevute.
Così interpretata, la norma finirebbe per tradire il suo scopo
fondamentale, che è quello di evitare l'introduzione nel
dibattimento, a fini probatori, di dichiarazioni acquisite in un
contesto procedimentale non correttamente formalizzato, di
salvaguardare il principio di formazione della prova nel
contraddittorio del dibattimento e di sanzionare, quindi, l'obbligo
di documentazione dell'attività investigativa tipica della p.g.,
osservando le particolari modalità prescritte dal codice di rito,
che non consente di surrogare la redazione del verbale (che
costituisce una formalizzazione in funzione documentativa comunque
irrinunciabile) con la registrazione.
L'interpretazione rigorosa e coerente del quarto comma dell'art. 195
c.p.p., strutturato in termini di complementarità con le modalità
di documentazione del contenuto delle dichiarazioni acquisite in
sede di indagini e con il meccanismo di lettura dibattimentale
dell'atto divenuto irripetibile, non può che essere nel senso che
esso vieti non soltanto la testimonianza indiretta sulle
dichiarazioni regolarmente acquisite in sede di sommarie
informazioni, ma anche quella sulle dichiarazioni che "si sarebbero
dovute acquisire con le modalità di cui all'art. 351 c.p.p.".
L'indirizzo giurisprudenziale, secondo cui la mancata
verbalizzazione di determinati atti tipici non sarebbe di ostacolo
alla testimonianza di secondo grado ( Cass. 30/6/99, Santoro;
29/11/99, Lanzillotta; 4/3/98, Bodilli), non è più in linea col
nuovo sistema, il quale ha voluto evitare elusioni in forma
surrettizia del principio del contraddittorio.
Gli "altri casi" per i quali l'art. 195/4° legittima la
testimonianza de auditu del funzionario di polizia si riducono alle
sole ipotesi in cui dichiarazioni di contenuto narrativo siano state
rese da terzi e percepite dal funzionario "al di fuori di uno
specifico contesto procedimentale di acquisizione delle medesime",
in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza
e, quindi, al di fuori di un "dialogo tra teste e ufficiale o agente
di p.g., ciascuno nella propria qualità". Esemplificativamente, si
pensi alle frasi pronunciate dalla persona offesa o da altri
soggetti presenti al fatto, nell'immediatezza dell'episodio
criminoso; alle dichiarazioni percepite nel corso di attività
investigative tipiche - quali perquisizioni, accertamenti su luoghi
- o atipiche - quali appostamenti, pedinamenti, ecc. -; in tali
casi, è acquisibile ed utilizzabile, come documento, anche
l'eventuale registrazione su nastro magnetico delle comunicazioni
percepite.
Tale interpretazione, che appare l'unica ragionevole e
costituzionalmente corretta, trova indiretto conforto nei recenti
interventi della Consulta (cfr. sent. n. 32/'02 e ord. n. 36/'02),
che ha rimarcato il senso del principio del contraddittorio nella
formazione della prova, previsto dall'art. 111 Cost.: "...da questo
principio con il quale il legislatore ha dato formale riconoscimento
al contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto di
giudizio, deriva quale corollario il divieto di attribuire valore di
prova alle dichiarazioni raccolte unilateralmente dagli organi
investigativi" (sentenza n. 32/02); "l'art. 111 Cost. [ha]
espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del
contraddittorio, anche nella prospettiva della impermeabilità del
processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale
raccolto in assenza della dialettica tra le parti; ... alla stregua
di tale opzione appare del tutto coerente la previsione di istituti
che mirino a preservare la fase del dibattimento...da contaminazioni
probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel corso delle
indagini preliminari" (ordinanza n. 36/02).
L'esposta disciplina sul divieto di testimonianza indiretta degli
ufficiali ed agenti della p.g. non appare irragionevole e
discriminatoria neppure nel raffronto con quella relativa
all'incompatibilità a testimoniare (art. 197/1° lett. d c.p.p.) del
"difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva" e
di "coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e
delle informazioni assunte ai sensi dell'art. 391ter" c.p.p.. Tale
incompatibilità, anzi, se correttamente interpretata in armonia con
l'art. 111/4° Cost., non lascia alcuno spazio all'aggiramento delle
regole di esclusione probatoria (cfr. sent. 32/02 C. Cost.). Nè la
possibilità offerta al difensore e agli investigatori privati, ex
art. 391 bis c.p.p., di procedere a colloqui informali e non
documentati determina una disparità di trattamento tra le parti
processuali, atteso che detti colloqui, proprio perché non
documentati e funzionali all'eventuale attività investigativa della
difesa, risultano, di per sè, insuscettibili d'impiego, ai sensi
dell'art. 391 decies c.p.p.. La possibile deposizione testimoniale,
salvo ad opporre il segreto professionale ex art. 200 c.p.p.,
dell'investigatore privato, non destinatario della previsione
d'incompatibilità di cui all'art. 197/1° lett. d) c.p.p., sui
colloqui informali intrattenuti, pur apparendo una scelta non
felice, finisce col ricadere nella disciplina di cui all'art.
195/1°-2°-3° c.p.p., il che non determina alcuno squilibrio del
sistema, che, in questo specifico caso, non impone alcuna regola
"tipica" per la spendibilità processuale del contenuto di tali
"colloqui" (al di là di ogni considerazione sulla rilevanza del
contenuto degli stessi, se non seguiti da "dichiarazione scritta" o
"informazioni" documentate dei soggetti sentiti).
5b - Conclusivamente, per quello che qui interessa, non possono
essere acquisiti al processo e non possono essere utilizzati, come
materiale probatorio, documenti fonografici rappresentativi di
sommarie informazioni rese alla p.g. (e da questa clandestinamente
registrate) da persone a conoscenza di circostanze utili ai fini
delle indagini, perché, in tale maniera, si renderebbe il processo
permeabile da apporti probatori unilaterali degli organi
investigativi e soprattutto si aggirerebbero le regole sulla
formazione della prova testimoniale nel contraddittorio
dibattimentale.
Non diversa deve essere la conclusione per il dictum formalmente
extraprocedimentale dell'indiziato (o di chi deve ritenersi
sostanzialmente tale ovvero dell'indagato o dell'imputato di reato
connesso o collegato) che, però, si collochi in un contesto di
ricerca investigativa preordinato alla sua acquisizione e che sia
oggetto di memorizzazione fonica. L'acquisizione del relativo
documento magnetico consentirebbe, in questo caso, un facile
aggiramento del disposto dell'art. 63/2° c.p.p., che proibisce
l'utilizzo di qualsiasi dichiarazione resa dall'indagato alla p.g.,
in mancanza delle prescritte garanzie difensive.
Anche le notizie provenienti dagli "informatori" della p.g. e da
questa impresse su nastro magnetico non possono essere veicolate nel
processo, attraverso l'acquisizione e l'utilizzazione del documento
fonografico (o attraverso la sola testimonianza indiretta). Ciò
urta contro il divieto probatorio di cui all'art. 203 c.p.p., a sua
volta correlato alla generale prescrizione dell'art. 191 c.p.p..
Secondo il disposto del citato art. 203/1°, le informazioni fornite
dai confidenti non possono essere acquisite e utilizzate se i
predetti non sono esaminati come testimoni (l'operatività della
norma è stata, in maniera espressa, estesa - mediante l'aggiunta
del comma 1bis ad opera dell'art. 7 della legge n. 63/01 - alle fasi
diverse dal dibattimento).
Il legislatore, nell'optare per la drastica sanzione
dell'inutilizzabilità, ha inteso sottolineare che, in tale ipotesi,
ci si trova di fronte a materia indisponibile, in cui gli effetti
dell'atto assunto in violazione del precetto normativo sono
determinati dallo stesso legislatore, senza possibilità per le
parti di farvi acquiescenza. La previsione dell'inutilizzabilità,
per altro, è prevista in via generale anche dall'art. 195/7°
c.p.p., laddove è stabilito che "non può essere utilizzata la
testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la
persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto
dell'esame". Il materiale probatorio proveniente dai confidenti di
polizia, infatti , in quanto di norma assunto nel segmento
dell'attività investigativa più lontano e refrattario al controllo
giurisdizionale, è oggettivamente pericoloso e inaffidabile, tanto
più quando venga acquisito in forma mediata; da qui
l'obbligatorietà della diretta escussione del confidente, se ne
vengano indicate le generalità . Competerà, poi, al giudice, come
in ogni altro caso, la valutazione di attendibilità della notizia
confidenziale e della testimonianza diretta, ove i relativi
contenuti divergano.
5c - Le considerazioni sin qui svolte consentono di enunciare i
seguenti principi di diritto:
" La registrazione fonografica di una conversazione o di una
comunicazione ad opera di uno degli interlocutori, anche se
operatore di polizia giudiziaria, e all'insaputa dell'altro (o degli
altri) non costituisce intercettazione, difettandone il requisito
fondamentale, vale a dire la terzietà del captante, che
dall'esterno s'intromette in ambito privato non violabile." "La
registrazione del colloquio, in quanto rappresentativa di un fatto,
integra la prova documentale disciplinata dall'articolo 234/1°
c.p.p.." "Il documento fonografico è pienamente utilizzabile se non
viola specifiche regole di acquisizione della prova." "Non è
utilizzabile come prova la registrazione fonografica effettuata
clandestinamente da personale della polizia giudiziaria e
rappresentativa di colloqui intercorsi tra lo stesso ed i suoi
confidenti o persone informate dei fatti o indagati, perché urta
contro i divieti di cui agli art. 63/2°, 191, 195/4°, e 203 c.p.p.".
6 - Altro problema dedotto con i motivi di ricorso attiene ai limiti
di operatività dell'art. 512 c.p.p..
Tale norma prevede una forma di irripetibilità sopravvenuta ed
estrinseca di atti assunti in sede di indagini preliminari e,
quindi, la possibilità di "ripescaggio" di tale materiale
probatorio, di cui imprevedibilmente ne sia divenuta impossibile la
ripetizione.
Due, quindi, sono le condizioni necessarie per l'operatività della
norma in questione, che costituisce un 'eccezione al principio
dell'oralita' del processo: a) sopravvenienza di una situazione
imprevedibile nel momento in cui l'atto è stato assunto; b) non
reiterabilità dell'atto per effetto di una situazione non
ordinariamente superabile.
La valutazione circa la ricorrenza di tali condizioni è demandata
in via esclusiva al giudice di merito, il quale, in ordine alla
prima, deve formulare una prognosi postuma, sorretta da motivazione
adeguata e conforme alle regole della logica, e , in ordine alla
seconda, deve accertare la natura oggettiva dell'impossibilità di
formazione della prova in contraddittorio, apprezzando tale
evenienza liberamente non in termini di "assolutezza", ma di
realistica impossibilità (non di "mera difficoltà") di dare corso,
nel dibattimento, all'assunzione della medesima prova.
Anche dopo la modifica dell'articolo 111 Cost. con l'introduzione
dei principi del c.d. "giusto processo", possono essere lette ed
acquisite al fascicolo del dibattimento, ex art. 512 c.p.p., le
dichiarazioni rese da un teste nella fase delle indagini, qualora lo
stesso, per cause imprevedibili al momento del suo esame, risulti
irreperibile, atteso che tale situazione, la cui verifica non deve
essere meramente "burocratica e routinaria" (cfr. Sez.VI 19/2/03,
Bianchi; 8/1/03 Pantini), configura una delle ipotesi di oggettiva e
concreta impossibilità di formazione della prova in contraddittorio
previste dal precetto costituzionale (art.111/5° Cost.:"la legge
regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in
contraddittorio... per accertata impossibilità di natura oggettiva
...").
La situazione di accertata "irreperibilità" non può essere "tout
court" equiparata alla volontaria sottrazione all'esame di cui
all'art. 526/1bis c.p.p., che presuppone, comunque, la potenziale
attuabilità dell'audizione.
In sostanza, il sistema, pur muovendosi, in coerenza col dettato
costituzionale, nella prospettiva di privilegiare la forza
confutatrice del confronto tra accusato e accusatore, non trascura
di considerare il caso in cui tale confronto diventi oggettivamente
impossibile, onde recuperare, in linea con la deroga pure prevista
dalla Costituzione (art. 111/5°), il precedente narrativo.
Ne consegue che va affermato l'ulteriore principio di diritto:
"La disposizione di cui all'art. 512 c.p.p., secondo la quale può
darsi lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal
P.M., dai difensori e dal giudice nel corso dell'udienza preliminare
quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta
impossibile la ripetizione, è applicabile anche in caso di
irreperibilità del dichiarante, considerato che tale situazione, da
accertarsi con rigore, configura una ipotesi di oggettiva
impossibilità di formazione della prova in contraddittorio e non
può essere equiparata alla volontaria scelta di sottrarsi all'esame
di cui all'art. 526/1 bis c.p.p., che presuppone comunque la
potenziale attuabilità, in dibattimento, dell'audizione".
7 - Passando, quindi, ad analizzare i singoli motivi di ricorso, va
riassuntivamente osservato quanto segue.
7a - Non sussiste, innanzi tutto, il dedotto vizio di manifesta
illogicità della motivazione della gravata pronuncia, nella parte
in cui - per un verso - ritiene inutilizzabili le dichiarazioni
(registrate) fatte alla GdF da Gigliotti e da Ionadi e - per altro
verso - utilizzerebbe proprio tali dichiarazioni, quale prova delle
cessioni di droga ai predetti.
La doglianza - comune ai due ricorrenti - riposa su un equivoco di
fondo. Non v'è, infatti, coincidenza tra gli atti investigativi
ritenuti inutilizzabili dalla Corte di merito e gli elementi
probatori posti a base della decisione adottata sul punto.
Le dichiarazioni del Gigliotti prese in considerazione, invero, sono
quelle rese, con le prescritte garanzie difensive e nel rispetto del
contraddittorio, all'udienza dibattimentale del 24/10/00 e non già
il precedente narrato confidenziale di cui furono destinatari, tra
l'agosto '98 ed il maggio '99, i finanzieri Margiotta e Trovato,
anche se a tale precedente il dichiarante ha fatto riferimento per
relationem.
Le dichiarazioni dello Ionadi ritenute rilevanti sono le
informazioni, regolarmente verbalizzate, in data 13/10/99 e
03/05/00, le quali non coincidono con quelle precedentemente
registrate dell'11/03/99 e del 18/05/99 e ritenute inutilizzabili.
7b - Sussiste la denunciata violazione della legge processuale, con
riferimento all'acquisizione ed utilizzazione della registrazione
fonografica che documenta il colloquio "confidenziale" intercorso,
il 29/05/99, tra Francesco Cittadino ed il sottufficiale della GdF
Margiotta.
Se il Cittadino, come sembra evincersi da alcuni passaggi espositivi
delle sentenze di merito, svolse il ruolo di "confidente" della
polizia giudiziaria, le sue informazioni non possono trovare
ingresso nel processo e non possono essere utilizzate come prova,
perche', per quanto sopra esposto, si viola così il disposto
dell'art. 203 c.p.p., che impone l'esame diretto del
confidente-testimone. A tale esame diretto non si fa alcun cenno
nella decisione oggetto di verifica e neppure in quella di primo
grado.
Non può, tuttavia, la Corte ignorare che dal testo di entrambe le
sentenze di merito non emerge, con chiarezza, la sicura
identificazione della situazione con la fattispecie dell'art. 203
c.p.p., anche perché la persona chiamata a fornire le informazioni
sui fatti oggetto del procedimento non può, a causa delle sole
modalità irregolari di assunzione, qualificarsi come fonte
informativa della polizia. Il tratto distintivo del "confidente" è
semmai nella volontà, nel consenso del soggetto ad offrire notizie,
con l'assicurazione, garantita dalla legge processuale, di restare
in incognito: nel rapporto confidente-polizia non c'è inganno; esso
si regge sulla fiducia; la polizia protegge la fonte informativa e
la esclude - per quanto possibile - da ripercussioni processuali.
Tutto questo non si ricava, in modo univoco, dal testo della
sentenza impugnata, sicché non può escludersi che il Cittadino sia
stato sentito dalla GdF, al di là della qualificazione
nominalistica attribuitagli, come persona informata dei fatti ex
art. 351 c.p.p..
Anche in quest'ultima ipotesi, il documento fonico non può essere
utilizzato, perché - come precisato - viola il modello legale
previsto per la prova testimoniale, da assumersi nella dialettica
processuale delle parti, ed altera il delicato equilibrio che deve
contemperare poteri investigativi e garanzie.
È pur vero che la gravata sentenza, in ordine alla cessione di
droga al Cittadino, fa riferimento anche alla testimonianza del
M.llo Baldoni ed alle informazioni de relato fornite da Ionadi
Domenico, ma tali ulteriori elementi vengono apprezzati come meri
"riscontri" al contenuto della registrazione, la quale riveste un
ruolo centrale e decisivo nel percorso motivazionale seguito, che,
deprivato di tale importante emergenza non utilizzabile, perde ogni
consistenza.
Su questo specifico punto, che riguarda la sola posizione del
Torcasio, la sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio
ad altra Sezione della Corte d'Appello di Catanzaro, che dovrà, in
piena libertà di giudizio ma adeguandosi ai principi di diritto
sopra enunciati, rivalutare questa parte della contestazione
accusatoria alla luce dell'eventuale deposizione dibattimentale del
Cittadino (anche attivando, se del caso, lo strumento di cui
all'art. 603/3° c.p.p.) e di ogni altro elemento di giudizio
legittimamente acquisito.
7c - Non censurabile in questa sede è il giudizio di
responsabilità del Torcasio in ordine alla cessione di droga al
Gigliotti, giudizio fondato essenzialmente sulle dichiarazioni
dibattimentali di quest'ultimo ritenute pienamente attendibili,
esenti da sospetti inquinanti e riscontrate, quanto all'abituale
attività di spaccio praticata dal prevenuto, dal dictum dei
collaboratori di giustizia Di Stefano Massimo e D'Elia Pasqualino.
7d - Analoghe considerazioni vanno fatte quanto alla cessione di
droga dal Torcasio allo Ionadi, ritenuta provata dalle sommarie
informazioni da quest'ultimo rese in sede di indagini e lette in
dibattimento ex art. 512 c.p.p..
Il giudice di merito, in ordine alla legittimità di tale lettura,
ha offerto congrua e logica motivazione.
Nel momento in cui Ionadi rese, in data 13/10/99 e 3/5/00, in uno
spirito di piena collaborazione con gli inquirenti, le sommarie
informazioni che qui rilevano, non era prevedibile il suo futuro
comportamento e non era esigibile da parte degli inquirenti
un'attenzione maggiore di quella adottata, difettando elementi che
consigliassero - per esempio - l'attivazione dell'incidente
probatorio di cui agli art. 392 e ss. c.p.p..
L'accertamento della sopravvenuta irreperibilità dello Ionadi, come
oggettiva impossibilità di procurarsene la presenza in dibattimento
e verificarne la scelta comportamentale, non è stato meramente
burocratico e formale, ma sufficientemente approfondito, essendosi
evidenziata tutta la scrupolosa attività posta in essere per
garantire l'assunzione delle dichiarazioni del predetto nella
cornice del contraddittorio processuale.
7e - Sorretta da corretta, adeguata e logica motivazione è la
dichiarazione di colpevolezza del Cerra.
In ordine al primo motivo di ricorso da costui articolato, vanno
richiamate le considerazioni svolte in tema d'interpretazione
dell'art. 512 c.p.p. e quelle di cui al punto precedente.
Quanto al dedotto vizio di motivazione circa la cessione di droga al
Di Matteo, l'iter argomentativo della sentenza, fondato sulla
precisa deposizione testimoniale del predetto, resiste alla censura,
perché espressione di una valutazione in fatto immune da vizi di
manifesta illogicità.
Al rigetto del ricorso del Cerra consegue, di diritto, la condanna
di costui al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla l'impugnata sentenza nei confronti di Torcasio Ugo,
limitatamente alla cessione di sostanza stupefacente a Cittadino
Francesco, e rinvia per nuovo esame ad altra Sezione della Corte
d'Appello di Catanzaro. Rigetta nel resto il ricorso del Torcasio,
nonché il ricorso di Cerra Genni, che condanna al pagamento delle
spese processuali.
Così deciso in Roma, il 28 maggio 2003.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 SETTEMBRE 2003